venerdì 30 luglio 2010

AMERICA LATINA: 10 MILIONI DI POVERI E SEMPRE PIÙ DISEGUALE

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 Povertà senza vie d'uscita? (Credits: Ignacio Sanz by Flickr)

Dieci milioni di poveri (con un reddito inferiore a 1,25 dollari al giorno) in più in America Latina. Questo il bilancio fatto in Messico dal direttore della Banca Mondiale Robert Zoellick che ha registrato negli ultimi 20 anni un grande miglioramento nella lotta alla povertà in paesi come Brasile, Cina e India ma anche un totale di 60 milioni di nuovi poveri in tutto il mondo.
Tra i Paesi in cui la situazione è più critica c’è in testa il Messico che, secondo il ministro dell’economia Ernesto Cordero, conta oltre la metà di tutti i nuovi poveri del continente di cui fa parte. Riceverà presto dalla Banca Mondiale 800 milioni di dollari per nuovi progetti di sviluppo, infrastrutture, educazione e trasporti.
Resta poi aperto quello che per l’America Latina è ancora oggi il problema principale, ovvero quello della diseguaglianza tra classi sociali, calcolato con l’indice di Gini dal Programma Onu per lo Sviluppo (Undp): dei 15 Paesi al mondo con la distribuzione della ricchezza più diseguale, ben 10 appartengono al continente latinoamericano o ai Caraibi.
La Bolivia è lo Stato con il maggior contrasto del pianeta tra ricchi e poveri, assieme a Madagascar e Camerun. Seguono Haiti, Sudafrica, Tailandia, Ecuador e Brasile, con una diseguaglianza tra classi sociali superiore a quella dell’Uganda. Nei top 15 anche Honduras, Panama, Paraguay, Cile, Colombia e Guatemala.
paolo.manzo
Le cause della diseguaglianza la­tinoamericana sono strutturali. «La prima è la politica fiscale. Il sistema retributivo si basa in gran parte (il 9, 4 per cento) su impo­ste indirette al consumo, invece che sul reddito, come in Europa e negli Stati Uniti. In questo mo­do, grava con forza sulle classi più povere e favorisce i ricchi. Ec­co perché la riforma fiscale è un nodo chiave per ridurre la di­sparità sociale. Finora solo l’U­ruguay ha preso dei provvedi­menti. Il Cile ne sta discutendo ma il resto del Continente non ha ancora affrontato la questio­ne», aggiunge Luis Felipe Lopez Calva, econo­mista e responsabile per l’Ame­rica Latina dell’Undp. A questo, si aggiunge la difficoltà dei governi di «regolare» ovvero di fornire a chi non può pagare i servizi sociali di base: acqua, e­lettricità, alloggio e soprattutto i­struzione di qualità. «Ampliare l’educazione e migliorarne gli standard è l’altro cardine per combattere la disuguaglianza. Il caso brasiliano è emblematico», prosegue l’economista. Negli ul­timi otto anni, il governo Lula ha mandato a scuola quel 20 per cento di bambini che era esclu­so dal sistema. La disuguaglian­za è caduta di quasi una soglia a­naloga, pur mantenendo livelli alti. Il Brasile è, inoltre, la nazio­ne, insieme al Cile e Perù, che maggior progressi sta facendo nel ridurre le differenze di reddi­to. «A preoccupare è, invece, il caso del Costa Rica. È uno dei Paesi più “egualitari” della regio­ne eppure le disparità stanno crescendo sempre più negli ulti­mi anni», sostiene Lopez Calva. Sulla stessa scia, anche l’Hondu­ras.

BERLUSCONI E LA COMUNICAZIONE EMOTIVA

Un aspetto spesso sottovalutato del Cavaliere è la dote innata di venditore. Montanelli diceva che è il miglior piazzista del mondo, ma pochissimi capirono al tempo la valenza di questo talento naturale, soprattutto se abbinato al potere mediatico di cui dispone. E’ però semplicistico affermare che chiunque disponendo a proprio piacimento di un tale potere possa far eleggere anche un pregiudicato al Parlamento: può darsi che ci riesca, ma da qui a raggiungere una maggioranza così schiacciante c’è una differenza abissale.

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Per meglio comprendere le strategie comunicative, è necessario fare una premessa di carattere sociale: gran parte delle popolazioni vive in una frenesia continua, la famiglia è spesso solo una scatola, un appartamento, perché nel quotidiano è frantumata da decine di impegni personali. Entrambi i genitori lavorano per riuscire ad arrivare a fine mese, in una marea di piccoli problemi. I giovani raramente si interessano attivamente di politica, spesso ragionano per stereotipi o simpatie/antipatie.
Ne conseguono due aspetti negativi e perniciosi: la televisione, che per la sua praticità d’uso è il media imperante, e sappiamo quanto essa sia manipolata e chi la controlla. Il secondo è ancora più triste, ma è il vero snodo che ci conduce alla rapida e inarrestabile ascesa del Cavaliere: il fascino della capacità comunicativa. La politica, in un paese a regime capitalistico avanzato come è tutto il blocco occidentale, Italia inclusa, è, né più né meno, un “prodotto”, come un pacco di spaghetti o una lavastoviglie.
Questo fondamentale assioma, che può non piacere ma di cui purtroppo però ne è dimostrata la valenza assoluta, e di cui bisognerebbe che tutta la classe politica comprendesse l’ importanza, è il cardine su cui ruota tutta l’attività propagandistica del Cavaliere. Spesso leggiamo da firme prestigiose ed intelligenti che la politica non è una partita di calcio, ma in questa affermazione è insito un errore, perché sappiamo benissimo che andrà al governo chi vincerà le elezioni, e le elezioni si vincono contando i voti.
Se a ciò si aggiunge pure il recente “porcellum” elettorale, abbiamo ben due poteri dello stato decisi dalle elezioni e dalle segreterie: legislativo ed esecutivo. Perché ciò che avviene non è un mistero, è solamente il risultato del sapiente e continuo rimarcare i punti cardine della strategia comunicativa, anche in contesti nei quali c’entra poco o nulla: ad esempio, il Cavaliere è solito evocare il comunismo e i comunisti anche quando c’entrano come i cavoli a merenda. In questo modo evoca il “nemico” contro cui combatte, e raccontando che è un nemico numeroso e ben armato, evoca l’ immagine dell’ eroe senza paura contro le soverchianti forze avverse. Non importa che sia tutto falso, ciò che conta è saperlo raccontare bene! Questo aspetto è largamente sottovalutato da parte di politici legati alle tradizioni ormai secolari della politica seriosa e sonnolenta.
Tanto per fare un esempio reale di linguaggio incomprensibile, cito una dichiarazione di Bersani, parole dette nel 2009, non decine di anni fa: “La mia paura è che ci sia uno scarto tra il barocchismo del percorso, lo stato dell’organizzazione e certe tensioni divisive. E’ una contraddizione che se non riusciamo a governare può farci non capire nel paese”. Speriamo ci sia riuscito, anche se almeno io non ho capito di cosa parlasse, quindi, poiché credo di far parte di questo paese, qualcosa non mi torna. Se anche il soggetto di tale astruso pensiero fossero le questioni interne del partito (il contesto era questo) o una manovra fiscale sulle arance, non fa poi tutto sommato una grande differenza, resta incomprensibile comunque. Sia chiaro però che il Cavaliere non ha inventato nulla, l’ applicazione di strategie di marketing alla politica sono note da anni in USA, semmai le ha solo adattate agli usi e costumi nazionali. Niente di nuovo quindi, solo la capacità di comprendere che ciò in termini di voti paga.
Volendo approfondire questo tema cruciale, è interessante leggere il recente libro di Daniele Luttazzi “Guerra Civile Fredda”, nel quale illustra una teoria, anzi, sarebbe meglio dire “un sistema” definito “la comunicazione emotiva”, secondo la quale, fissando alcuni punti precisi e sistematicamente evocati, si riesce a convogliare su di sé il consenso di soggetti sociali che, a ben vedere, non traggono alcun vantaggio a votare in quel modo, anzi, ne sono sfavoriti.
Questa strategia, definita dagli strateghi politici neocon negli USA, è stata ripresa abbastanza fedelmente dal Cavaliere. Raccontare bene una storia, anche se falsa, crea un rapporto diretto fra narratore e uditore, il quale resterà quantomeno incuriosito dal seguito della storia e parteggerà per l’eroe (il narratore) votandolo. Luttazzi illustra questo sistema articolandolo in 5 punti cardine della narrazione, ed è innegabile che il Cavaliere li abbia sfruttati nel corso degli anni a proprio vantaggio.
1. Grandi ostacoli da superare (i comunisti in senso generale, come ho scritto prima)
2. Le proprie debolezze (rendono il narratore umano quindi “simile”)
3. La volontà ferrea di raggiungere lo scopo (governare e vincere il nemico)
4. L’ unicità del protagonista (si veda il giornaletto che ci inviò a casa nel ’94)
5. Protagonista e antagonista devono essere opposti in modo estremo (rif. punto 1)
Ampliando solo il primo di questi punti della narrazione, sappiamo bene che ricorre ad una immagine ormai retorica ed obsoleta, visti gli accadimenti di questi ultimi 20 anni, ma non c’entra nulla: ottiene l’ effetto voluto perché definisce con un termine preciso “il nemico” da combattere, il male verso cui occorre opporsi, che si tratti di avversari politici, di magistrati (toghe rosse) o la poca opposizione mediatica rimasta: tutti etichettati comunisti.
Poco o nulla importa che questi nemici non esistano realmente, è invocarli insistentemente che fa passare il messaggio vi siano forze da cui bisogna difendersi, instillando una paura che nei fatti è solo illusoria e al contempo esalta la figura dell’ uomo solo che li combatte. Quindi, definire precisamente e con un “nome” semplice, evocativo e ben conosciuto il nemico verso cui combattere, paga. Le masse si chiederanno: se lo dice lui sarà vero, meglio prevenire il rischio. E lo votano.
Non potendo disporre del tempo necessario per approfondire, finiscono per credergli. Inoltre, poiché la storia è raccontata bene, non c’è nemmeno una forte volontà di cercare delle conferme esterne. Infatti i dati statistici europei indicano che siamo il paese col tasso di lettura dei quotidiani fra i più bassi nell’ EU: solo 110 cittadini su 1.000.
Va notato che anche altre forze fanno ricorso a queste tecniche, non solo il Cavaliere. Un esempio analogo a lui, è nella rapida ascesa dell’ IDV: Di Pietro non fa mistero di chi sia il suo nemico, lo combatte duramente ed infatti l’elettorato lo premia.
Analogamente la Lega agisce allo stesso modo, anche se in maniera più subdola, perché evoca la naturale e radicata “paura del diverso” che è insita in ciascuno di noi, anche del più antirazzista che si conosca. E’ parte della memoria atavica, qualcosa che ci portiamo dentro da decine di millenni. Sarebbe da condannare duramente questo vile approccio politico leghista, ma è di facile presa nelle menti a-culturate, e a costoro è difficile spiegare qualsiasi cosa.
Anche la creazione di un paese irreale e inesistente come la padania è funzionale alla narrazione, così come lo è il federalismo fiscale: entrambi sono punti cardine della storia e vengono costantemente evocati.
Altri esempi sono ben riconoscibili negli slogan elettorali: Prodi prometteva di ridurre il “cuneo fiscale”, mentre Berlusconi uscì con il clamoroso “aboliremo l’ ICI”.  Il primo sappiamo essere una importante leva economica per rilanciare l’ economia, ma nella massa elettorale nessuno sa cosa sia il “cuneo fiscale”, il secondo è un argomento falso, perché era già abolita per le classi meno abbienti, ma è chiarissimo e comprensibilissimo, quindi di formidabile impatto elettorale.
Sempre, ad esempio, giova ricordare che Bill Clinton ospitò alla Casa Bianca, la prima notte da presidente, proprio il suo stratega d’ immagine: un onore non da poco, ma giustamente tributato a chi in pratica gli consegnò le chiavi di quella casa.
L’ approccio innovativo, non nel senso stretto del termine, ma nell’ adattamento al panorama politico nazionale di strategie note, la capacità comunicativa e l’assurdo concentramento televisivo nelle sue mani, sono quindi valide chiavi di lettura per comprendere almeno in parte il successo elettorale del Cavaliere. Anche una banalità come il perenne sorriso nelle occasioni di esposizione mediatica, fa capire quanto egli sia devoto alle strategie di marketing.
Di questa capacità comunicativa ne è consapevole lui stesso, e questo porta inevitabilmente verso una deriva di culto della personalità che ci riporta agli anni più bui del secolo scorso. La strategia comunicativa è quindi, a conti fatti, determinante per raggiungere le masse e quindi la maggioranza.
Sarebbe auspicabile che l’ opposizione iniziasse ad approfondire adeguatamente queste tematiche, viceversa non riusciremo mai a liberarci da questo regime.
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Ci sono poi anche altri aspetti che concorrono in modo decisivo al raggiungimento del fine.
Il momento storico della nascita di FI è importante. Non so se si possa parlare di fortuna, di coincidenza casuale, o di un preciso calcolo politico. Personalmente propendo per la terza ipotesi. Era impossibile prevedere il momento esatto del crollo del blocco orientale, ed era altrettanto impossibile prevedere che una banale inchiesta di corruzione, facesse nascere Tangentopoli e tutto ciò che ha significato in termini di crollo dei partiti storici.
Fatto è che il Cavaliere era l’ uomo giusto, al posto giusto, al momento giusto, e con i mezzi adeguati alla bisogna. Ciò che gli mancava se lo poteva procurare rapidamente, aveva già i contatti in casa (Dell’ Utri e Mangano).
Per quanto riguarda sempre la cronologia degli avvenimenti in quello che potremmo chiamare il biennio buio, vorrei proporre una personale lettura di un fatto: l’ attentato a Maurizio Costanzo, il primo della stagione stragistica mafiosa fuori dalla Sicilia. Secondo quanto riferisce Ezio Cartotto, solo Berlusconi e Dell’ Utri erano a conoscenza di quanto lui stava organizzando. Lo stesso Cartotto rivela che l’ entourage del Cavaliere non era tutto compatto per la “discesa in campo”, anzi, Letta, Confalonieri, Costanzo, Ferrara ed altri si opponevano decisamente. In questo quadro, dove abbiamo un nucleo di falchi che porta avanti un progetto in segreto (di cui faceva parte Craxi) e una fronda di colombe che lo osteggiano, quanto è credibile il Cavaliere che ricorda “pianti sotto la doccia” “l’animo macerato dai dubbi” e “mi domandavo cosa dovevo fare”? Poco o nulla. Piuttosto è molto più sincero quando dice “diranno che sono mafioso”, anche perché non si capiscono le ragioni “al tempo” per un’affermazione del genere. Oggi invece è provato che ha fondato FI assieme ad un fiancheggiatore della mafia, oltre ad avere avuto in casa un mafioso conclamato per anni.
Quindi quale può essere la chiave di lettura per l’attentato a Costanzo (tessera n° 1819 P2)? Quella di mandare un nemmeno troppo velato messaggio alle colombe che, curiosamente, si sono rapidamente allineate al progetto politico. Un altro aspetto da non sottovalutare è la presenza sul territorio.
Questo adagio è forse fin troppo abusato, ma è una delle chiavi più importanti di lettura per capire come sia stata possibile una così rapida ascesa. La criminalità organizzata sa bene quanto è importante controllare il territorio, ed anche se questo è il lavoro per la bassa manovalanza, è su di esso che poggia la struttura superiore, verticistica se si tratta di mafia e camorra, zonale se si tratta di ‘ndrangheta. Se si potesse eliminare, l’ intera struttura crollerebbe, il problema è che si compone da centinaia di soggetti.
Allo stesso modo, il Cavaliere aveva già una struttura presente ed operativa: Publitalia. E’ bastato ridefinire gli obbiettivi e le strategie per avere immediatamente dei riferimenti in grado di contattare, convincere, riciclare personalità politiche vecchie ed emergenti e farle convergere ad un progetto che disponeva di soldi e appoggio mediatico, ovvero visibilità immediata.
Non esiste altro modo per controllare il territorio se non occuparlo fisicamente, e ciò vale in qualsiasi scenario. Questo dogma è assoluto e imprescindibile: le sedi periferiche sonoquindi fondamentali.
Prova ne è la Chiesa, che con parrocchie e preti ovunque sul territorio, è di fatto determinante per indirizzare una mole notevole di voti. Altre valide ragioni sono indubbiamente l’ affiliazione massonica, la spiccata attitudine a trattare con le criminalità organizzate e le concessioni fin troppo generose alla Chiesa, giunte alle indecenti dichiarazioni su Eluana Englaro.
Tutti poteri che hanno condizionato la vita politica del paese nella fantomatica prima repubblica, fantomatica nel senso che non ne vedo le differenze da quella attuale, e tutti poteri tradizionalmente reazionari, storicamente più affini alla destra che alla sinistra.
Renzo Campagna

giovedì 29 luglio 2010

LA FOSSA COMUNE PIÙ GRANDE DELL'AMERICA LATINA È IN COLOMBIA

http://www.annalisasmelandri.it/ - Un immenso cimitero. Si tratta della  “fossa comune più grande d’America latina”, come viene definita da mesi, da quando cioè a principio di quest’  anno è stata scoperta nel municipio di La Macarena, regione del Meta, in Colombia.  Adesso finalmente la fossa comune è una fossa D.O.C., è stata certificata cioè da una visita di una delegazione internazionale formata da parlamentari europei e statunitensi che hanno  potuto testimoniare  che quanto andavano da tempo denunciando alle autorità colombiane i contadini del luogo e gli abitanti del circondario, era vero. 
In Colombia, la democratica e civile Colombia, (niente a che vedere con quel covo di dittatori e  brutta gente come il Venezuela e Cuba) succede infatti che  se per esempio gli abitanti di una comunità  denunciano la presenza di un gigantesco “cimitero clandestino” dove spuntano femori e costole dappertutto e dove i cani e gli avvoltoi vanno  a fare merenda,  ci sia  bisogno poi  di un’intera delegazione di osservatori internazionali che lo confermino.
Succede  anche che  dopo la visita di tali osservatori, il ministero degli Esteri colombiano dichiari che  non esistono fosse comuni nella zona e succede perfino che il più importante  quotidiano del paese, El Tiempo, i  cui maggiori azionisti sono sia il  neo eletto presidente Juan Manuel Santos nonché ex ministro della Difesa, sia   suo cugino Francisco Santos attuale vicepresidente,   ignori completamente la notizia.
In Colombia accade anche che  da una parte e dall’altra del “cimitero clandestino” ci siano,  guarda caso,  rispettivamente una base militare e un  piccolo aeroporto. E nemmeno a farlo apposta erano proprio quegli inetti contadini locali che  invece di zappare la terra,   pare abbiano visto decine e decine di corpi venire  gettati da piccoli aerei  proprio nei pressi della  fossa comune.
Tutto ciò non era sufficiente in Colombia perché il paese avesse diritto ad un’indagine seria volta alla ricerca della verità,  sono stati necessari decine di osservatori internazionali a dar voce alla denuncia sporta a gennaio dai contadini di La Macarena. Si pensa che vi siano  duemila corpi in quel cimitero. O almeno ciò che ne  resta.  “Nessun problema” dichiarò a suo tempo il governo,  non si tratta di persone, “sono guerriglieri morti in combattimento”.
Troppa  fatica identificarli e dargli degna sepoltura e poi non sono così tanti,  “soltanto” 400, hanno dichiarato i militari del posto e il governo.  Roba piccola, sono anche stati già fatti a pezzi, non sono nemmeno tutti interi,  perché da quelle parti si usa smembrare  i cadaveri come pratica dell’ addestramento militare o paramilitare, che poi fa lo stesso. Dettagli.
Come un dettaglio insignificante pare essere il fatto che si sia veramente trattato di guerriglieri morti in combattimento. Si vocifera che si tratti di oppositori politici o contadini. Storia vecchia,  sempre la stessa, quella degli oppositori politici che vengono fatti sparire in Colombia.   Si  è scoperto invece  che in questo civilissimo paese,  i militari dell’esercito  usano ammazzare persone  innocenti, ragazzi adescati per strada con scuse banali come l’offerta di un lavoro,  dopo averli condotti varie centinaia di chilometri lontano da casa,  dopo avergli messo in mano un fucile e  addosso una divisa delle FARC facendoli passare  per guerriglieri.

ENGLISH: Flag of the Revolutionary Armed Force...

Un carnevale macabro  per ottenere promozioni e licenze premio, oltre a più soldi dal Plan Colombia.
Li hanno chiamati falsi positivi, e anche il nome è fuorviante perché anche se si tratta a tutti gli effetti di esecuzioni extragiudiziali o di sparizioni forzate, il termine falsi positivi non fa pensare immediatamente a questi delitti di Stato per cui un paese rischia la condanna per crimini contro l’umanità dai tribunali internazionali. 
Quella dei falsi positivi è un’invenzione di cui la Colombia detiene il brevetto,   allucinante e paradossale nella sua crudezza, degna di quel  realismo magico al quale proprio questo paese  ha dato grande contributo con le opere di Gabriel  García Márquéz.
Dice il grande scrittore colombiano che nel mondo che ha cercato di  rappresentare nei suoi romanzi, non esiste divisione tra ciò che sembra reale e ciò che sembra fantasia. In Colombia anche i peggiori crimini sembrano opere di fantasia tanto sono surreali.
Solo in Colombia si compiono massacri con le motoseghe,  o si gioca a pallone con le teste dei morti mentre in aria volteggiano gli elicotteri dell’esercito.  
La fossa di La Macarena potrebbe essere benissimo adesso quella  in cui il popolo colombiano dovrebbe  trovare la forza e il coraggio di  gettare finalmente,  insieme ai resti di quei duemila corpi senza nome né volto divorati dai vermi,  anche quello che resta di quella farsa che l’opinione pubblica internazionale si ostina a chiamare “democrazia colombiana”.
Qualche giorno fa si è celebrato in Colombia il Bicentenario del Grido d’Indipendenza. Hanno sfilato mossi da grande e nobile orgoglio nazionale,  più  di 400mila persone per le strade di Bogotá.
Io non amo le commemorazioni. Ancora meno quando si commemora un passato glorioso sotto il giogo di un presente nefasto e indegno.
Il Grido d’Indipendenza va dato adesso e subito! I colombiani adesso e subito devono scoprire l’orgoglio calpestato da qualche decina  di famiglie infami che continuano a sottometterli a ingiustizie  e violenze. Devono riscoprire l’orgoglio calpestato, nonostante quel  Grido di Libertà di duecento anni fa, da poteri stranieri che usano i  politicanti locali ancora oggi come burattini nelle loro strategie geopolitiche.
Quale Indipendenza si è celebrata  per le strade di Bogotà nei giorni scorsi? Quale Patria idealizzata si è riunita sotto il vessillo di Bolívar? La Marcia Patriottica si sarebbe dovuta dirigere verso Palacio Nariño, sede del governo e lì davanti scavare una grande fossa e gettarvi dentro  i narco paramilitari che lo abitano al grido di Colombia Libre!
Annalisa Melandri

GLI SCHIAVI INVISIBILI DELLA MAURITANIA

Razzismo, corruzione ed omertà: i motivi per cui il governo nega l’esistenza di questa situazione .

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“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”, recita l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Poco dopo viene ribadito il concetto specificando che “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù […] schiavitù e tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma”. Era il 1948 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite firmava e diffondeva questo importantissimo documento. Oggi, però, a distanza di oltre 60 anni, l’abolizione della schiavitù sembra una delle più grandi e tristi illusioni della modernità. Troppo facile esaminare superficialmente la realtà dei paesi sviluppati e dirsi che non ci sono più tracce di schiavitù. Ad uno sguardo più attento non può sfuggire l’ipocrita contraddittorietà di una società che si definisce civile, ma vende il corpo di donne e bambini negli sporchi traffici di turismo sessuale che coinvolgono, tra clienti, sfruttati e sfruttatori, paesi e gente di mezzo mondo. Non si può negare che - causa anche l’appoggio della criminalità organizzata- sia diventata una moderna forma di schiavitù lo sfruttamento in nero della manodopera straniera, nei diversi settori su cui si basa lo sviluppo economico di molti paesi europei, fra cui l’ Italia. E, per restare in tema, è da giudicare in simili termini il commercio di clandestini che, nel disperato tentativo di sfuggire dalla povertà soffocante dei loro paesi, vendono ai trafficanti organizzatori di viaggi le loro speranze di cambiare vita lontano da casa. Di tutte queste forme di sfruttamento è complice la parte di mondo che si definisce civile, ma l’agghiacciante fenomeno della schiavitù contemporanea ha manifestazioni ancora più gravi. Per trovarle, basta spostarsi nelle zone più depresse della terra, quelle devastate da secoli di guerre, soprusi o calamità. Molte deplorevoli storie di angherie e schiavitù dei giorni nostri vengono, ad esempio, dalla Mauritania, stato dell’Africa Occidentale, da pochi decenni diventato indipendente dalla Francia e gestito da un governo islamico. Nonostante la schiavitù in questo paese sia stata ufficialmente abolita nel 1981, il lavoro di gruppi come l’Associazione per i popoli minacciati ed il Movimento anti-schiavitù IRA hanno evidenziato che oltre 500.000 persone lavarono con un salario insufficiente o senza riscuotere compenso. I padroni-datori di lavoro, insieme alle autorità governative locali, minacciano e perseguono chiunque denunci tali situazioni. Lo sa bene il Presidente dell’IRA, Biram Dah Abeid che, dopo aver richiamato l’attenzione pubblica sul problema della Mauritania, è stato vittima di persecuzioni e diffamazioni, come la diffusione di un falso certificato medico in cui appariva affetto da inesistenti problemi di mente. Come già sostenuto da Biram Dah Abeid, il problema della schiavitù è particolarmente delicato nel mondo islamico, dove riferimenti al rapporto fra schiavo e padrone presenti nel Corano sembrano quasi legittimare le forme di “possesso” e tratta di esseri umani (purchè non fra persone di religione islamica). A complicare la situazione, c’è una questione giuridica: la schiavitù è stata abolita nel 1981 ma, fino al 2007, non è stata sanzionata o esplicitamente condannata come crimine. Alcune ambiguità nella legge e la corruzione della classe dirigente che appoggia clandestinamente tale forma di sfruttamento, rendono difficile uscire da questo orrido vicolo cieco. Essere schiavo in Mauritania vuol dire venir privati di ogni diritto, lavorare duramente per far arricchire il padrone mentre la propria famiglia marcisce nella miseria. I padroni, infatti, sono considerati i “possessori” dello schiavo, del suo lavoro e dei suoi beni; alla morte del servo, ogni padrone ha il diritto di appropriarsi della piccola eredità che l’assoggettato vorrebbe lasciare alla sua famiglia. A paralizzare la gerarchizzata e razzista società mauritana è il fatto che il fenomeno sia profondamente radicato. Lo schiavismo qui ha base sia sociale che razziale. Sociale perché la condizione di schiavo viene trasmessa per via ereditaria e, anche qualora un servo riuscisse ad affrancarsi, otterrebbe una libertà solo fittizia. Gli haratine, appunto gli schiavi affrancati, rientrano in una classe sociale a se stante, continuano ad essere oggetto di discriminazione, sono considerati inferiori agli altri uomini e, anche se raggiungono un livello culturale alto o non vivono più nella stessa casa dell’ex padrone, sono comunque costretti a lavorare per lui; gli haratine, inoltre, non hanno gli stessi diritti e le stesse possibilità di un uomo nato libero. Il colore della pelle, poi, è sempre una condanna: i mori bianchi rappresentano la classe più ricca e forte, i neri sono quasi sempre schiavi. Interpretazioni del Corano studiate ad hoc complicano ulteriormente il tutto: obbedienza e spirito di sottomissione vengono considerati mezzi per guadagnarsi il paradiso e questo porta molti oppressi a desistere dal ribellarsi. La schiavitù è talmente infiltrata nel tessuto sociale ed economico che ormai si tende quasi a considerarla un elemento endemico, dolorosamente connaturato nei meccanismi e nei rapporti che regolano da sempre la vita dei mauritani. Uno dei maggiori ostacoli nel tentativo di debellare questa piaga resta però la corruzione della classe dirigente, che continua con ostinazione a negare l’esistenza del fenomeno. Negli ultimi giorni lo stato africano è sotto i riflettori per gli scontri con al-Qaueda, nel tentativo di liberare un ostaggio francese, catturato da un gruppo di terroristi islamici. Un simile livello di attenzione mediatica potrebbe essere un’opportunità per spostare l’interesse dell’opinione pubblica dalle operazioni militari alla vita del paese. Potrebbe essere il momento giusto per superare il tabù che nega la schiavitù e vieta di parlarne, l’occasione ideale per spezzare quel silenzio che fa più male di una pesante catena.  
CONCETTA RUOTOLO

mercoledì 28 luglio 2010

DIECI PAESI LATINOAMERICANI CONTRO LE LEGGI RAZZIALI DELL’ARIZONA

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Nove nazioni latinoamericane si sono aggiunte al Messico e costituite davanti alla giustizia federale statunitense insieme a centinaia di ONG contro la SB1070, le leggi razziali che entreranno in vigore il prossimo 28 luglio nello stato dell’Arizona e che prevedono il tracciamento di profili razziali e l’arresto arbitrario fino a sei mesi dei migranti prima dell’espulsione e che lo stesso presidente Barack Obama ha definito “una legge irresponsabile che contraddice i principi basilari della giustizia statunitense”.
Ad Argentina, Bolivia, Ecuador, El Salvador, Nicaragua e Paraguay che si erano appellati nei giorni scorsi dopo che il Messico aveva fatto da apripista il primo luglio, ieri si sono aggiunti Colombia, Guatemala e Perù. E’ notevole che la costituzione davanti alla giustizia federale accomuni governi integrazionisti, come quelli di Ecuador, Bolivia e Argentina a governi ortodossamente filostatunitensi come Messico, Colombia e Perù, tutti accomunati dalla flagrante violazione dei diritti civili dei migranti.
Le leggi razziali dell’Arizona, oltre all’incapacità del governo Obama di migliorare la condizione dei migranti, stanno avendo un effetto nefasto sull’immagine degli Stati Uniti in Messico e nel resto del continente. In pochi mesi, da prima a dopo la promulgazione della legge, i messicani che avevano un’idea favorevole degli Stati Uniti sono crollati dal 62 al 44% e quelli con un’immagine negativa sono cresciuti dal 27 al 48%.
Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it

L' INFERNO DEI BAMBINI AFGHANI

Costretti ai lavori forzati e «curati» con dosi di oppio

Quando un bambino afghano compie cinque anni, festeggia l' aver superato la data di scadenza che la contabilità della sofferenza gli ha etichettato addosso alla nascita (è il peggior Paese al mondo per sperare di raggiungere quell' età).

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Se è una bambina, è probabile che non si prepari ad andare a scuola (il 90 per cento delle ragazze non riceve un' istruzione) ed è fortunata se non verrà forzata a sposare un uomo più vecchio che non conosce ma che i suoi genitori conoscono da sempre (il 43 per cento delle donne viene data in moglie sotto i 18 anni, la Costituzione fissa il limite a 16). Kadija, 13 anni, e Basgol, 14, hanno provato a fuggire vestite da maschi. La polizia ha fermato il minibus, le ha fatte scendere e le ha rimandate al villaggio. Dove sono state frustate in pubblico, prima di consegnarle ai futuri coniugi (le sevizie sono state denunciate dall' Afghanistan Independent Human Rights Commission, senza ottenere l' intervento del governo) L' anno scorso sono morti 1.050 bambini (fonte Afghanistan Rights Monitor), almeno tre al giorno, in attentati, ordigni nascosti tra le pietre della strada, bombardamenti, scontri tra i talebani e le forze internazionali. E' la guerra. In Afghanistan, muoiono 850 bambini al giorno, uno ogni due minuti, per diarrea, polmonite, malnutrizione. E' la pace distratta dalla guerra. Il 26 dicembre in un raid nella provincia di Kunar, soldati Nato hanno ucciso sette studenti (tra gli 11 e i 18 anni), convinti che stessero di sentinella a un laboratorio per esplosivi. In febbraio, la coalizione ha ammesso che si trattava di civili disarmati. Nella prigione di Pul-i-Charki, mura sovietiche alla periferia trafficata e polverosa di Kabul, 60 bambini sono stati incarcerati con le madri. Fatima (uno pseudonimo) ci è entrata a 8 anni, quando i giudici hanno condannato la mamma a passarne 11 in cella. I bambini mangiano lo stesso rancio preparato per i genitori (senza i requisiti nutritivi necessari, denunciano le Nazioni Unite) e non frequentano le lezioni, che pure la legge afghana garantirebbe. A Pul-i-Charki è passato nel 2002 Mohammed Jawad, arrestato a 12 anni con l' accusa di essere un terrorista (sotto tortura ha confessato di aver tirato una granata contro una jeep militare). Da lì è stato a trasferito a Guantánamo ed è diventato grande nel campo che gli americani hanno allestito a Cuba per i «nemici combattenti». E' tornato a casa nove mesi fa. Omicidi, stupri, bambini arruolati nell' esercito dei talebani o mandati al supplizio come kamikaze. Sono state 2.080 le gravi violazioni ai diritti dell' infanzia conteggiate nel censimento del sopruso (ancora Afghanistan Rights Monitor, 2009). I bambini finiscono ai lavori forzati, dalla povertà e dalla disperazione. Nella provincia di Nangarhar, 556 famiglie vivono in capanne di fango attecchite attorno a 38 fabbriche di mattoni. Qua dentro lavorano 2300 bambini e bambine, 12 ore al giorno per ripagare i debiti contratti dai genitori con i padroni. «Parliamo di 800, 1000 dollari. Al massimo 2000. Cifre enormi per questo Paese, ci vogliono anni per restituire tutto», dice Haji Hayat Khan, direttore del dipartimento per gli Affari sociali della zona. Nei villaggi del Badakhshan, isolati tra le montagne del Pamir, le madri usano l' oppio (l' Afghanistan copre il 93 per cento della produzione mondiale) come una medicina o un calmante per i figli. «Anche tre volte al giorno, non sanno che fa male», scrivono le Nazioni Unite in un rapporto. Sberle, calci, orecchie tirate, pugni, bastonate, insulti sono considerati metodi normali per trattare i figli, racconta in un documento l' Afghanistan Research and Evaluation Unit, che raccomanda di educare i genitori «alla consapevolezza della violenza sui bambini». L' Afghanistan è uno dei peggiori posti al mondo dove nascere, dicono le statistiche, e dove tornare se si è bambini, rinfacciano le organizzazioni per i diritti umani al governo britannico. Che ha deciso di espellere da Londra i minori non accompagnati e rispedirli a Kabul. Il piano prevede di rimpatriarne almeno 12 al mese, nei campi inglesi per gli immigrati ci sono 4.200 bambini, la maggior parte afghani. Non tornano a una casa, da soli sono arrivati e da soli ripartono.

Frattini Davide

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Bambini a Shewan (foto: Mauro Annarumma (Afghanistan, 2010)
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Ekim, due anni, dopo la vaccinazione (foto: Mauro Annarumma (Afghanistan, 2010)
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I fiori dell'oppio, Afghanistan meridionale (foto: Mauro Annarumma (Afghanistan, 2010)
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Nomadi, Shawz (foto: Mauro Annarumma (Afghanistan, 2010)
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Raccolta del grano, comprensorio di Farah (foto: Mauro Annarumma (Afghanistan, 2010)

Foto tratte da qui

martedì 27 luglio 2010

I CINQUE PEGGIORI DISASTRI AMBIENTALI IN CORSO

Foreign Policy individua cinque catastrofi che stanno avvenendo nel mondo, qualcuna da oltre cinquant'anni.
La deforestazione di Haiti, gli incendi nelle miniere di carbone in Cina, il petrolio disperso nel Niger, il prosciugamento del lago d'Aral e l'isola di immondizia nel Pacifico
Mentre la BP e il governo statunitense discutono se sia necessario o meno riaprire le valvole di sfogo della nuova cupola, e quindi non si sa ancora se la sciagura petrolifera del Golfo del Messico possa dichiararsi conclusa o meno, nel mondo sono diversi i disastri ambientali attualmente in corso, qualcuno da decenni, di cui si parla e scrive poco o nulla. Foreign Policy ne elenca cinque.

Nigeria Perdita di petrolio, in corso dal 1966

Tutti i riflettori dei media sono puntati sul Golfo del Messico e quasi nessuno racconta della perdita di petrolio nel delta del Niger, che va avanti da quasi cinquant’anni e fa impallidire in gravità il disastro della BP. I dati, poco precisi a causa delle scarse rilevazioni effettuate, parlano di 2000 diverse perdite e 546 milioni di galloni di petrolio dispersi dall’inizio del progetto, equivalenti a un disastro Exxon Valdez — era la perdita di petrolio più gravi nella storia degli Stati Uniti prima del 2010 — ogni anno.

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Le compagnie petrolifere, Shell in primis, incolpano ladri e sabotatori. Le associazioni ambientaliste rispondono accusando le stesse compagnie, secondo loro colpevoli di lavorare a bassissimi livelli di sicurezza.

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A ruptured pipeline burns in a Lagos suburb after an explosion in 2008 which killed at least 100 people. Photograph: George Esiri/Reuters

E il problema non è solo ambientale: solo nel 2008, scrive Al Jazeera, sono morti più di cento lavoratori a causa delle esplosioni degli oleodotti.

Cina
Incendi nelle miniere di carbone, in corso dal 1962

La Cina è la prima nazione al mondo in quanto a emissioni di gas serra. Buona parte della sua crescita economica è dovuta al carbone, che garantisce per il 70% dell’energia nazionale. Gli effetti collaterali sono principalmente due: le morti dei minatori, circa 13 al giorno, e gli incendi nelle miniere di carbone.

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La Mongolia Interna è la regione più colpita dagli incendi. In questa area quasi completamente deserta e larga 5000 chilometri negli ultimi cinquant’anni ci sono stati 62 grossi incendi, che hanno distrutto circa 20 milioni di tonnellate di carbone ogni anno — più di tutta la produzione annuale della Germania. Secondo le stime, questi incendi da soli contribuirebbero al 2/3 per cento dell’emissione di carbonio mondiale. E si tratta solo di una parte, per quanto ingente, degli incendi che avvengono in Cina.
L’amministrazione della Mongolia Interna, a statuto indipendente, ha in programma di dimezzare gli incendi entro il 2012.

Haiti
Deforestazione, in corso dal 1492

Haiti e la Repubblica Dominicana condividono sia l’appartenenza alla stessa isola, sia simili condizioni geografiche e climatiche. Allora perché le tempeste e gli uragani — per non parlare dei terremoti — causano tragedie solo dalla parte haitiana? Uno dei motivi principali è la quasi completa distruzione degli alberi di Haiti.

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All’arrivo di Cristoforo Colombo circa i tre quarti della superficie di Haiti era coperta da alberi. Oggi, il 98% di quegli alberi sono stati abbattuti, soprattutto a causa dell’elevato uso di carbone vegetale, o carbonella, come fonte d’energia della nazione, che si ottiene mediante la combustione di legna in presenza di poco ossigeno.

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La Repubblica Dominicana ha proibito l’abbattimento degli alberi per il carbone vegetale sostituendolo con il propano: la differenza tra le situazioni dei due paesi è chiara nelle fotografia satellitari della Nasa. Le radici degli alberi sono fondamentali per la solidità e la tenuta del terreno, ed è per questo che le catastrofi naturali hanno molto più effetto su Haiti che sulla nazione vicina.

Uzbekistan e Kazakistan
Prosciugamento del lago d’Aral, in corso dagli anni ‘60

Al Gore l’ha definito il più grande disastro ambientale in corso. Situato al confine tra le due nazioni, cinquant’anni fa il lago d’Aral era il quarto più grande al mondo. Ora si è ridotto di due terzi. Ospitava venti diverse specie di pesci ed era circondato da paesi fiorenti. Ora i pesci sono morti e dei paesi sono rimasti solo dei resti abbandonati. La causa è l’intervento del governo sovietico, che nei primi anni ‘60 ha costruito 45 dighe e 32000 chilometri di canali per creare un’azienda di cotone, togliendo così al lago tutte le sue risorse.

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Oggi le provviste d’acqua nella zona sono pericolosamente basse e il terreno è avvelenato dai pesticidi delle fabbriche di cotone. Ogni anno il vento alza dal terreno e dal lago 75 milioni di tonnellate di polvere tossica e sale, che attraversano tutta l’Asia Centrale.
Il governo kazako negli ultimi dieci anni ha cercato di porre rimedio al disastro, costruendo delle dighe che in parte stanno ridando vita alla fauna della zona e ampliando la superficie della parte nord del lago.

Oceano Pacifico Pacific Trash Vortex (o: la Grande chiazza di immondizia del Pacifico), scoperta nel 1997

È la più grande discarica di immondizia del mondo, e sta nell’oceano tra la California e le Hawaii. Una macchia di rifiuti, principalmente plastica, che secondo le stime sarebbe profonda trenta metri e larga più del Texas. È stata creata — oltre che dall’uomo— da una serie di correnti marine che raccolgono l’immondizia dalle coste occidentali statunitensi e da quelle orientali asiatiche, trasportando tutto in una zona del Nord Pacifico in cui i rifiuti continuano a girare in circolo.

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I pezzi di plastica spesso diventano cibo per pesci e uccelli, che finiscono anche per ingerire le sostanze chimiche della plastica disperse in acqua. Quegli stessi pesci finiscono poi sulle tavole degli americani e degli abitanti degli altri paesi circostante.
Secondo i dati del dipartimento ambientale dell’ONU, a causa di quei rifiuti — 11500 pezzi di plastica per chilometro quadrato — ogni anno nel mondo muoiono più di un milione di uccelli e 100 mila mammiferi marini.
Fonte

lunedì 26 luglio 2010

LA TRATTA DEGLI SCHIAVI BAMBINI

Africa, Benin.

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Si bagna nel golfo di Guinea, s’appoggia a est sul gigante nigeriano ed è alieno da certi stereotipi del continente nero: Paese democratico dopo la fine del regime comunista; ignaro di guerre civili, tragedie umanitarie, epidemie di Aids. Povero, certo (il reddito medio è 490 euro l’anno; il 47 per cento degli 8 milioni di abitanti vive con meno di un dollaro al giorno): quando era colonia francese, seppelliti i regni sanguinari del Dahomey, si dava arie da “quartiere latino dell’Africa occidentale” snobbando le fatiche dei campi per darsi al commercio.
E si esportano bambini. Dai 5 anni in su. Venduti da genitori disperati a trafficanti professionisti per l’equivalente di 40, 60 euro, o affidati a parenti che promettono studi e carezze e invece sono intermediari delle mafie: li trascinano in Nigeria, Gabon, Costa d’Avorio, Congo, per piazzarli come domestici, nelle cave, fra le bancarelle dei mercati.
Nel 2001 il mondo leggeva del battello Etireno, che vagava nel golfo di Guinea con il suo carico umano: i baby-schiavi erano solo 43, ma bastò per indagare e accorgersi che il Benin era, e rimane, la piattaforma della tratta di bambini nell’ovest africano. Un rapporto del governo e dell’Unicef indica oltre 40mila giovani vittime ogni anno. Provengono dalle campagne e dai villaggi di palafitte sul lago Nokoué, dove si campa vendendo pesce a Dantokpa, il più grande mercato dell’Africa occidentale sdraiato nella laguna di Cotonou. Otto su 10 attraversano, senza documenti, frontiere di burro: via terra in Nigeria, per mare in  Gabon. L’86 per cento sono femmine.
«I numeri non sono che stime per difetto» ammette il sottosegretario al ministero per la Famiglia e l’infanzia,  Rigobert Hounnouvi, un omone in tunica blu elettrico. Ci parla della legge del 2006 che finalmente punisce i mercanti d’infanzia, e dell’accordo con la Nigeria per frenare l’emorragia umana. Ma fa intendere che il budget ridicolo del suo ministero paralizza l’azione, e il fatto che solo il 60 per cento dei nuovi nati sia registrato all’anagrafe produce eserciti di baby fantasmi.

[testo tratto da Missionari d'Affrica]
Fonte

mercoledì 21 luglio 2010

TRAFFICI UMANI

La schiavitù esiste ancora

Sambath è un ragazzo di 13 anni proveniente dal villaggio di Snoul Koang (nella provincia cambogiana di Battambang), nato con una deformazione agli arti superiori.

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Sambath, il ragazzo cambogiano di 13 anni. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

La sua famiglia - estremamente povera - è composta dalla madre e da numerosi fratelli e sorelle. Non ha potuto frequentare la scuola ed è poi stato vittima di trafficking verso la Thailandia affinché chiedesse l’elemosina per sostenere economicamente la sua famiglia. La sua permanenza in Thailandia è durata circa un anno, poi è stato identificato e arrestato dalla polizia thailandese. Le autorità thailandesi l’hanno successivamente trasferito al Poipet Transit Centre (PTC), al confine tra Thailandia e Cambogia, che a sua volta lo ha indirizzato verso il Centro di Accoglienza di Damnok Toek a Poipet, dove vengono solitamente inviati i ragazzi che hanno meno di 13 anni.
Sambath è rimasto per sei mesi presso il Centro di Accoglienza di Damnok Toek, dove ha avuto la possibilità di ricevere un sostegno psicosociale e un rifugio sicuro dopo le esperienze traumatiche vissute. Successivamente è stato indirizzato al Centro di Damnok Toek a Phnom Penh, che accoglie bambini con disabilità. Da quando è arrivato al Centro di Phnom Penh gli è stato fornito un sostegno psicologico ed è stato iscritto alla scuola La Valla.
Inoltre Damnok Toek gli fornisce anche assistenza medica, cibo, alloggio, sostegno psico-sociale, la possibilità di svolgere attività ricreative e di godere di un’istruzione sia all’interno sia all’esterno del centro.
Sambath oggi è autonomo: può mangiare, lavarsi, disegnare, scrivere, utilizzare la tastiera di un computer e svolgere numerose altre attività. È un ragazzo molto intelligente, molto bravo negli studi e nella pittura. Attualmente frequenta la VI° classe presso la scuola La Valla e l’anno prossimo frequenterà la scuola pubblica.
La storia di Sambath è una delle tante testimonianze di ragazzi vittime di trafficking sostenuti attraverso l’attività congiunta di Mani Tese e dei partner locali.
Il Trafficking - o tratta di essere umani - rappresenta una delle principali violazioni dei diritti umani che colpisce le fasce più vulnerabili della popolazione, in primis bambini e donne.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) stima che nel mondo siano almeno 12,3 milioni i bambini e gli adulti costretti al lavoro forzato, alla schiavitù e all’asservimento a scopo di sfruttamento sessuale. Di questi, l’ILO stima che 1,39 milioni siano vittime di trafficking (nazionale e internazionale) a scopo sessuale. Il 56% delle vittime di trafficking sono donne e bambini.
Questo fenomeno è maggiormente sviluppato in situazioni di estrema povertà o dove la discriminazione di genere e/o etnica è forte. Vengono colpite le fasce di popolazione più deboli e propense a cedere all’inganno di false promesse di una vita migliore attraverso un buon impiego, la possibilità di studiare o un matrimonio agiato.


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Poipet, Cambogia. Da oltre cinque anni Mani Tese è impegnata, attraverso partnership con Ong locali, in progetti di protezione, di sostegno all’istruzione primaria dei bambini che vivono e lavorano in strada, di accoglienza dei bambini vittime di trafficking rimpatriati nel Paese d’origine, progetti a sostegno delle madri dei bambini di strada e sensibilizzazione sulla tematica. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

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Poipet, Cambogia. Azioni di informazione e sensibilizzazione anche nel Nord del mondo e di educazione allo sviluppo: in primis perché gli utilizzatori finali delle vittime del trafficking possono anche essere persone provenienti dal nord del mondo. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

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La Campagna comprende i Paesi di origine, transito e destinazione della tratta di esseri umani: Filippine, Cambogia, Thailandia, Birmania/ Unione di Myanmar. Il fenomeno della tratta di esseri umani, infatti, è per sua natura spesso un fenomeno transnazionale, e richiede un’azione sinergica sia per prevenirlo sia per affrontarne le conseguenze. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

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Poipet, Cambogia. La campagna InTRATTABILI di Mani Tese vuole offrire sia alle potenziali vittime, sia alle vittime e alle famiglie d’origine, sia alle autorità locali, ai gestori di attività commerciali e ai turisti, gli strumenti per riconoscere il fenomeno, i suoi potenziali rischi. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

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Poipet, Cambogia. Al centro di Damnok Toek circa 45 bambini al mese vengono aiutati attraverso cure mediche di base, attività ludico-formative, mentre per i più grandi sono previsti corsi di formazione professionale e di avviamento al lavoro. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese

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Poipet, Cambogia. Al Centro di Accoglienza di Damnok Toek, partner locale di Mani Tese, si garantisce ai bambini vittime di trafficking accesso all’istruzione, cure mediche e supporto psicologico, ma anche sostegno alle madri, attraverso la creazione di attività generatrici di reddito. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

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Poipet, Cambogia. Il trafficking di esseri umani trova terreno fertile ove le condizioni di vita sono più povere, o dove la discriminazione di genere e/o etnica sia più forte, andando a colpire le fasce di popolazione maggiormente vulnerabili e maggiormente propense a cedere all’inganno di false promesse di una vita migliore attraverso un buon impiego, la possibilità di studiare o un matrimonio agiato. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

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Poipet, Cambogia. L’estrema povertà ha trasformato la città in un terreno fertile per il diffondersi della tratta di esseri umani, sfruttamento a fini commerciali o sessuali dei bambini, abuso di droghe, prostituzione, violenza domestica, diffusione altissima di HIV/AIDS, occupazione illegale di terreni, contrabbando e corruzione. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

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Poipet, Cambogia. Città di confine con la Thailandia, Poipet è stata raggiunta negli ultimi anni da migliaia di cambogiani alla ricerca di condizioni di vita migliori. Fotografo: Sergio Grande. (Fonte: Mani Tese)

a cura di clip_image021

Fonte

martedì 20 luglio 2010

U.S.A. PREMIANO DOMENICANO ANTI-SCHIAVITÙ

Il Dipartimento di Stato della Clinton elogia l'impegno contro la tratta di fratel Zavier Plassat nel Nordest .

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Ogni anno il «ministero degli Esteri» del governo americano – ora diretto da Hillary Clinton – assegna un riconoscimento a personalità internazionali che si sono distinte nella lotta al turpe traffico di esseri umani.
Quest’anno, tra i nove premiati, vi è anche un religioso domenicano francese, fratel Xavier Plassat, che lavora in Brasile dal 1983.
L’impegno di fratel Plassat è iniziato con la Commissione pastorale della terra dei vescovi brasiliani e dal 1997 ne è il responsabile per il settore della lotta alla tratta di persone.
Insieme con il suo staff il religioso denuncia casi di lavoro forzato e si impegna in difese giudiziarie contro sfruttatori e aguzzini di lavoratori indifesi.
La struttura di fratel Plassat lavra in tutti e 26 Stati e distretti federali del Paese. Tra gli interventi dello staff figurano anche una serie di interventi a favore di vittime della tratta o di schiavismo ai quali viene affidata la possibilità di un nuovo impegno professionale.
Plassat e il suo gruppo di lavoro opera soprattutto a favore di «schiavi» nella zona del Nord est del Brasile, in particolare contadini nelle piantagioni di caucciù e zucchero.
Fratel Plassat non è nuovo a riconoscimenti: nel 2006 fu insignito della Chico Mendes REsistance Medal, un premio in onore del noto sindacalista ucciso dai latifondisti in Amazzonia; nel 2008 la Presidenza della repubblica del Brasile gli assegnò il Premio nazionale per i diritti umani. Inoltre, la celebre John Templeton Foundation nel 2008 assegnò al consacrato francese, in rappresentanza della Commissione per la terra, l’Harriet Tublam Freedom Award.

Fonte

Xavier Plassat, fratello degli altri
– di Jean-Pierre Tuquoi
in “Le Monde” del 30 dicembre 2008 (traduzione: http://www.finesettimana.org/)

“Una casa monacale. L’espressione viene spontaneamente vedendo i muri nudi imbiancati a calce, i ripiani fatti con mattoni e assi di legno, la cucina che non è una cucina, la lavapanni a mano… In questo caso, l’accostamento non è fuori luogo: è un monaco, un domenicano di 59 anni, Xavier Plassat, che abita in questa costruzione sommaria ad Araguaina, una cittadina brasiliana dello Stato di Tocantins, nel centro del paese, ai bordi dell’Amazzonia.
Fratel Plassat è un caso. Vent’anni fa, già entrato tra i domenicani, questo ragazzo di buona famiglia cattolica, plurilaureato, rompeva gli ormeggi e lasciava la Francia, suo paese natale, per una vita “austera, ma gratificante” a servizio di una causa: quella dei contadini senza terra e dei lavoratori giornalieri legati a grandi tenute agricole, quelli che vengono pudicamente chiamati in Brasile i lavoratori schiavi. “Mi piace impegnarmi nelle lotte del mondo, prendere posizione, dice. Bisogna saper sovvertire l’ordine costituito. Ed aiutare i senza voce a parlare da pari a pari con i potenti.”
Perché il Brasile? L’itinerario del domenicano rinvia ad una pagina oscura della storia del paese, quando era sotto lo stivale dei militari che perseguitavano gli oppositori. Tra di loro, appunto, un altro domenicano, Tito de Alencar, che, dopo mesi di tortura, trovò rifugio in Francia, dove, mai ripresosi dalle persecuzioni subite, si suicidò nel 1974, all’età di 28 anni. Organizzando il ritorno delle spoglie di colui che era diventato suo amico intimo, Xavier Plassat fece la conoscenza del suo futuro paese di adozione.
Da allora le cose sono cambiate, ma in questa parte del Brasile – grande come metà della Francia – fratel Plassat è in terra di missione. Coperta di savana arborea, la regione vive come si viveva un tempo nel Far West. Le fattorie, ciascuna delle quali copre migliaia di ettari, sono i punti di riferimento di un paesaggio senza rilievi, le mandrie di bovini – principale prodotto di esportazione – la base della ricchezza. I proprietari terrieri sono i signori. E i contadini sono una mano d’opera sfruttabile a piacimento. Lavorano duro per guadagnare l’equivalente di 7 od 8 euro al giorno. Il loro sogno è quello di poter coltivare, un giorno, un fazzoletto di terra preso necessariamente ai latifondisti.
Il religioso è loro alleato. Che si tratti di avvertire l’amministrazione federale contro lo sfruttamento della mano d’opera disorganizzata o di reclamare l’applicazione della riforma agraria. Il domenicano è lì, accanto a loro, come lo fu un tempo Bartolomé de Las Casas, cappellano dei conquistadors nel XVI secolo, che prese le difese degli Indiani d’America. “È uno dei miei ispiratori. Anche lui apparteneva all’ordine dei domenicani“, sottolinea Xavier Plassat, vestito con una T-shirt che celebra “l’alleanza tra i lavoratori della terra e gli studenti“.
A metà dicembre, il domenicano si è visto conferire da parte della presidenza della repubblica il Premio nazionale dei diritti dell’uomo. E, alcune settimane prima, una ONG americana, Free the slaves (“liberate gli schiavi”) ha dato una ricompensa all’organizzazione animata da Xavier Plassat, la Commissione Pastorale della Terra (CPT), per il suo lavoro.
I premi, sono qualcosa che serve da protezione. Sono dati anche per questo“, commenta il religioso. L’osservazione non è anodina. Ad alcune centinaia di chilometri, un altro domenicano, Henri Burin des Roziers, anch’egli difensore di reietti ed emarginati, vittime dello “sviluppo”, vive notte e giorno sotto la protezione della polizia. Nel 2005, una religiosa americana, membro attivo della CPT, Dorothy Stang, veniva assassinata da due killer prezzolati in quella stessa regione. È alla sua memoria che la Commissione pastorale ha dedicato il premio ricevuto dalla ONG americana.
Nonostante i premi e l’inizio di notorietà che li accompagna, Xavier Plassat resta un ribelle. Lo era già in Francia, negli anni 70, quando, giovane domenicano, aveva rifiutato di completare gli studi che avrebbero fatto di lui un prete. “Essere prete, ovvero l’ultimo diploma. È una visione della Chiesa a cui non potevo aderire. Avevo un blocco politico, o teologico. Allora, sono rimasto quello che si chiama un frate converso. Non è frequente. In Francia, vengono considerati poco intelligenti“, spiega con gusto l’uomo, che è titolare di lauree in Scienze Politiche ed in Scienze Economiche e di un “diplôme” per l’esercizio della professione di ragioniere-commercialista.
Quarant’anni dopo, continua a contestare l’ordine costituito. Quando parla di Lula, il capo di stato brasiliano – che ha incontrato in occasione della consegna del Premio nazionale dei diritti dell’uomo – lo fa senza particolari riguardi. Pur riconoscendo al dirigente la volontà politica di lottare contro la schiavitù moderna, Xavier Plassat si dice senza illusioni sulle opzioni fondamentali del governo. “Il modello di sviluppo non viene rimesso in discussione“, dice, seduto nel suo studio ornato con un manifesto del Che.
Il religioso, che si ritrova nella teologia della liberazione nata alla fine degli anni 60, è ben più severo quando parla della Chiesa ufficiale e dei suoi responsabili locali. Le rimprovera di essere rientrata nei ranghi, di difendere i ricchi e di dimenticare i poveri. “Non ha più un messaggio, se non quello di un’obbedienza a delle regole discutibili“. Rileva che, da anni, Roma manda in questa regione nient’altro che dei vescovi, la cui principale preoccupazione è soprattutto di non suscitare scalpore. “Abbiamo una Chiesa che vuole ‘distribuire sacramenti’ per contrastare lo sviluppo dei pentecostali. Mi sento sempre più a disagio.
Il disamore finirà con un divorzio? “No, assicura una delle sue amiche francesi, Dominique Marcon. Ma è un uomo di profonde convinzioni. Vuole che le cose vadano avanti. È standogli accanto, prima della sua partenza per il Brasile, che ho capito che cos’era un religioso impegnato nel secolo.” Anche se non c’è separazione in vista, la lontananza è reale.
La Chiesa ufficiale si tiene a distanza da una Commissione Pastorale della Terra giudicata sulfurea, che essa ha tuttavia battezzato negli anni 70, all’epoca della dittatura. “Oggi, constata il domenicano, si fa sempre più fatica a farsi riconoscere come un’istituzione collegata con la Chiesa. Non siamo più invitati all’assemblea pastorale diocesana. Siamo considerati come una ONG laica.
Tenuta ai margini, la Commissione Pastorale della Terra ha sempre più difficoltà a far quadrare il bilancio, già ridotto. Delle associazioni di cooperazione del Nord Europa versano un po’ di soldi, ma non abbastanza. La CPT vive in economia.”

lunedì 19 luglio 2010

UN SMS PER IL PROGETTO AXÉ

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Imparare a desiderare e a sognare: per i bambini che vivono in situazione di miseria e degrado, che non hanno niente e sono esclusi dalla famiglia e dalla società, è essenziale. 
È questa la filosofia di Projeto Axé, il cui obiettivo è il recupero dei meninos de rua in Brasile e il loro reinserimento nella vita sociale. In oltre 20 anni di attività Projeto Axé ha recuperato oltre 18 mila bambini di strada, garantendo un’esistenza dignitosa e l’istruzione, ma anche insegnando loro ad amare se stessi e la vita attraverso l’arte, la danza, la musica e la capoeira
Per questi bambini si può fare molto, a cominciare da un piccolo gesto: c’è tempo fino al 25 luglio 2010, inviando un sms al numero 45593 da tutti i cellulari Tim, Vodafone, Wind e 3 sarà possibile donare 1 euro, oppure donare 2 euro chiamando lo stesso numero da rete fissa Telecom Italia.
Con il ricavato dell’sms, Projeto Axé realizzerà il progetto “Musica e pace”, che coinvolgerà per un anno ben 193 adolescenti di Salvador (Bahia).
Tutti possono fare qualcosa:  inviare un sms in prima persona, ma anche invitare i propri cari e i propri amici a dare il proprio contributo.
Insieme, permetteremo ad altri bambini e ragazzi di strada di tornare a sognare e ritrovare la voglia di vivere.
Fonte

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Transnational Organized Crime

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sfida planetaria, risposta globale

«La criminalità si è internazionalizzata più velocemente delle forze dell’ordine e della governance globale»
(Antonio Maria Costa, Direttore Esecutivo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine)
Introduzione
Le Nazioni Unite, tramite il proprio servizio preposto alla lotta al traffico di droga e al crimine, l’UNODC[1], hanno presentato nello scorso mese di giugno il Rapporto dal titoloLa Globalizzazione del Crimine che coglie l’occasione del decimo anniversario della sottoscrizione della Convenzione ONU contro il crimine organizzato transnazionale[2], per condurre una preziosa analisi dell’evoluzione di questo fenomeno e delle possibilità di attuare un efficace sistema di risposta concordato tra i differenti attori.
Un dato che appare immediatamente evidente dallo studio delle 314 pagine che compongono il documento è che negli ultimi 25 anni la criminalità organizzata è stata capace di sfruttare al meglio le opportunità offerte dalla globalizzazione per il perseguimento dei propri interessi, cosa che, invece, spesso non si avuta per le autorità di polizia che avrebbero dovuto contrastarla.
Difatti, l’intensificazione degli scambi commerciali e finanziari, la facilità nei trasporti e nelle telecomunicazioni ha aperto enormi e proficue opportunità anche per i criminali e le loro attività; di pari passo non si è sviluppato un modello di “governo globale” che potesse garantire il rispetto delle regole dello stato di diritto e si è invece confermata la connaturale anarchia tipica della comunità internazionale.
Il Rapporto nasce dalla constatazione che oggi la criminalità organizzata si è talmente diversificata da raggiungere proporzioni macro-economiche di portata globale e divenire un vero problema transnazionale e una minaccia alla sicurezza della collettività umana. Malgrado ciò, questo fenomeno non è ancora sufficientemente studiato e compreso: mancano informazioni precise sui mercati criminali transnazionali e sulle loro tendenze e mancano politiche d’intervento elaborate congiuntamente a livello sovranazionale. Per ovviare a questa lacuna, l’UNODC focalizza la sua indagine sui flussi dei traffici illegali, mettendo assieme tutte le tessere del puzzle delle diverse aree del pianeta e fornendo una visione globale dei mercati, degli interessi, degli attori, dei mezzi di contrasto attuati e da attuare.

Il crimine organizzato transnazionale
Ma andiamo con ordine: innanzitutto, con il termine crimine organizzato transnazionale (o, secondo la dicitura anglosassone, Transnational Organized Crime - TOC) si deve intendere qualsiasi reato grave di natura transnazionale, compiuto da tre o più persone, con lo scopo di ottenere un guadagno materiale, così come previsto agli artt.2, 3, 5 e 6 della Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale.
La nozione, in questo caso, risulta più ampia di quella classica e, per questo motivo, il rapporto prende in esame le molteplici interazioni esistenti ed influenti sulla natura delle azioni criminose, sui soggetti autori delle stesse, sui flussi che queste generano e su cui si sviluppano, sugli interessi che producono e sulle ripercussioni che hanno a livello locale, regionale e globale.
Sembra che oggi il crimine organizzato transnazionale coinvolga sia le organizzazioni altamente strutturate che quelle più flessibili, anche se numerose fonti autorevoli sostengono che le organizzazioni del primo tipo stanno perdendo terreno a favore delle altre. L’esperienza recente insegna che gruppi criminali organizzati dalla struttura tradizionale e gerarchica hanno sviluppato, a causa delle pressioni delle forze dell’ordine, una “struttura a cella” simile a quella dei gruppi terroristici, caratterizzata da piccoli network che eseguono il lavoro precedentemente svolto da strutture più rigide.
Probabilmente, è più sicuro affermare che i gruppi stessi siano diventati meno importanti rispetto al segmento criminoso nel quale sono impegnati: la criminalità organizzata sembra individuarsi più  con un insieme di attività da condurre piuttosto che con un gruppo specifico di persone che partecipano ad una serie di attività comuni. Per questo motivo, anche se i soggetti venissero fermati, le attività continuerebbero in quanto il mercato illecito e i proventi che esso genera rimarrebbero intatti. Per risolvere il problema del crimine organizzato transnazionale è quindi necessario affrontare questi “mercati” nella dimensione attraverso la quale operano.

I flussi criminali
Tali mercati, così come considerati nello studio dell’UNODC, sono segmentati secondo l’oggetto ed esaminati seguendone i flussi.
Vengono considerati i corridoi impiegati per la tratta di esseri umani, in particolar modo destinati allo sfruttamento sessuale (70.000 ogni anno, solo in Europa!), da Est a Ovest e da Sud a Nord, verso i Paesi dell’Europa occidentale, e quelli per il traffico di migranti (Sud-Nord, dall’America latina agli Stati Uniti attraverso il Messico e dai Paesi del Maghreb all’Europa attraverso il Mar Mediterraneo).
Vi sono poi le lunghe strade dell’eroina, dall’Afghanistan verso i maggiori mercati di Russia ed Europa, per un valore di circa 55 miliardi di dollari, e quello della cocaina, dai Paesi andini al Nord America e all’Europa, per più di 70 miliardi di dollari, con il coinvolgimento di organizzazioni criminali, gruppi paramilitari e terroristici anche in regioni del pianeta impensabili (per esempio nei Paesi africani del Golfo di Guinea).
Il tradizionale traffico di armi da fuoco, che genera un montante calcolato intorno ai 170-320 miliardi di dollari, risponde oggi a due differenti richiedenti: quelli che necessitano di armi per propositi criminali e quelli che se ne servono per scopi politici. La direttrice Stati Uniti-Messico rappresenta un esempio del primo, mentre quello che ha origine dall’Est Europa verso l’Africa centrale è un esempio del secondo.
Nuove forme, invece, hanno elaborato coloro che si dedicano ai crimini ambientali: relativi all’inquinamento, in particolare allo scarico di rifiuti pericolosi e al commercio di sostanze inquinanti, e relativi al commercio illegale di risorse naturali (specie animali, vegetali, legnami da costruzione e pietre preziose). Gli esempi più noti sono il contrabbando di specie in via di estinzione dall’Africa e dal Sud-Est asiatico verso tutta l’Asia, e il contrabbando di legname dal Sud-Est Asiatico all’Europa. In questi casi, la complicità di autorità nazionali corrotte risulta essere uno degli elementi fondamentali per il perpetrarsi dell’azione criminosa. Altrove, invece, la presenza di gruppi di ribelli, che controllano il territorio e che sono in rapporto con organizzazioni criminali internazionali, alimenta il saccheggio e il commercio clandestino di risorse naturali (come accade per diamanti e coltan dal Congo, solo per fare un esempio).
La criminalità globalizzata, dal canto suo, è riuscita pure a sfruttare le opportunità offerte dal fenomeno della delocalizzazione delle produzioni industriali, in particolar modo in Paesi asiatici, avviando e controllando i mercati dei beni contraffatti (per un valore superiore ai 10 miliardi di dollari all’anno). Questo fenomeno ha per oggetto prodotti di consumo destinati all’Europa e medicinali diretti verso il Sud-Est Asiatico e l’Africa.
Negli ultimi anni il flusso di merce contraffatta verso l’Europa è cresciuto considerevolmente e la difficoltà nel riconoscere simili prodotti fa sì che alcune classi rappresentino un serio rischio per la salute e l’incolumità pubblica.
Il traffico di medicinali contraffatti, invece, è un “crimine opportunistico” che viene innescato laddove le capacità di regolamentazioni sono deboli e ha conseguenze che possono divenire letali (quando si hanno farmaci inefficaci o dannosi e quando si contribuisce all’evoluzione di ceppi di agenti patogeni). 
Antica come il mondo, ma di gran lunga la più longeva forma criminale, risulta essere la pirateria marittima: caratterizzata oggi da sequestri di navi cargo, e conseguenti domande di riscatto, è praticata da pirati provenienti dalle coste del Corno d’Africa (in prevalenza, somali). I riscatti generano ogni anno oltre 100 miliardi di dollari, di cui solo un quarto va ai pirati, mentre il resto finisce nelle tasche della criminalità organizzata.
Se i pirati di mare affondano le loro radici nella notte dei tempi, gli autori dei crimini informatici legati alla rete delle reti, internet, sono tra i più moderni e possono mettere a rischio la sicurezza nazionale di molti Paesi: centrali elettriche, traffici aerei ed impianti nucleari sono già stati oggetto di molteplici attacchi. Si possono distinguere quattro forme principali: gli atti di “hacking”, infrazioni contro dati e sistemi; il “phishing”, falsificazioni e frodi informatiche; la divulgazione di contenuti illegali (come la distribuzione di materiale pornografico); la violazione del diritto di autore.
Di particolare rilievo, anche per l’impatto economico, risultano essere i furti di identità in rete, particolarmente sviluppati negli Stati Uniti, sia in termini di autori sia per numero di vittime.
Per quanto riguarda la produzione e distribuzione di materiale pedopornografico, dall’altra parte, il web ha portato con sé il rischio che la domanda crescesse al punto dal rendere la vittimizzazione dei bambini un’attività redditizia per i gruppi criminali e, dunque, meritevole di un innalzamento della soglia di vigilanza.

Conclusione
Si deve riconoscere che la maggior parte dei flussi illeciti esaminati giunge, transita o ha origine sui territori dei Paesi che rappresentano le maggiori potenze economiche (i Paesi del G8 in primis, ma anche i BRIC, Brasile, Russia, India e Cina). In altre parole, i maggiori partner commerciali al mondo sono pure i principali mercati di prodotti e servizi illeciti nonché le piazze più importanti per la consumazione di reati da parte della criminalità internazionale.
Questo ha trasformato la criminalità transnazionale in uno dei business più sofisticati e proficui al mondo, fattore che dovrebbe portare naturalmente alla elaborazione di un nuovo approccio di contrasto dal momento che le strategie elaborate e condotte a livello nazionale risultano inadeguate contro un crimine che ha raggiunto una dimensione globale.
Inoltre, le autorità competenti dovrebbero trovarsi concordi nell’individuare strumenti atti a controllare e intercettare i flussi finanziari originati dalle attività criminali e, da questi, risalire agli autori per assicurarli alla giustizia e impedire la continuazione di simili attività.
Per affrontare e contrastare questi sistemi criminali, servono delle soluzioni creative basate su tecniche che vadano oltre le tradizionali metodologie: un’azione di cooperazione internazionale tra le forze di polizia e le magistrature si sta sviluppando, ma è indispensabile un ulteriore impegno affinché la lotta al crimine transnazionale sia parte integrante di un progetto più ampio di governance globale.
Come riconosce il Rapporto, in maniera  cristallina, la globalizzazione è cresciuta più velocemente della capacità umana di guidarla, ed è proprio in questa zona grigia priva di regolamentazione che si sono sviluppate le enormi opportunità per la criminalità organizzata che abbiamo esaminato.
Se si vuole realmente contrastare il crimine organizzato transnazionale, risulta dunque improcrastinabile creare un sistema normativo condiviso che detti, anche solo in maniera minimale, regole certe per tutti i flussi esaminati.
Non vi è altra scelta che contrastarli sul loro medesimo campo: quello globale!
Solo l’approccio globale permetterà di analizzare a fondo ogni aspetto del multiforme fenomeno criminale, trovarne i punti deboli da attaccare e, infine, vincerlo.

[1] UNODC - United Nations Office on Drugs and Crime, cfr. www.unodc.org.
[2] Cfr. www.unodc.org/documents/treaties/UNTOC/Publications/TOC%20Convention/TOCebook-e.pdf.

Fonte

lunedì 12 luglio 2010

VOLTI D'AFRICA

Agricoltori hi-tech, attiviste blogger, registi in fuga dal loro passato: chi sono i nuovi volti dell'Africa? Dal Kenya all'Etiopia con tappe in Senegal e Nigeria, ecco come 9 personaggi stanno costruendo il futuro di questo continente grazie ai loro sogni e visioni (e tanta tenacia).

(CONTRO)INFORMAZIONE

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Avvocato (con laurea a Pittsburgh e dottorato a Harvard) blogger, attivista politica (e madre), Ory Okolloh è il punto di riferimento della giovane società civile kenyota. Suoi il blog Kenyan Pundit e il sito Mzalendo (“patriota” in swahili) che tiene gli occhi puntati sul Parlamento.

LOCAL CONNECTION

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L’economista Eleni Gabre-Madhin ha rinunciato a un (prestigioso) lavoro alla World Bank per un progetto ambizioso, anzi eroico: sconfiggere la fame in Etiopia garantendo ai contadini un mercato protetto (di prodotti locali). Che i granai tornino agli africani...

OGNI LEADER È ILLUMINATO

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Ha lasciato Seattle, è tornato a casa. «Perché lavorando alla Microsoft ho scoperto che lì le entrate crescevano più del bilancio del Ghana». Ad Accra Patrick Awuah ha fondato un’esclusiva (non per i costi) università, l’Ashesi: «ll futuro è possibile solo con leader illuminati».

SOGNI PANAFRICANI

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Undicesimo di 28 figli, il giornalista Dele Olojede, nigeriano, è, per ora, l’unico vincitore africano del Pulitzer (da reporter di Newsday con articoli sul genocidio ruandese). A Lagos ha fondato Timbuktu Media, gruppo editoriale che sogna di far diventare una libera rete di informazione panafricana.

TECNOLOGIA ROSA

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Ha iniziato insegnando informatica ai ricchi imprenditori sui campi di golf. Ora Florence Seriki è amministratore delegato della più grande azienda di computer della Nigeria, la Omatek. La sua strategia: produrre alta qualità («perché non gli africani?») e venderla a prezzi competitivi rispetto ai prodotti importati.

PRIMA DELLA CLASSE (’76)

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Ossessionata da un «insalubre interesse per la narrativa», col suo primo libro Adaobi Nwaubani ha vinto il Commonwealth Writers Prize. Trama di I Do Not Came to You by Chance (Orion): Kinsley, ingenuo neolaureato in cerca di lavoro, incontra (e si scontra con) la corrotta società nigeriana. Romanzo di (in)formazione.

IN THE MOOD FOR WAR

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Gli occhi di Ezra, bimbo soldato della Sierra Leone, sono già diventati il cinesimbolo delle guerre africane. Come quella in Biafra da cui il regista Newton Aduaka è fuggito da piccolo. Del suo film, premiato in più festival, dice: «Per cambiare non ci si può permettere di dimenticare».

AGRI-CULTURA

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Un agronomo senegalese col pallino degli sms ha connesso l’arcaica agricoltura africana al mondo del software. Lui è Daniel Annerose, Ceo della Manobi: sua l’idea del sistema gps che segnala i prezzi del mercato a 150mila contadini dotati di telefonino.

CONTRO L'OSCURITÀ

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L’Energy Kiosk? Non vende red bull, ma ospita micro turbine a vento e generatori solari. Simon Mwacharo, kenyota, ingegnere visionario, ne ha realizzati tanti per illuminare case, piccole comunità e scuole lontano dalle città: è il futuro energetico dell’Africa rurale.
di Valeria Balocco
>http://www.marieclaire.it/

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