Incontro con Édouard Glissant, scrittore discendente di schiavi «Bisogna amare l’uomo, accettando di non capirlo fino in fondo»
Conversazioni di Claudio Magris
con Édouard Glissant
Le radici — ha scritto Édouard Glissant — non hanno da sprofondarsi nel buio atavico delle origini, alla ricerca di una pretesa purezza; si allargano in superficie, come rami di una pianta, ad incontrare altre radici e a stringerle come mani. Con tale immagine forse ispirata dalla vegetazione tropicale della sua Martinica e sviluppata in splendidi saggi, Glissant — questo discendente di schiavi che è oggi uno dei grandi scrittori del mondo — fornisce la giusta risposta all’equivoco e lacerante dilemma tra la paura della globalizzazione che omologa e cancella le diversità e l’esasperazione delle diversità stesse, ognuna delle quali si chiude regressivamente alle altre in un gretto micro-nazionalismo.
Allo stesso modo, nell’opera di Glissant vivono il conteur , il narratore orale anonimo che nella stiva delle navi negriere e nelle piantagioni trasmetteva la memoria dell’Africa perduta, e i classici francesi, di cui la sua prosa — celebrata e premiata — è geniale e organica erede, in una continuità perpetuata nell’ardita innovazione strutturale delle forme narrative.
Durissimo nella denuncia di quei genocidi che sono stati la tratta, la schiavitù e la segregazione razziale, Glissant si riconosce nel «bianco » antillano Saint John Perse altrettanto che nel «nero» Cèsaire ed è — caso rarissimo — del tutto immune, pur nella spietata rappresentazione dell’orrore, da quel risentimento, da quella viscerale concentrazione su se stessi e sul proprio dolore che sono umanamente comprensibili e spesso quasi inevitabili in chi appartiene a un gruppo o a un popolo che hanno subito (e talora subiscono ancora) oppressione, ma tolgono fatalmente libertà interiore e signorilità.
Autore di romanzi, saggi e testi teatrali noto internazionalmente, Glissant non lo è ancora altrettanto in Italia, dove ha pubblicato, presso le Edizioni del Lavoro, il romanzo Il quarto secolo ,
il saggio Poetica del diverso e lo sconcertante
Tutto-mondo , nella forte versione di Geraldina Colotti e Marie-Josè Hoyet. Dai suoi libri, in Francia, sono nati originali filoni e istituti di ricerca.
Il quarto secolo , assai felicemente tradotto da Elena Pessini, è un vero capolavoro di geniale costruzione narrativa e trascinante poesia umana; un’epopea di quei quattro secoli in cui l’umanità ancora indistinta degli schiavi nella stiva delle navi negriere, ventri che solcano le immense acque gravidi di esistenze quasi ancora embrionali e quasi già stroncate, si affaccia alla vita e alla storia. In questo epos costruito con originale e rivoluzionaria tecnica strutturale e ribollente di destini, epifanie, estreme rivelazioni dell’umano, Glissant riesce a rendere giustizia poetica anche alle figure della barbarie schiavista, come la storia di Laroche, l’ultimo accanito negriero, ritratto in una torva e abietta grandezza che è un’altissima pagina di letteratura.
È una festa incontrare quest’uomo anziano e massiccio, paterno e fraterno, gran signore e capace di picaresca amicizia, che va subito al dunque della vita col quale si crea un’istintiva affinità. Lo incontro prima a Parigi e poi a Schio, in un convegno, accompagnato dalla moglie, Sylvie — che fa capire cosa significhi essere una compagna nella traversata dell’esistenza — e da una parte della sua numerosa famiglia, un figlio e una figlia col marito e tre adorabili nipoti, vivacissimi e di un’innata gentilezza d’animo nel senso antico del termine, attenti a che il nonno riottoso non si affatichi troppo. È la felicità. Mi dice indicandomeli. Ci sono — gli dico — quasi alcune parole chiave nel tuo discorso: erranza, relazione...
— L’erranza è un principio che vale in tutti i campi della vita, anche nella scrittura. Ogni realtà è un arcipelago; vivere e scrivere significa errare da un’isola all’altra, ognuna delle quali diventa un po’ la nostra patria. La verità umana non è quella dell’assoluto bensì quella della relazione. Ogni identità esiste nella relazione; è solo nel rapporto con l’altro che cresco, cambiando senza snaturarmi. Ogni storia rinvia ad un’altra e sfocia in un’altra. La sorgente del tuo Danubio è diversa da quella del Mississippi, di un piccolo ruscello o della mia Lézarde (il fiume della Martinica cui si intitola un suo romanzo), ma acquista il suo senso nel rimando ad esse, nell’arricchimento che dà loro e che ne riceve. Ci sono molte radici; se una si proclama unica o esclusiva distrugge la vita, sia che si tratti di una radice piccola gelosamente chiusa nella sua particolarità, sia che si tratti di una grande e potente, come la civiltà universale reclamata dal colonialismo.
Magris — Infatti tu hai celebrato, come dice il titolo di un saggio, la Poetica del diverso , ma di un diverso che non si isola, non alza il ponte levatoio né si trincera dietro una muraglia cinese per escludere gli altri, «i barbari»...
Glissant — L’ossessiva difesa, la muraglia è prigione dell’identità; quella cinese è stata costruita non solo per impedire agli invasori di entrare, ma anche per impedire ai cinesi di uscire, come dice quella mirabile storia del generale cinese che sorveglia la frontiera e, vedendo un’apertura fra due alte montagne lontane, dice ai suoi ufficiali: «là c’è il mondo e noi non ci andiamo». Chiudersi in se stessi è terribile quanto essere conquistati dall’altro o conquistarlo.
Per fortuna nella mia Martinica ci sono anche i cinesi e pure essi fanno parte del mio «mondo-relazione», del mio Tutto-mondo.
Magris — Questa relazione diviene, nei tuoi libri, racconto, cronaca e invenzione di destini, personaggi, anche e forse soprattutto paesaggi, paesaggi viventi. I paesaggi si possono leggere, hai scritto.
Glissant — Sì, e questa è un’altra affinità tra noi, perché in Danubio o in Microcosmi il paesaggio non è, come di solito in letteratura, cornice e sfondo della vicenda, bensì creatura vivente. Ciò che adoro in Danubio è che è un fiume ma anche un personaggio, che si trasforma, ha i suoi capricci, le sue sventure, il suo inconscio... Il paesaggio è storia, è umanità, è immaginario. Gli schiavi africani portati nelle Americhe recavano con se la memoria oscura di un paesaggio africano, obliato ma sedimentato nel profondo; ad esso si è sovrapposto il nuovo paesaggio, che è diventato il loro e che essi hanno contribuito a costruire, lavorando nelle piantagioni o fuggendo — i marrons, i ribelli — sulla morne, sulla collina, che così ha acquistato una nuova fisionomia, un nuovo significato nell’immaginario. Se ne è ricordato, inconsciamente o no, Castro quando si è rifugiato sulle colline, simbolo di quella che era stata a Haiti la prima rivoluzione vittoriosa degli schiavi.
Magris — La memoria è un grande valore quando è pietas , coralità, salvezza dalla violenza dell’oblio, ma può degenerare in ossessione astiosa e vendicativa. Anche per tuo impulso, ora si sta raccogliendo metodicamente la memoria della tratta e della schiavitù.
Glissant — Questa memoria è stata spesso oscurata per tanti motivi: difficoltà di documentazione, rinuncia, vergogna, spirito di rivendicazione, e ora si sta cercando di recuperarla. Ma senza le ambiguità e le regressioni spesso connesse alle richieste di «pentimento». Il discendente di schiavi che ingiunge al discendente di schiavisti di chiedere perdono, con tale richiesta regredisce e si fa piccolo, si pone in una condizione di minorità. Altrettanto piccino è il discendente di schiavisti che rifiuta di prendere coscienza della sua storia, mentre egli cresce interiormente se, considerandosi giustamente non responsabile di ciò che hanno fatto i suoi antenati, assume consapevolezza di quella barbarie.
Magris — Un’altra passione che ci accomuna è Faulkner, su cui hai scritto un saggio che è un vero capolavoro, Faulkner, Mississippi.
Glissant — Faulkner, uno dei grandissimi del secolo scorso, sapeva di appartenere a una casta o classe di piantatori bianchi del Sud, di cui condivideva i pregiudizi, fortemente radicati. Ma ha avuto il genio di capire che quella classe — la sua — portava in sé la perdizione ossia la schiavitù dei neri, peccato originale e dannazione del suo mondo. E ne ha fatto un simbolo universale, con la sua straordinaria forza epica e con quella scrittura che io chiamo la rivelazione differita, in cui l’esistenza, la verità, la morte si annunciano per venire rinviati sino alla fine. Così un uomo legato al vecchio Sud ha scritto la più grande epopea della schiavitù dei neri e ne ha fatto una parabola universale dell’umano.
Magris — L’hai fatto pure tu con Il quarto secolo , storia di neri che diviene storia di tutti. Spesso fai l’elogio dell’«opacità». In che senso?
Glissant — Come ho detto una volta a Città del Messico, suscitando scandalo, rivendico il diritto di ognuno all’opacità, ossia a non essere compreso totalmente e non comprendere totalmente l’altro. Ogni esistenza ha un fondo complesso e oscuro, che non può e non deve essere attraversato dai raggi X di una pretesa conoscenza totale. Bisogna vivere con l’altro e amarlo, accettando di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui.
Magris — Anche la letteratura, è stato detto (per esempio, da Goffredo Fofi), ha un metaforico «Nord» (per esempio, Kafka, Musil, Beckett) e un metaforico «Sud» (Faulkner, Guimarães Rosa, Mo Yan)...
Glissant — L’immensa letteratura del «Nord» è stata straordinaria nella ricerca dell’individuazione, nella psicologia dell’Io, e su questa strada ho incontrato il negativo della vita e della storia moderna. Se Joyce ha scritto con l’ Ulysses un epos dell’individuazione, la letteratura del «Sud» (un sud che può essere ovunque) narra piuttosto la storia di Ulisse che diventa Nessuno, e su questa strada incontra l’epica, la totalità, la coralità — il Tutto-Mondo, come dico io. Ma questa autentica epica viene spesso contraffatta da tanta falsa letteratura, anche di successo, che simula e dunque falsifica la calda vita, come se essa fosse facile e a portata di mano...
Nessun commento:
Posta un commento