Razzismo, corruzione ed omertà: i motivi per cui il governo nega l’esistenza di questa situazione .
“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”, recita l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Poco dopo viene ribadito il concetto specificando che “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù […] schiavitù e tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma”. Era il 1948 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite firmava e diffondeva questo importantissimo documento. Oggi, però, a distanza di oltre 60 anni, l’abolizione della schiavitù sembra una delle più grandi e tristi illusioni della modernità. Troppo facile esaminare superficialmente la realtà dei paesi sviluppati e dirsi che non ci sono più tracce di schiavitù. Ad uno sguardo più attento non può sfuggire l’ipocrita contraddittorietà di una società che si definisce civile, ma vende il corpo di donne e bambini negli sporchi traffici di turismo sessuale che coinvolgono, tra clienti, sfruttati e sfruttatori, paesi e gente di mezzo mondo. Non si può negare che - causa anche l’appoggio della criminalità organizzata- sia diventata una moderna forma di schiavitù lo sfruttamento in nero della manodopera straniera, nei diversi settori su cui si basa lo sviluppo economico di molti paesi europei, fra cui l’ Italia. E, per restare in tema, è da giudicare in simili termini il commercio di clandestini che, nel disperato tentativo di sfuggire dalla povertà soffocante dei loro paesi, vendono ai trafficanti organizzatori di viaggi le loro speranze di cambiare vita lontano da casa. Di tutte queste forme di sfruttamento è complice la parte di mondo che si definisce civile, ma l’agghiacciante fenomeno della schiavitù contemporanea ha manifestazioni ancora più gravi. Per trovarle, basta spostarsi nelle zone più depresse della terra, quelle devastate da secoli di guerre, soprusi o calamità. Molte deplorevoli storie di angherie e schiavitù dei giorni nostri vengono, ad esempio, dalla Mauritania, stato dell’Africa Occidentale, da pochi decenni diventato indipendente dalla Francia e gestito da un governo islamico. Nonostante la schiavitù in questo paese sia stata ufficialmente abolita nel 1981, il lavoro di gruppi come l’Associazione per i popoli minacciati ed il Movimento anti-schiavitù IRA hanno evidenziato che oltre 500.000 persone lavarono con un salario insufficiente o senza riscuotere compenso. I padroni-datori di lavoro, insieme alle autorità governative locali, minacciano e perseguono chiunque denunci tali situazioni. Lo sa bene il Presidente dell’IRA, Biram Dah Abeid che, dopo aver richiamato l’attenzione pubblica sul problema della Mauritania, è stato vittima di persecuzioni e diffamazioni, come la diffusione di un falso certificato medico in cui appariva affetto da inesistenti problemi di mente. Come già sostenuto da Biram Dah Abeid, il problema della schiavitù è particolarmente delicato nel mondo islamico, dove riferimenti al rapporto fra schiavo e padrone presenti nel Corano sembrano quasi legittimare le forme di “possesso” e tratta di esseri umani (purchè non fra persone di religione islamica). A complicare la situazione, c’è una questione giuridica: la schiavitù è stata abolita nel 1981 ma, fino al 2007, non è stata sanzionata o esplicitamente condannata come crimine. Alcune ambiguità nella legge e la corruzione della classe dirigente che appoggia clandestinamente tale forma di sfruttamento, rendono difficile uscire da questo orrido vicolo cieco. Essere schiavo in Mauritania vuol dire venir privati di ogni diritto, lavorare duramente per far arricchire il padrone mentre la propria famiglia marcisce nella miseria. I padroni, infatti, sono considerati i “possessori” dello schiavo, del suo lavoro e dei suoi beni; alla morte del servo, ogni padrone ha il diritto di appropriarsi della piccola eredità che l’assoggettato vorrebbe lasciare alla sua famiglia. A paralizzare la gerarchizzata e razzista società mauritana è il fatto che il fenomeno sia profondamente radicato. Lo schiavismo qui ha base sia sociale che razziale. Sociale perché la condizione di schiavo viene trasmessa per via ereditaria e, anche qualora un servo riuscisse ad affrancarsi, otterrebbe una libertà solo fittizia. Gli haratine, appunto gli schiavi affrancati, rientrano in una classe sociale a se stante, continuano ad essere oggetto di discriminazione, sono considerati inferiori agli altri uomini e, anche se raggiungono un livello culturale alto o non vivono più nella stessa casa dell’ex padrone, sono comunque costretti a lavorare per lui; gli haratine, inoltre, non hanno gli stessi diritti e le stesse possibilità di un uomo nato libero. Il colore della pelle, poi, è sempre una condanna: i mori bianchi rappresentano la classe più ricca e forte, i neri sono quasi sempre schiavi. Interpretazioni del Corano studiate ad hoc complicano ulteriormente il tutto: obbedienza e spirito di sottomissione vengono considerati mezzi per guadagnarsi il paradiso e questo porta molti oppressi a desistere dal ribellarsi. La schiavitù è talmente infiltrata nel tessuto sociale ed economico che ormai si tende quasi a considerarla un elemento endemico, dolorosamente connaturato nei meccanismi e nei rapporti che regolano da sempre la vita dei mauritani. Uno dei maggiori ostacoli nel tentativo di debellare questa piaga resta però la corruzione della classe dirigente, che continua con ostinazione a negare l’esistenza del fenomeno. Negli ultimi giorni lo stato africano è sotto i riflettori per gli scontri con al-Qaueda, nel tentativo di liberare un ostaggio francese, catturato da un gruppo di terroristi islamici. Un simile livello di attenzione mediatica potrebbe essere un’opportunità per spostare l’interesse dell’opinione pubblica dalle operazioni militari alla vita del paese. Potrebbe essere il momento giusto per superare il tabù che nega la schiavitù e vieta di parlarne, l’occasione ideale per spezzare quel silenzio che fa più male di una pesante catena.
CONCETTA RUOTOLO
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