lunedì 30 luglio 2012

QUANDO I BANCHIERI CERCAVANO ANCORA DI SALVARSI L’ANIMA

Quando fare il banchiere era peccato (e grave: usura), cioè nel medioevo e nel Rinascimento, non mancava comunque un modo per salvarsi l’anima. Come? Attraverso operazioni di marketing ben studiate, come quella che ha portato Enrico Scrovegni alla creazione della Cappella affrescata da Giotto, il pittore di grido dell’epoca. Oppure consistenti donazioni, che alleggerivano il portafogli ma, per fortuna, anche l’anima.

clip_image001La Cappella degli Scrovegni, affrescata da Giotto, a Padova

Anche i banchieri hanno (avuto) un’anima. Soprattutto nei tempi in cui a fare i banchieri si rischiava di dannarsela per sempre, quell’anima. Intanto non si diceva banchieri, ma usurai. Per la Chiesa nel Medioevo chiunque prestasse denaro lucrandoci un interesse era un usuraio. Attenzione: non era l’entità dell’interesse a determinare l’esistenza di usura, ma l’interesse stesso. Era un peccato orrendo, un peccato contro natura perché si faceva copulare il denaro.
«Il denaro non partorisce denari», aveva detto san Tommaso d’Aquino. L’usuraio non merita sepoltura in terra consacrata: «Niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a fossi a guisa d’un cane», scrive Boccaccio nella prima giornata del Decameron. «Usurarius et mortus infraciditus, quia secum trahit: furtum, omicidium, infernum», afferma nel suo pittoresco latinorum Bernardino da Feltre, il francescano antisemita che promuove l’apertura dei Monti di pietà (e per questo beatificato dalla Chiesa). E contro gli usurai si scatena l’iradiddio, come nel caso della cappella mortuaria dov’è appena stato sepolto un usuraio, strappata di notte dalle sue fondamenta e gettata nel fiume con tutto il suo macabro contenuto di salme inumate. Oppure come nel 1478, a Piacenza, quando durante i funerali di un usuraio si scatena un temporale terribile e allora la folla, convinta che stia arrivando la punizione divina, si impossessa della salma, la porta in processione per la città, la impicca e la getta nel Po.
Naturalmente c’è bisogno di credito, e così l’attività si sdoppia. Da un lato stanno i piccoli prestatori, lombardi prima ed ebrei poi, che danno a credito su pegno alla massa della popolazione (il cronista veneziano Marin Sanudo scriverà che gli ebrei sono più necessari dei panettieri). Dall’altro ci sono i grandi banchieri internazionali che non fanno nulla di diverso, solo che lo fanno su grande scala si scrollano di dosso l’etichetta di usurai prima di tutto perché sono i banchieri del papa e il sommo pontefice certo non può aver a che fare con gli orrendi usurai (con i Medici i banchieri diventeranno papi).
Mentre, agli occhi della popolazione in genere, i banchieri cercano di riscattarsi creando opere d’arte che ne glorifichino la memoria. Uno dei casi più clamorosi di ripulitura della memoria è quello di Rainaldo degli Scrovegni, il banchiere padovano che, a scanso di equivoci, Dante schiaffa all’inferno, nel girone di Malebolge: «Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che
’l naso lecchi».
Rainaldo era un personaggione, prestava soldi al Comune di Padova, e il figlio Enrico non ci sta affatto che il nome della famiglia sia infangato per sempre. Allora ha un’ideona: commissiona al pittore più famoso (e costoso) del tempo, Giotto, la decorazione di una cappella dedicata alla Vergine Maria. La cappella degli Scrovegni, realizzata tra il 1303 e il 1305, è ancor oggi una delle grandi meraviglie d’Italia, ma al tempo costituisce una riuscitissima operazione di marketing. «Enrico, che muore in esilio a Venezia per ragioni puramente politiche, lascia dietro di sé l’immagine di un grande benefattore: per l’usuraio si aprono le porte del Paradiso», scrive Jacqes Le Goff. In definitiva quelle pitture costituiscono «il migliore affare del grande finanziere», sostiene la medievista Chiara Frugoni.
Non molto diversamente si comporteranno i Medici a Firenze: per ripulire la loro immagine di banchieri finanzieranno il Rinascimento. Cosimo il Vecchio, quasi un secolo e mezzo dopo Scrovegni, si fa prendere dagli stessi scrupoli per la ricchezza male acquisita e si procura una bolla papale che sana tutto in cambio di un’opulenta donazione al convento fiorentino di San Marco. Il Banco Medici – che apre nel 1397 e chiude nel 1494 – finanzia le meraviglie della Firenze che ancor oggi conosciamo, ma il mecenatismo della famiglia non terminerà con la fine del banco. I Medici daranno alla Chiesa due papi (Leone X, 1513-21, e Clemente VII, 1523-34) che saranno entrambi grandi promotori dell’arte. Clemente VII, tanto per dire, è il pontefice che incarica Michelangelo di affrescare la Cappella Sistina.
Anche banchieri di più modesta levatura pensano bene di darsi una ripulita finanziando artisti. Per esempio il vicentino Pietro da Marano, detto “Nano” perché era davvero un nano, consigliere di Mastino I della Scala e banchiere dei signori di Verona fa abbellire la chiesa francescana di San Lorenzo, a Vicenza, e si fa immortalare, vestito con un saio e in tutta la sua magnifica bassezza, nel lunotto sopra il portale d’ingresso.
Detto con vocaboli moderni, e quindi anacronistici, i banchieri del Rinascimento sono assolutamente consci del fatto che devono restituire alla collettività almeno parte di ciò che la collettività ha dato loro. E così fanno.
Alessandro Marzo Magno

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