martedì 17 luglio 2012

DUE MONDI, UNA TERRA

Occidente vs Indios

L’obiettivo della maggior parte dei paesi del mondo e delle nostre economie locali sta nel rendere la propria Nazione il più industrializzata possibile.

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La stessa scelta di noi cittadini di appartenere a contesti metropolitani è indice di una forma mentis che concepisce l’iper connessione, la possibilità di accedere a quanti più servizi possibili e l’opportunità di consumare beni ed esperienze in grossa quantità come vantaggi irrinunciabili. Questi tuttavia condizionano fortemente la nostra salute e non di meno il nostro stile di vita, perché a fronte di tutto ciò, la verità è che viviamo in ambienti malsani, consumiamo enormi quantità di risorse e, inevitabilmente, contribuiamo al riscaldamento globale.
Oggi, il nostro concetto di benessere è sintetizzabile nel fare jogging su strade asfaltate e pagare per recarci in un centro benessere dove personale esperto e macchine sofisticate si prenderanno cura del nostro corpo e del nostro spirito. Forse.
Nel frattempo, cosa succede a coloro che in questa tipologia di mondo hanno deciso di non viverci? A quelle civiltà che con la loro “arretratezza” hanno  voluto conservare le loro origini e la loro cultura rifiutandosi di aderire al nostro “modello”? L’Amazzonia è ancora uno dei luoghi più incontaminati della Terra, dove sembra che il mondo occidentale sia un’idea posta ai confini della foresta, eppure gli effetti del nostro stile di vita presentano ogni giorno il conto anche agli abitanti della foresta pluviale. È progressiva e sempre più palese la diminuzione delle piogge e l’inaridimento della terra; ogni giorno si lotta contro le speculazioni delle grandi aziende che sfruttano le risorse lignee e idriche locali. Gli Indios sono stati estromessi dalle loro terre per far posto alla coltivazione della canna da zucchero e delle palme da olio utilizzate per la produzione dei biocarburanti; ora sono costretti a vivere in zone ristrette, ai margini delle strade e in piccoli accampamenti. Sono un popolo senza terra. Le tribù hanno anche grossi problemi di alimentazione: essendo raccoglitori e cacciatori sono legate a doppio filo alla foresta e, col suo diradarsi e soprattutto a causa dei continui spostamenti imposti dai governi, diminuiscono anche le possibilità di procurarsi cibo in modo regolare e secondo le loro esigenze alimentari. Come se non bastasse poi, ormai i danni provocati alle comunità ittiche (con conseguente perdita di diversità biologica a causa di estinzione locale di alcune specie di pesci) e a tutte le specie animali sono incalcolabili.
Quale la speranza per questi popoli? Che la società occidentale consideri una retroazione del suo intervento sull’ambiente e smetta di considerare le risorse naturali solo per la loro sfruttabilità. Solo ora, con la crisi ambientale, si sta comprendendo che non è possibile pensare alla cultura e alla natura come a due mondi separati. Le popolazioni autoctone avvertono sempre più i cambiamenti climatici in corso e nonostante non abbiano gli strumenti e gli elementi per misurarli si ritrovano ad essere interessati in maggior misura dai loro devastanti effetti. Un capo tribù dei Yanomami dice in un’intervista: “Le piogge arrivano più tardi. Il sole si comporta in modo strano, il mondo è malato, i polmoni del cielo sono inquinati. Noi sappiamo cosa sta accadendo: non potete continuare a distruggere la natura o moriremo tutti, arsi e annegati”.
Ascoltare la voce di questi popoli è come sentire parlare la Terra. Noi tutti dovremmo dedicare un po’ più di attenzione all’ambiente che ci accoglie, stiamo diventando sempre più degli ospiti sgraditi; porre rimedio alle nostre azioni non è solo un dovere ma un’opportunità per tornare a vivere tuttimeglio.
Agnese Ficetola Sociologa Consulente in Sociologia dell’Ambiente
Fonte

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