Professor Moffa, a Suo parere, venticinque anni di regime liberista – innestato in Burkina Faso da Blaise Compaoré – possono sopprimere l’ideale di “orgoglio nero” che ispirò il rivoluzionario programma sankarista?
La lotta tra oppressi e oppressori ha sempre conosciuto nella storia fasi alterne. Oggi viviamo in un mondo dominato da un sistema di potere che rappresenta la negazione delle idee di Thomas Sankara (pron. Sancarà), quelle da lui espresse nel vertice dell’Oua di fine luglio 1986. Il debito va abolito: se noi non lo paghiamo nessun banchiere europeo o americano morirà, se lo paghiamo moriremo noi africani. Parole attuali, e non solo per l’Africa.
Ma la terribile situazione dei nostri tempi suscita anche proteste popolari, resistenze diffuse, fermenti per proporre vie d’uscita radicali al dominio finanziario sul mondo dei produttori di ricchezza reale. E c’è un contesto internazionale che favorisce questa tendenza: penso al vertice dei Non Allineati di Algeri di fine agosto scorso, o all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In questo senso l’ideale di Sankara non morirà mai, e sta alle nuove generazioni ricordarlo e rilanciarlo.
Qual è il ricordo del Suo personale incontro, nella primavera 1984, con l’uomo che i burkinabè tuttora chiamano “Président du Faso”? Egli rinominò la propria terra, ex colonia francese dell’Alto Volta, “patria degli uomini integri”. Una virtù, l’integrità, che il popolo tra i più poveri al mondo riconobbe nel giovane Capitano: condivide questa visione?
Thomas Sankara fu un personaggio e un capo di Stato eccezionale. L’immagine di lui che più mi entusiasmò durante il mio reportage in Burkina Faso – a parte l’intervista a Ouagadougu, poco prima di tornare in Italia – fu quella di un suo discorso a un reparto di soldati, verso il tramonto, in una radura nella savana. Un paesaggio peraltro stupendo, una aria limpida e tersa come mai si vede dalle nostre parti. Mi ero aggregato a una missione dei CdR nelle campagne, incaricata di spiegare la rivoluzione ai contadini: ricordo una discussione notturna, alla luce di una lampada camping-gas, dei dirigenti, provenienti dalla capitale con i contadini di un villaggio, che chiedevano spiegazioni e sottoponevano i loro problemi ai visitatori venuti da Ouagadougou.
Non capivo la lingua, mi aiutava traducendo in francese una bellissima ragazza burkinabè, credo si chiamasse Fatou Diallo. Poi, la mattina dopo la cerimonia di inaugurazione dei lavori di una diga, con i capi del villaggio e appunto con Sankara presente. A sera, prima di rientrare, il discorso del Presidente ai soldati. Lui era capitano: a conferma - per me che avevo studiato la rivoluzione etiopica - che gli eserciti africani non erano quelli dipinti da certo giornalismo e politologia superficiali, una sorta di colonnelli greci in salsa africana, Sankara mi avrebbe spiegato durante l’intervista che assieme ad altri compagni era entrato nell’esercito proprio per fare la rivoluzione, per prendere il potere in modo non violento, come aveva fatto Gheddafi nel 1969 in Libia. Bene, adesso vedevo l’ufficiale Sankara parlare ai suoi subalterni. Per dire cosa? Per dir loro che non avrebbero dovuto obbedire a ordini ingiusti dei loro ufficiali. Rimasi colpito, per me era un misto di Mao – ma senza le violenze delle guardie rosse – e di Mengistu, ma senza il terrorismo e il controterrorismo della rivoluzione etiopica. Sankara era una persona solare, aperta, capace di combinare l’indefesso impegno rivoluzionario con un concerto di chitarra assieme al suo collega del Ghana, Jerry Rawlings, in visita a Ouagadougu.
Pieno di carisma, ma forse anche poco attento ai nemici che si faceva attorno, e a quali esattamente fossero. Fu assassinato da un suo ‘fratello’, coautore dell’insurrezione militar civile con cui aveva preso il potere il 4 agosto 1983: ricorda in questo senso Mattei, di cui in un dibattito che feci in Campania qualche anno fa, un ex dirigente democristiano di cui non ricordo il nome, disse che avrebbe dovuto stare attento, il presidente dell’Eni, a “certi partigiani”...
Il principale, insuperabile problema sarebbe stato il golpe del 15 ottobre 1987: spezzò la tradizione post-coloniale dei colpi di Stato incruenti – se ne susseguirono tre, prima di allora, precisamente negli anni 1966, 1980, 1982 – in Burkina. Come si può spiegare, secondo Lei, l’improvvisa esplosione di violenza che condusse all’omicidio di Sankara, assieme a dodici dei suoi compagni?
Quando Sankara fu assassinato, ricordo che avevo pensato di scrivere un saggio dal titolo ‘invidia e lotta di classe’. Non nel senso con cui ne parlava all’epoca la nuova stampa ‘libera’ progorbacioviana in Russia – le proteste dei lavoratori sarebbero state espressione di invidia individuale, e non sacrosanta rivendicazione di giustizia sociale in una Russia in cui montavano i nuovi pescecani della finanza, poi eliminati da Putin – ma in quello più prosaico che delle volte la storia cambia scena e percorso anche per eventi determinati da passioni molto individuali. Compaoré non suonava la chitarra… ma ovviamente non era così: l’individuo può essere usato e comprato grazie alle sue bassezze, ma le svolte storiche sono orchestrate da ben altri fattori e poteri. Sankara aveva pestato i piedi a troppi interessi conservatori: in patria la sua politica di rigore e di eguaglianza sociale dava fastidio a molti. Eppure, permettetemi una battuta: l’abolizione da parte del Président du Faso delle auto blu per tutti i funzionari di stato ministri compresi, e la loro sostituzione con le modestissime R5 dell’epoca, potrebbe ben servire oggi per la Regione Lazio e per tutti i nostri rappresentanti politici. Una Panda per tutti, e si migliora anche il contenzioso Fiat…
Ma tornando a Sankara, la sua politica di riequilibrio dei redditi tra classi – che lui, da ragazzo, aveva vissuto sulla propria pelle, visto che una volta raccontò che con i suoi fratelli era abituato a rovistare tra i rifiuti dell’Hotel Independance per trovare qualcosa di buono da mangiare - e tra città e campagna in un paese al 90 per cento contadino, gli misero contro le elite dello stato postcoloniale, e in alcuni marginali casi lo portò a scontrarsi con quello che Marx avrebbe definito lumpenproletariat urbano. Ricordo l’abbattimento con bulldozer di una bidonville abusiva di Ouagadougu, un micro episodio subito strumentalizzato dalla solita stampa occidentale per denunciare in Sankara un nuovo “dittatore” africano.
E poi ci sono gli interessi della finanza internazionale, quel discorso a Addis Abeba del luglio 1986, tre mesi prima che venisse assassinato…
Ecco, parliamo di questo. Durante la Assemblea dell’Organizzazione dell’Unità Africana, il 29 luglio 1987 ad Addis Abeba in Etiopia, il Capitano esortò i Paesi africani a non pagare il debito estero, nonché a creare un mercato alternativo: l’autosufficienza alimentare, l’unità trans-etnica dei popoli come mezzi pacifici per vivere “liberi e degni”. Ricorda quale fu la reazione della Comunità internazionale?
La reazione ufficiale non la ricordo: come talvolta mi accade probabilmente sbagliando, una volta ‘compreso’ un argomento grazie alla mia ricerca pignola di giornalista o di studioso, cambio campo di attenzione. Ritenevo di aver ‘capito’ le problematiche della rivoluzione burkinabè ed avevo cominciato ad occuparmi sistematicamente di Libia. Ma rivedendo oggi i due video del discorso di Sankara, mi è sembrato di cogliere i visi talvolta un po’ gelidi dei rappresentanti africani al vertice di Addis Abeba dell’Oua mentre lui parlava... Si odono risate e applausi alle battute del Presidente, ma sembrano provenire da altri, forse dal pubblico presente. Camerieri invidiosi e destabilizzati dal discorso del leader burkinabè?
Comunque, un dato è certo: la sua proposta di abolire unilateralmente il debito, combinata con l’idea di un disarmo africano (le guerre, diceva, sono funzionali solo ai nemici dei popoli africani) e con l’altra, di favorire una sorta di “autarchia” economica panafricana, andava a colpire l’universo che ruotava attorno all’Africa tutta con il mondo occidentale: i falsi aiuti economici, lo scambio diseguale con il Nord, la cooperazione con le ex metropoli coloniali con tutti i suoi meccanismi solo in parte migliori di quelli proposti dagli Usa (il meccanismo Stabex), i “piani di aggiustamento strutturale” imposti dal Fmi, e soprattutto il debito cresciuto a dismisura grazie al meccanismo usurario dell’interesse sull’interesse.
Peraltro Sankara aveva parlato chiaro anche su Israele: già nel 1984 aveva proposto l’espulsione dalle Nazioni Unite, assieme al Sudafrica, dello Stato sionista. Insomma, una sfida ai veri Poteri forti del mondo, a cominciare dalle banche e dalla finanza.
Professor Moffa, come mai il Burkina Faso, al pari di Gambia, São Tomé e Swaziland, ha relazioni con Taipei? Pressioni anti-Pechino di Parigi?
Mi riesce difficile rispondere, nel rapporto triangolare tra i 23 paesi che riconoscono Taipei (tra cui i 4 africani citati nella domanda) e da una parte Taiwan e dall’altra la Repubblica Popolare cinese, esistono delle variabili che vanno ponderate caso per caso. C’è una questione di pressioni di Pechino in sede Onu (vedi la Macedonia), ci sono fattori riconducibili forse a una opzione ideologica (il Sudafrica post-apartheid opta per Pechino), oppure di realpolitik, con l’indubbia espansione della Cina Popolare in tutta l’Africa, che peraltro è stata motivo di concorrenza anche per la Libia di Gheddafi. Infine, possono aver giocato un ruolo le specificità dell’export di Taipei in campo informatico, e i finanziamenti ad hoc della Cina Popolare capaci di indurre molti di quei 23 paesi – la maggior parte dei quali sono piccoli Stati-arcipelago, o paesi comunque poveri – a optare per il miglior offerente.
E’ un dato di fatto che il Burkina Faso ha scelto Taiwan nel 1994, in pieno regime Compaoré. Ma è anche vero che una simile scelta aveva compiuto anche l’ex presidente liberiano Charles Taylor, di cui – nonostante le forti accuse della vedova di Sankara in occasione della visita nella Francia di Sarkozy di Compaoré, da lei paragonato appunto a Taylor – dubito molto l’appartenenza al campo geopolitico rappresentato con modalità e contenuti diversi dal Burkina di Sankara, come dalla Libia di Gheddafi, o dalla Siria. Taylor, di cui la solita Wikipedia sostiene che aveva vinto le elezioni del 1997 con il “terrore” (fatto che non risulta dai resoconti degli osservatori internazionali dell’epoca) è stato eliminato dal blocco anglo-americano, dentro un processo di neocolonizzazione anche israeliana dell’Africa occidentale, e nel quadro del conflitto per il controllo del traffico di diamanti. L’ex presidente liberiano venne perseguito da uno dei famigerati tribunali ad hoc degli anni Novanta, quello della Sierra Leone, in particolare da un PG ebreo-americano.
Conclusione: su Compaoré mi mancano informazioni più precise. Sono però convinto, che Sankara oggi apparterrebbe allo stesso campo dell’Iran, della Siria, di Hamas e Hezbollah, dell’Ecuador e dei paesi latinoamericani che si rivoltano contro le ingiustizie dei rapporti finanziari e commerciali tra Euroamerica e resto del mondo.
Quale eredità pensa abbia trasmesso il “Che Guevara africano” alle nuove generazioni? Il Burkina Faso è ancora in grado di risollevarsi dalla miseria e decolonizzare la propria mentalità?
Devo confessare che da almeno una trentina d’anni non vedo più in Guevara un simbolo positivo di lotta. Ne ho scritto in qualche breve commento del secolo scorso. Dal punto di vista etico mi inchino davanti alla sua figura, non sono proprio nessuno per criticarlo. Ma a Guevara ho sempre preferito Fidel Castro. Nulla a che fare con questioni di ortodossia vera o presunta. Entrambi erano comunisti ma mentre Castro osò sporcarsi le mani con la gestione del potere compiendo anche errori, Guevara preferì la fuga dalla realtà, rifugiandosi nel sogno assolutamente perdente dei mille Vietnam, che riecheggiava a sua volta la teoria della “campagna che accerchia la città” di Lin Piao.
Guevara ha sbagliato in Africa, dove non ha tenuto conto del fattore tribale, così fallendo la sua missione in un Congo preda della guerra civile interetnica. E ha sbagliato in Bolivia, dove non riuscì a istaurare un rapporto vero con i contadini. Volle esportare la rivoluzione per via militare-guerrigliera. Il suo criminale assassinio, favorito dal suo isolamento e dalla sua estraneità rispetto alla popolazione locale, non esime a mio modesto avviso dal non riconoscimento dei suoi errori politici. Certo, si può parlare di ingenuità anche per Sankara, ammazzato a freddo mentre faceva ginnastica all’aperto, vicino al palazzo presidenziale, con i suoi più stretti collaboratori marxisti. Ma il discorso della sicurezza – che riguarda anche il cacciavite nell’aereo di Mattei, di cui nessuno credo possa negare l’estrema concretezza politica e economica - è diverso dalle opzioni strategiche generali e dalla capacità-coraggio di prendere in mano le redini del potere. Gestendo il potere e sfidando anche il risentimento di settori privilegiati nazionali – esattamente come Castro, e come chiunque voglia veramente cambiare la realtà – Sankara ha costruito qualcosa e ha dato una serie di messaggi utili ad affrontare i problemi di oggi, e non solo quelli del suo popolo.
Qualche esempio particolare?
La genialità di Sankara è stata quella di combinare il lancio di messaggi e principi radicali, con il tentativo realista di dialogare e convergere con tutti coloro che potevano virtualmente essere agganciati e ‘usati’ per il suo progetto rivoluzionario. Da questo punto di vista ricordo ancora che nel discorso di Addis Abeba, il presidente del Burkina Faso citò personaggi apparentemente inconciliabili con la sua proposta, e che pure in qualche modo si erano pronunciati in modo corretto sulla questione del debito: non solo Fidel Castro, ma anche Mitterrand, il presidente della Costa d’Avorio Houphuet Boigny, il premier norvegese Gro Harlem Brundtland…
Quanto ai messaggi radicali, e nello stesso tempo assolutamente realisti, ci sono quelli che lei stessa mi ha ricordato, ed altri ancora. Le accuse all’industria farmaceutica internazionale che pensa ai prodotti cosmetici e di chirurgia plastica invece che alle medicine per salvare milioni di africani dalla morte certa. L’illusione di risolvere il problema della fame cogli aiuti alimentari stranieri, che mutatis mutandis, assomiglia molto all’illusione di risolvere il problema del debito dei paesi europei con il ricorso al fondo-salvastati. In entrambi i casi, nulla si risolve, il problema diventa permanente, perché non lo si vuole affrontare alla radice, la conquista cioè dell’autonomia decisionale nazionale in campo monetario o produttivo-commerciale.
E ancora, nel caso di Sankara: la già ricordata riduzione dei privilegi dei funzionari pubblici e dei politici, la denuncia delle grandi disparità di reddito tra i ricchissimi borghesi della capitale e i contadini nella campagna circostante, la difesa della struttura produttiva nazionale fino all’autarchia (subito però estesa a livello panafricano, ad Addis Abeba), la denuncia degli aspetti culturali della dominazione ‘americana’, e che mi ricorda le conferenze sull’hollywoodismo cui ho partecipato varie volte a Teheran…
Già l’Iran, e la ‘dominazione’ occidentale: è incredibile il servilismo, la grettezza mentale e il provincialismo dei media italiani tutti a proposito del recente vertice dei Non Allineati a di Teheran: 118 paesi, più di 20 osservatori internazionale, e nessun inviato da parte della ‘grande informazione’.
Il modello Rainews 24 di Mineo è dilagante. Oggi Sankara, se fosse vivo, sarebbe sicuramente uno dei leaders del Nam, a fianco delle punte più radicali e realiste del blocco terza forzista mondiale. La storia non si fa con i se, ma è certo che anche questo è un messaggio che resta per chi vuole, non solo in Africa, cambiare il difficile stato delle cose presenti.
CLAUDIO MOFFA
Claudio Moffa è professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo, dove insegna Storia e Istituzioni dei Paesi dell’Africa e dell’Asia e Diritto e Istituzioni dell’Africa e dell’Asia. Ha cominciato a occuparsi di storia e problematiche dei paesi extraeuropei e di immigrazione come redattore e collaboratore, fra il 1972 e il 1985, di varie testate quotidiane e periodiche fra cui - dopo l’esperienza giovanile in Lotta continua - il Corriere della Sera, Paese Sera, Panorama, il Gr-Rai. Acquisito il titolo di giornalista professionista con Paese sera, nel 1985 decide, per maggiore libertà e mantenendo come opinionista collaborazioni con testate quali La Stampa, il Gr-Rai, Rai News 24, Avvenire, La Sicilia, di intraprendere la carriera universitaria: entra dunque - con a bilancio diversi libri e numerosi saggi - nell’Università di Teramo come ricercatore di Storia e Istituzioni dei Paesi afroasiatici. Nel 2000, grazie a numerose altre pubblicazioni fra cui L’Africa alla periferia della Storia, premio Cultura Presidenza del Consiglio e primo libro a essere pubblicato all’estero del raggruppamento africanistico italiano (Harmattan 1994), vince il concorso da straordinario ottenendo la conferma e il passaggio all’ordinariato alla scadenza del triennio successivo. Dopo essersi occupato preminentemente, con ampia produzione saggistica, di problematiche politologiche e etnostoriche (le rivoluzioni nell’Africa nera, il fattore etnico nella lunga durata del continente africano, la questione nazionale e le sue trasformazioni dopo la fine della decolonizzazione, le origini storiche e geografiche del sottosviluppo del continente) Claudio Moffa ha esteso le sue ricerche ad altri settori disciplinari: ha studiato così la questione dell’immigrazione, come Direttore di un Osservatorio intereuropeo-interuniversitario finanziato dalla Commissione Europea (ODEG: 2000-2001) e partecipando come ricercatore e membro del Comitato Scientifico al progetto interregionale e internazionale Intemigra, diretto dalla Regione Abruzzo (2002: da cui diverse pubblicazioni fra cui La favola multietnica. Per una critica della sociologia dell’ ‘immigrazione facile’ , 2002: una analisi critica dei miti buonisti della sociologia ‘progressista’, con richiami alla categoria marxiana dell’esercito industriale di riserva). Dopo il 2004 si è specializzato anche in Diritto internazionale, studiando in particolare il caso del Tribunale penale del Ruanda, paese sulla cui crisi degli anni Novanta ha scritto diversi saggi su Africa, Giano, Politique Africaine, Limes. Nel 2007 è diventato avvocato-elenco professori in base al RDL 1578 del 1933.> http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=16995
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