Iran, la prigione di Evin: l’inferno della sezione 209 (Le Figaro)
Nella prigione di Evin a Teheran, i prigionieri comuni sono ammassati in celle collettive. I prigionieri politici si arenano nella famosa sezione 209.
L'ingresso del carcere di Evin
“L'Iran è diventato una prigione. Evin è diventata un'università!„ Lo slogan, viene ripetuto in coro e gridato, in occasione di ogni manifestazione iraniana, la dice lunga sulla repressione che è in corso a Teheran, nel momento in cui numerosi dimostranti, intellettuali, studenti, esponenti della corrente riformista e giornalisti vengono incarcerati ad Evin, uno dei importanti centri di detenzione della capitale iraniana. Quanti sono? Le stime variano da molte centinaia a molte migliaia, e secondo la campagna internazionale per i diritti umani in Iran, “più di 1.000 persone sarebbero state fermate durante la nuova onda dell'Achura” (riferendosi alle manifestazioni del week end).
Situata sulle alture della città, la prigione di Evin la cui la fama è ben nota, è stata inaugurato nel 1971, cioè otto anni prima della rivoluzione. Per ironia della sorte: per un gran numero degli attuali prigionieri, secondo quanto afferma Emadeddin Baghi difensore dei diritti umani, l’ambiente è familiare, in quanto vi aveva soggiornato ai temi dello Shah. In generale, i prigionieri comuni sono posti in celle collettive.
La “Tortura bianca”
I cosiddetti prigionieri “politici” subiscono un trattamento più draconiano. Dispongono di una propria sezione: la famosa “209”, una speie di “prigione nella prigione”, apparentemente affidata alla discrezionalità dei servizi segreti. Secondo quanto riferiscono diversi ex-detenuti, la sezione 209 sarebbe composta esclusivamente da mini-celle individuali, di circa 1 metro per 1,80 in cui ogni detenuto è completamente isolato dal mondo.
Un neon appeso al soffitto inonda la “camera” ventiquattr'ore su ventiquattro. Una tecnica ben consolidata, conosciuta sotto il nome “di tortura bianca”,che spinge il detenuto a “crollare” quando i suoi carnefici lo fanno passare ala prova degli interrogatori fisici. “Ci si talmente soli che si aspetta quasi con impazienza il momento dell’interrogatorio”, raccontava recentemente il giornalista irano-canadese Maziar Bahari, detenuto per 118 giorni a Evin e liberato il 20 ottobre scorso. Gli interrogatori, che a volte possono durare dieci ore di fila, possono essere violenti, con calci e pugni sui punti d'appoggio. Gli occhi bendati, il prigioniero viene sollecitato a tal punto di passare alle famose “confessioni” teletrasmesse o collettive, come in occasione dei recenti processi post-elettorali. “Accade che la confessione sia già scritta. Fanno soffrire a tal punto il detenuto che alla fine, dice tutto ciò che è scritto. Ad esempio, scrivono non c’è stato alcun broglio elettorale, che i riformatori hanno lanciato una rivoluzione di velluto e che tutto è stato organizzato dagli stranieri”, racconta il parente di un detenuto.
Molto spesso privati di un legale, i prigionieri non possono presentare nessun ricorso. Quanto alla visita della famiglia, essa è condizionata al loro “buon comportamento” e all’attitudine “a collaborare” con i loro aguzzini. Una volta liberati, dietro fideiussioni esorbitanti di migliaia di euro - in un paese in cui il salario medio si aggira intorno a 300 euro -, i prigionieri vengono poi convocai regolarmente convocati in tribunale e presso i servizi segreti. Nel caso di “violazioni alla legge” - come concedere interviste ai mass media iraniani legati agli stranieri -, rischiano nuovamente il carcere.
Delphine Minoui Le Figaro Traduzione Hurricane 53
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