Cento milioni di persone rischiano di morire di stenti nei paesi dove sono violati i diritti. L'analisi di un celebre studioso del rapporto tra cibo e libertà
Secondo le Nazioni Unite, 100 milioni di persone rischiano di morire di fame a causa dell'aumento del prezzo dei beni alimentari. A marzo scorso, il prezzo del riso in Asia è salito del 30 per cento in un solo giorno. La causa di questo aumento risiede in una perfetta esplosione di concause: raccolti scarsi, riserve insufficienti, agricoltori che hanno deciso di passare a produrre biocarburante, crescita nella domanda di carne, aumento del prezzo del petrolio e infine la speculazione finanziaria. Le Nazioni Unite hanno ragione a dirsi preoccupate. L'aumento vertiginoso del prezzo di farine e prodotti derivati (come carne e pesce di allevamento ma anche pasta e dolci) ha favorito anche il ritorno di una delle più antiche forme di azione collettiva: la sommossa popolare legata a ragioni alimentari.
Ricordiamo le parole pronunciate durante una manifestazione: "Tiravamo avanti con 14 dollari a settimana. Con questi prezzi non è più possibile". La donna che pronunciò questa frase potrebbe essere originaria di uno qualunque dei Paesi in via di sviluppo che, negli ultimi mesi, hanno visto scoppiare tumulti. Potrebbe essere indonesiana, messicana, filippina o africana. Ma questa donna è un'americana e la frase la disse nel 1917, a New York. Ma resta attuale. Oggi, in altre parti del globo.
Napoli 1943. Cittadini in fila per il pane.
La somiglianza fra le proteste del passato e le manifestazioni del XXI secolo non è solo apparente. Negli ultimi mesi, le proteste sono scoppiate in luoghi normalmente ritenuti bastioni di stabilità. Città della Mauritania, del Senegal e del Burkina Faso, ad esempio, hanno conosciuto violenze per motivi di fame. Ma i disordini non si sono verificati in modo eguale. Nei quartieri bassi di Haiti, uno dei luoghi più poveri dell'emisfero occidentale, la fame non ha generato rivolte, ma disperate strategie di sopravvivenza.
Nelle baracche di Cité Soleil c'è un commercio di torte al fango, biscotti fatti di margarina, sale e argilla che la gente mangia perché non può permettersi altro. Sebbene Haiti sia un caso estremo, la sua traiettoria sembra una versione accelerata del percorso intrapreso da decine di paesi in via di sviluppo. Considerando che una grande fetta del reddito medio familiare di questi paesi viene spesa in cibo, è evidente che queste comunità sono quelle maggiormente colpite. Ma i disordini non si sono verificati necessariamente nei luoghi maggiormente impoveriti. Non c'è un legame naturale fra stomaci brontolanti e pugni serrati. L'Egitto e l'India, per fare due esempi recenti di paesi che hanno conosciuto disordini, sono paesi a reddito medio.
I moti del pane. La rivolta a Milano in Piazza del Duomo occupata militarmente. 1898 Foto di Luca Comerio
Se l'eccesso di sofferenza non può far prevedere le sommosse, qual è l'indicatore attendibile? Lo storico britannico E. P. Thompson ha una sua idea. Nel suo studio sui disordini legati alla crisi alimentare nel XVIII secolo in Inghilterra sottolinea due fattori. Il primo è che il capitalismo aveva introdotto una discrepanza fra ciò che i poveri ritenevano fosse un loro diritto e ciò che di fatto ricevevano. Il secondo è che le proteste di strada erano il solo mezzo per far sentire le loro voci.
Questi due criteri aiutano a spiegare le insurrezioni legate alla mancanza di cibo avvenute in altri luoghi e in altre epoche storiche. In Europa, ad esempio, proteste simili erano piuttosto comuni fino alla metà dell'800.
A quel tempo, l'Europa importava grano dalle colonie per dar da mangiare ai suoi operai e le sommosse furono rimpiazzate da più sofisticate azioni quali ad esempio gli scioperi dei lavoratori.
Le insurrezioni riemersero all'indomani della Prima guerra mondiale. In prima linea c'erano le donne, spesso organizzate in gruppi socialisti locali, in città quali Philadelphia, Chicago, Toronto e New York. La guerra aveva provocato un'inflazione sul prezzo dei beni alimentari e procurarsi cibo era diventata un'impresa ardua. Le donne erano poi state di fatto escluse dalla politica di palazzo, quindi avevano ben poche armi per farsi sentire. Quando le donne ebbero il diritto di voto e ci fu una ridistribuzione del reddito, le sommosse si placarono.
La storia suggerisce insomma che per comprendere le insurrezioni e i tumulti legati al cibo e ai viveri, dovremmo prestare attenzione allo scarto fra aspettative e realtà e alla portata della democrazia. I paesi in cui si sono verificate proteste simili sono quelli in cui i rapidi aumenti di prezzi hanno reso inaccessibile il diritto al cibo primario. Ma sono anche paesi nei quali lo sviluppo ha portato una forte diseguaglianza di reddito e di ricchezza, paesi nei quali si sono alimentate speranze senza incrementare le opportunità per realizzarle. Il divario fra l'avere diritto e l'aspettativa si fa sempre più grande. Al contempo, le democrazie rappresentative funzionano appena offrono altri percorsi ai poveri per esprimere il proprio malcontento.
Le rivolte a causa di cibo sono, in altre parole, un sintomo acuto del cronico declino della democrazia di base e dei diritti. Da Haiti all'India, il declino dei diritti e della democrazia ha una fonte comune. Entrambe sono sottoprodotti di politiche di sviluppo neoliberali. Le istituzioni finanziarie internazionali fanno prestiti solo se i governi mettono in atto politiche di austerità, a dispetto di qualunque protesta popolare. C'è un incentivo per i governi che riescono a smorzare il malcontento popolare. La conseguenza è il trasformarsi del dibattito democratico nel teatrino politico della 'partecipazione', nella messa in scena di un politica di sviluppo cui si oppone la maggior parte dell'opinione pubblica.
Con un enorme divario fra realtà e aspettative, e con ben pochi altri mezzi per poter esprimere i propri bisogni, questo è il contesto in cui lo shoc dell'aumento dei prezzi può trasformarsi in rivolta e scompiglio sociale. Il ritorno della sommossa popolare legata a ragioni alimentari mostra, da un lato, quanto sia ormai diventato marcio il nocciolo e la democrazia di molti paesi in via di sviluppo, dall'altro, quanto sia grande il fallimento delle moderne istituzioni internazionali nel portare sviluppo democratico sia ai paesi che insorgono in sommosse popolari sia a quelli che non lo fanno.
Raj Patel
Traduzione di Rosalba Fruscalzo.
Rapporto Banca mondiale
Povertà estrema: 89 milioni di persone in più da qui al 2010In un rapporto della Banca mondiale, che verrà presentato al G-20 di Pittsburgh, si sostiene che sono i paesi più poveri quelli che stanno subendo i danni peggiori della crisi economica. E in un altro rapporto di Oxfam e Eurodad si afferma che il G-20 ha versato soltanto la metà di quanto promesso in aiuti
La crisi economica mondiale produce ora i suoi frutti più amari nelle periferie del globo, nei paesi più poveri. In un rapporto che la Banca mondiale (Bm) presenterà alla riunione del G-20 di Pittsburgh (Usa) il 24 e 25 settembre prossimi, si afferma che 43 paesi in via di sviluppo subiranno da qui alla fine del 2010 le conseguenze peggiori della crisi che ha colpito le economie mondiali. I tecnici della Bm hanno calcolato che in seguito a questa crisi, ci saranno 89 milioni di persone in più che saranno costrette a vivere in condizioni di estrema povertà, con meno di 1,25 dollari al giorno. E nelle casse dei paesi più poveri verranno a mancare circa 11 miliardi e mezzo di dollari da poter investire in settori come la sanità, l'educazione, le infrastrutture e la protezione sociale.
È lo stesso presidente della Bm, Robert Zoellick a ricordare che sono proprio «le popolazioni più povere ad essere esposte maggiormente agli shock economici». E critica il fatto che agli incontri del G-20 manchino proprio i rappresentanti dei paesi più esposti a queste crisi.
Un G-20 che promette. Ma che raramente mantiene fino in fondo gli impegni assunti. È di ieri la pubblicazione del rapporto di Eurodad (cartello di 60 ong dedite alla finanza per lo sviluppo) e Oxfam International in cui si afferma che il G-20 ha versato soltanto la metà di quanto promesso in aiuti ai paesi poveri, nell'incontro di aprile a Londra.
Il rapporto si intitola "Da Londra a Pittsburgh: valutazione dell'azione del G20 per i paesi in via di sviluppo". Vi si sostiene che dei 50 miliardi di dollari promessi a Londra, solo metà sono stati realmente impegnati. Inoltre, i 50 miliardi promessi rappresentano soltanto il 5% dell'impegno totale di 1.100 miliardi da versare nell'arco di diversi anni. A questo, il rapporto aggiunge che la maggior parte dei 50 miliardi promessi è costituito da prestiti, col rischio di un'altra crisi del debito. Infine, si sottolinea che il G-20 ha fatto molto poco per regolamentare i paradisi fiscali, che deprivano ogni anno i paesi in via di sviluppo (Pvs) di centinaia di milioni di euro di entrate fiscali: una cifra che secondo gli autori del rapporto supererebbe gli aiuti ricevuti dal G-20. Secondo le stime della Banca mondiale, i Pvs necessiteranno di oltre 635 miliardi di dollari per proteggere i loro cittadini dalle conseguenze della crisi economica.
Nessun commento:
Posta un commento