Il paradosso della scarsità nell’abbondanza: così l’organizzazione Save the Children ha definito nel suo ultimo rapporto “WITH-OUT. Fame e sprechi” la condizione per cui – in un mondo che secondo dati FAO negli ultimi cinquant’anni ha visto raddoppiare la sua produzione agricola – si continua a morire di fame. Sotto la lente dell’associazione ci sarebbe infatti il legame tanto stretto quanto assurdo tra la malnutrizione – a tutt’oggi responsabile di più di un terzo delle morti infantili a livello globale – e lo spreco di risorse alimentari: legame che continua a testimoniare il profondo squilibrio che caratterizza le economie mondiali e l’accesso alle risorse da parte dei diversi Paesi.
Dati e numeri. Secondo i dati congiunti di Save the Children e dell’Unicef, la malnutrizione è responsabile di più di un terzo delle morti infantili nel mondo e sarebbero 200 milioni circa i bambini sotto i 5 anni affetti da una qualche forma di carenza nutritiva: la fame rimane quindi in testa alla lista dei rischi mondiali per la salute, nonché una delle più importanti cause di mortalità infantile. Secondo il rapporto dell’organizzazione, l’80% dei bambini malnutriti si concentra in 20 Paesi: una lugubre classifica guidata da Sierra Leone, Somalia e Mali.
Africa, continente malnutrito. I dati tendono tuttavia a ingannare. Ad una prima analisi emerge infatti che il tasso di malnutrizione cronica a livello globale sia passato dal 40% registrato nel 1999 al 27% del 2010, con una riduzione in termini assoluti da 253 milioni a 171 milioni di bambini malnutriti nel mondo. I numeri registrerebbero quindi un decremento annuo dei tassi di malnutrizione pari allo 0,65%, ma la situazione è ben diversa se si concentra l’analisi sul continente africano, uno dei più colpiti da questa piaga: negli ultimi vent’anni in Africa la malnutrizione cronica si è ridotta solamente de 2%, a fronte di una forte crescita demografica che ha fatto aumentare il numero di bambini malnutriti di 15 milioni (per un totale di 60 milioni nel solo continente nero). Non solo: a questi fattori si aggiungono anche l’instabilità socio-politica, le crisi ambientali (con una conseguente riduzione della produzione cerealicola, che tra il 2010 e il 2011 in Africa è stata pari al 3,9%, con picchi anche del -9,8%) e l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari negli ultimi anni: «i paesi del Corno d’Africa e del Sahel - spiega Claudio Tesauro, presidente di Save the Children Italia - sono stati colpiti da una grave siccità che ha fortemente limitato i raccolti, provocando un aumento della dipendenza dagli aiuti alimentari». Un parere condiviso anche da Valerio Neri, direttore generale di Save the ChildrenItalia, secondo cui «nei paesi in via di sviluppo, dove le famiglie spendono già tra il 50% e l’80% del loro reddito in cibo, la costante crescita dei prezzi erode il potere di acquisto delle famiglie e costituisce una seria minaccia per la vita di centinaia di migliaia di bambini».
Perdite e sprechi. Ma il rapporto “WITH-OUT. Fame e sprechi: il paradosso della scarsità nell’abbondanza” evidenzia un altro trend, strettamente connesso alle problematiche nutritive globali: quello dello spreco. «Nei paesi sviluppati – continua Neri – la quantità di cibo disponibile e a cui il consumatore finale ha accesso è quasi il doppio rispetto ai paesi in via di sviluppo e una grossa parte di esso viene sprecato. Ma anche nei paesi in via di sviluppo molte risorse alimentari potrebbero essere recuperate. Ad esempio, si stima che il valore economico del grano perso nella fase di post-raccolto nell’Africa subsahariana è di 4 miliardi di dollari e potrebbe nutrire per un anno 48 milioni di persone, l’80% di tutti i bambini malnutriti in Africa». Se infatti la quantità di cibo persa nei Paesi in via di sviluppo e in quelli industrializzati quasi coincide (rispettivamente 630 e 670 milioni di tonnellate), ciò che cambia è la fase della filiera produttiva in cui questo accade: nei paesi più poveri, la perdita di cibo avviene soprattutto nelle prime fasi della catena produttiva alimentare (semina, raccolta, trasformazione agricola) mentre nei paesi industrializzati è preponderante il fenomeno del “food waste”, cioè dello spreco alimentare nella fase di consumo. Tradotto in cifre, il valore economico degli sprechi mondiali ammonterebbe a mille miliardi di dollari all’anno, di cui il 68% (680 miliardi) nei paesi industrializzati. Non solo: «in Europa – si legge nel rapporto – finirebbero in rifiuti 89 milioni di tonnellate di prodotti alimentari, cioè un quantitativo di cibo pari a 89 volte quello destinato agli aiuti alimentari internazionali, che a livello mondiale nel 2010 sono stati pari a 5,7 tonnellate (di cui 1 milione da parte dei paesi dell’Unione Europea».
Il dato italiano. E in tempi di crisi e austerità, fa riflettere anche il dato italiano: nel nostro Paese, infatti, le perdite e gli sprechi di cibo lungo tutta la filiera alimentare ammonterebbero a 17 milioni di tonnellate. Il valore? Quasi 11 miliardi di euro, ovvero 0,7% del PIL, per uno spreco alimentare in fase di consumo pari a circa 400 euro all’anno a famiglia.
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