giovedì 28 luglio 2011

IN URUGUAY UN CENTROSINISTRA DI GOVERNO FUNZIONA !!!

Trionfa in Coppa America e domina la scena calcistica sudamericana ormai da anni. Ma l’Uruguay ha altri primati, nel continente: ha ridotto drasticamente i tassi di povertà, ha allargato sensibilmente i diritti civili, e ha investito seriamente nella digitalizzazione del paese, affidandola a Nicholas Negroponte. Il tutto, grazie a un centrosinistra di governo che sa amalgamare senza traumi tradizioni e culture assai diverse.

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La bandiera dell’Uruguay sventola, la Celeste ha vinto la Coppa America (Afp)

L’Uruguay che domina il calcio sudamericano – quarto in Coppa del Mondo l’anno scorso, brillante vincitore della Copa America ieri – è anche il paese che sta sperimentando da sei anni una delle forme più interessanti di democrazia socialista. Fin dai tempi della rivoluzione cubana, l’America Latina e i suoi leader hanno tradizionalmente esercitato un grande fascino sulla sinistra italiana. Ai nostri giorni, sono molte le occasioni in cui si elogiano figure come Luiz Inácio Lula da Silva, Evo Morales e finanche Hugo Chavez. Certamente meno conosciuti e popolari sono invece Tabaré Vázquez e José “El Pepe” Mujica, rispettivamente penultimo e attuale presidente dell’Uruguay.
Eppure l’esperienza del Frente Amplio presenta parecchi elementi d’interesse nel percorso di costruzione di un centro-sinistra di governo. Mujica, dopo essere stato senatore e Ministro dell’Agricoltura, è stato eletto a fine novembre 2009, al ballottaggio, raccogliendo il 52,6% dei suffragi. Il principale fattore che ha portato per la prima volta all’elezione di un ex guerrigliero Tupamaro come capo di Stato è presto spiegato – l’eccellente risultato della gestione economica del governo Vazquez e del ministro dell’economia Danilo Astori, l’attuale vice-presidente.
Nel quinquennio 2004-09, il PIL è cresciuto di un terzo, l’incidenza della povertà è diminuita dal 31,9% al 20% e la disoccupazione dal 13,1% al 7%. Le esportazioni sono quasi raddoppiate e la produzione industriale ha battuto nuovi record. Dopo una contrazione del 2,7% nel primo trimestre 2009 dovuta alla crisi internazionale, il PIL ha ripreso a crescere, chiudendo l'anno a
+ 2,9% e registrando +8,5% nel 2010, uno dei tassi più elevati a livello mondiale.
Il clima economico internazionale – e in particolare l’appetito cinese, e asiatico più in generale, per la soia e gli altri prodotti agricoli uruguaiani – ha sicuramente aiutato; a questo si sono accompagnati una politica macroeconomica prudente, l’attrattività dell’Uruguay per gli investimenti internazionali (per esempio l’indiana Tata Consultancy Services, che occupa mille persone nel suo centro a Montevideo) ed una serie di misure innovative, tra le quali spicca il Plan Ceibal (Conectividad Educativa de Informática Básica para el Aprendizaje en línea) lanciato nel dicembre 2006.
Per questo programma di distribuzione di un personal computer a ciascun allievo della scuola elementare e di allacciamento in rete wi-fi di ogni scuola del paese, il governo ha investito 120 milioni di dollari. L’ispirazione viene dal progetto One Laptop per Child del professore americano Nicholas Negroponte e i computer utilizzati sono semplici (256MB di memoria e capacità di archiviazione di 1GB) e poco cari (188 dollari per macchina).
L’afflato riformista del Frente Amplio si è esteso alle politiche sociali: in un paese dai costumi estremamente tradizionali, sono stati legalizzati il matrimonio tra persone dello stesso sesso e l’adozione da parte di coppie omosessuali. È stato anche introdotto il diritto per i pazienti terminali di richiedere l’interruzione dei trattamenti che prolongano la vita. La legge sull’identità di genere e il cambio di sesso, promulgata poche settimane prima del voto, consente a qualunque cittadino, indipendentemente dall’essersi sottoposto o meno a chirurgia, di cambiare ufficialmente di identità sulla base della testimonianza di un piccolo gruppo di persone che dichiarino che il soggetto viene chiamato con un altro nome da due anni.
Come suggerisce il nome, il Frente Amplio è una coalizione di diverse forze politiche di sinistra e centro-sinistra che si richiamano al comunismo, al socialismo, al marxismo, al trotskismo e alla democrazia cristiana. Mujica proviene dalle fila del Movimiento de Participación Popular di ispirazione socialista (di cui è tra l’altro leader la moglie, la senatrice Lucía Topolansky), il Ministro dell’Economia Fernando Lorenzo è membro di Nuevo Espacio (uno dei due partiti uruguaiani nell’Internazionale Socialista), mentre Astori appartiene alla socialdemocratica Asamblea Uruguay.
La procedura per evitare il rischio di una divisione tra queste diverse anime è stata apparente complessa ma al contempo estremamente efficiente. Nel dicembre 2008 il Plenario Nacional (equivalente della Direzione Nazionale) propose Astori, Mujica e altri tre esponenti del Frente Amplio come pre-candidati per l’elezione presidenziale; una settimana più tardi il congresso, oltre ad approvare il programma di governo per tali elezioni, proclamò Mujica come candidato officiale, abilitando però gli altri quattro in condizioni di uguaglianza; più di 440 mila persone parteciparono il 28 giugno alle primarie (1), che videro Mujica vincere con un margine meno ampio di quanto previsto (52% a 40%).
Da ciò la decisione di Mujica di proporre ad Astori la candidatura a vice-presidente e il cambio di discorso elettorale – non più “profondizzare” le politiche di Vázquez ma piuttosto continuare sulla stessa linea dimostratasi vincente. Lo slogan per le elezioni presidenziali – Gobierno honrado, país de primera – già esprimeva l’intenzione di governare in sintonia con il sentire comune del corpo elettorale. Con la decisione dopo il voto d’incontrare il candidato del Partido Colorado – cioè il secondo gruppo dell’opposizione, i cui voti sono confluiti su Luis Alberto Lacalle – prima che gli altri esponenti del Frente Amplio, Mujica ha confermato la strategia di costruire ponti bipartisan per le riforme di cui l’Uruguay ha bisogno.
Decisione tanto più significativa in quanto Pedro Borbaderry è figlio del dittatore José María, il cui governo nel 1972 arrestò Mujica che passò in carcere i successivi 13 anni. Ogni paese ha le sue particolarità e ovviamente quelle dell’Uruguay sono diverse da quelle dell’Italia. Basti dire che, per quanto considerato dalla Banca Mondiale come paese a reddito medio-alto, l’Uruguay è tuttora afflitto da seri problemi di sviluppo: secondo l’ultimo rapporto dell’UNDP sugli Obiettivi di Sviluppo del Millenio, nel 2008 l’incidenza dell’indigenza era del 1,7% e della povertà del 21,7%.
L’esperienza del Frente Amplio contiene però elementi interessanti, sul piano della strategia e della tattica, di cui possono far tesoro anche forze politiche italiane di simile orientamento. Da un lato l’ambizione di “pensare in grande” – certamente non a caso il lemma della Fundación
Líber Seregni, il think tank del Frente Amplio – e proporre un’agenda riformista anche laddove il contesto sembri a prima vista poco incoraggiante. Se l’Uruguay è stato pioniere in introdurre l’insegnamento gratuito, obbligatorio e laico nel 1877 e il divorzio nel 1907, in compenso l’aborto rimane illegale e nulla lasciava pertanto presagire che le nuove leggi in materia di diritti individuali sarebbero state approvate.
Alla stessa stregua, quando il governo prese contatto con Negroponte nel 2005 la prima reazione degli americani, convinti che il progetto potesse funzionare soltanto in grandi paesi come Brasile e Argentina, fu di scarsissimo interesse. Dall’altro, un progetto al servizio dell’interesse nazionale non può prescindere da leader di partito capaci di anteporre l’obiettivo di governare a questioni politiche identitarie che spesso si rivelano sterili. All’interno del Frente Amplio convivono movimenti che fanno capo all’Internazionale Socialista (Nuevo Espacio e Partito Socialista d’Uruguay) e al Centrist Democrat International (Partido Demócrata Cristiano).
L’idea di scindersi non ha fatto capolino nella mente di Astori dopo le primarie e la cooperazione tra i due candidati è stata eccellente nel corso della campagna elettorale. Circostanze che dovrebbero fare meditare il Partito Democratico nostrano…
(1) le elezioni “interne”, introdotte a seguito della riforma costituzionale del 1997, sono previste per tutti i partiti politici che compiano determinati requisiti tra cui la realizzazione di un’Assemblea Costitutiva, la creazione di uno statuto, di un documento che specifichi organizzazione e funzionamento del partito stesso e l’esistenza di un organo esecutivo.
ANDREA GOLDSTEIN

martedì 26 luglio 2011

IL CONSIGLIO DEL CAMALEONTE

“Se ho un consiglio da darti, ti dico: Apri il tuo cuore e soprattutto vai alla scuola del Camaleonte. È un grande maestro. Osservalo bene e vedrai che cosa è il Camaleonte.
Innanzitutto quando prende una direzione, il Camaleonte non devia mai, non cambia mai rotta. Abbi un obbiettivo preciso nella tua vita, e che nulla ti allontani da questo obiettivo.
E cosa fa il Camaleonte? Non gira mai la testa, è il suo occhio che fa roteare. Quando incontrerai un Camaleonte, osservalo e vedrai, è il suo occhio che gira: guarda in alto, guarda in basso... Questo significa: informati, non credere di essere la sola persona che esista sulla terra, c’è tutto l’ambiente attorno a te.
Il Camaleonte quando arriva in un posto prende il colore del luogo. Non è ipocrisia, è innanzitutto tolleranza, e poi saper vivere. Urtarsi gli uni gli altri non serve a nulla, non si è mai costruito nulla litigando. La rissa distrugge, la mutua comprensione è un grande dovere, bisogna sempre cercare di comprendere il nostro prossimo. Se noi esistiamo dobbiamo ammettere che anche lui esiste.
E cosa fa ancora il Camaleonte? Quando alza il piede dondola. Bisogna sapere che i due piedi posti a terra non affondano. In seguito depone gli altri due. Poi si alza e dondola ancora: questo significa prudenza nel cammino.

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E la sua coda è prensile, l’aggancia. Non si sposta così a caso, l’aggancia perché caso mai dovesse affondare davanti, rimanga sospeso. Questo significa assicurarsi le retrovie: non essere imprudente.
Cosa fa il Camaleonte quando vede una preda? Non si precipita, ma lancia la sua lingua, è la lingua che va a cercare la sua preda. Perché non è l’insignificanza della preda che ti assicura che non può farti morire.
Dunque lancia la sua lingua, se questa può riportare la preda, la riporta, tranquillamente... altrimenti ha sempre la possibilità di riprendere la sua lingua e di evitare il peggio.
Vai dunque con calma in tutto quello che fai. Se vuoi costruire qualcosa di duraturo, sii paziente, sii buono, sii vivibile, sii umano.
Ecco quello che il Camaleonte ti insegna. Se attraversi la foresta africana, se incontri un iniziato, ecco, ti racconterà il “paragrafo” del Camaleonte.”
testo del grande intellettuale e studioso dell’oralità africana Hampaté Bah

lunedì 25 luglio 2011

HOMOWO D’AGOSTO

La festa del raccolto per allontanare fame e carestie

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In Ghana, nel mese di agosto si commemora l’Homowo, antico rituale che ricorda la fine di un periodo di scarsità alimentare vissuto dagli antenati del popolo Ga: un’occasione per propiziarsi abbondanti messi.
“La prima cosa che colpisce è la luce. Gran luce ovunque, tanto sole, un chiarore abbagliante”. Così il noto giornalista polacco Ryszard Kapuscinski descriveva il suo primo impatto con il Ghana. Era il 1958, quando spopolava la figura di Kwame Nkrumah, colui che ha condotto questa nazione dell’Africa occidentale indipendente.
Sono passati parecchi da anni da allora. Molto è cambiato a livello politico-sociale, ma sono sopravvissute in questi decenni di cambiamenti antiche tradizioni tipiche del popolo ghanese. È il caso della festa chiamata dell’Homowo, le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

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Secondo i racconti orali, questa celebrazione rievoca un tempo in cui le genti Ga (una delle tante etnie del Paese) patirono un difficile periodo di carestia, durante la loro migrazione che li ha portati nella regione dove è stata poi fondata l’attuale capitale Accra. Grazie alla loro tenacia e all’intervento delle divinità che avevano invocato, i Ga riuscirono a coltivare messi abbondanti per tutti. La parolaHomowo significa non a caso “schernire la fame”.


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La festa è una delle più importanti della nazione. Il suo preludio ha inizio in primavera (generalmente a maggio), quando i sacerdoti che custodiscono le pratiche tradizionali spargono i semi di miglio. Questa è la stagione della semina prima delle piogge. Dopo di che, per trenta giorni vige la prescrizione del silenzio, ovvero è rigorosamente vietato il suono dei tamburi nelle aree rurali.

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Lo sviluppo e le tempistiche della festa variano a seconda del gruppo Ga di appartenenza, essendo esso costituito da diverse tribù. Tuttavia, il significato e i rituali sono comuni ai vari gruppi presenti nella grande regione di Accra.
Durante il festival vengono organizzate cerimonie religiose indirizzate in particolare a Naa Nyonmo, il Supremo Essere in cui crede il popolo Ga. A questa divinità viene rivolta una preghiera benaugurale, ripetuta tre volte, per scacciare la sventura e per ottenere la benedizione affinché la terra sia fertile e quindi possa dare un buon raccolto. Oltre a queste celebrazioni, in ogni casa viene preparato il cibo tradizionale, chiamato kpekple, a base di zuppa e di pesce.

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Il cibo è l’elemento centrale di questa festa: è venerato, elargito, scambiato, utilizzato per allestire ricchi banchetti; simboleggia la sconfitta dello spettro della fame. Il festival Homowo vero e proprio si tiene nel mese di agosto. Le offerte di cibo vengono distribuite e con esse vengono anche cosparsi i templi in segno di rispetto per gli antenati e gli spiriti.
Una parte importante nei festeggiamenti viene data alla danza. In questo caso si tratta di un ballo di natura devozionale, chiamato kple, eseguito dalle sacerdotesse dei templi, alla fine di agosto e all’inizio di settembre. Attraverso i movimenti e la musica si vuole comunicare con le divinità invocando la loro protezione dalle calamità.
Il festival dell’Homowo apre inoltre le porte al nuovo anno ‒ secondo il calendario del popolo Ga ‒ che ha inizio il lunedì successivo alla celebrazione finale. L’ultimo giorno dei festeggiamenti le persone possono salire su un palco pubblico ed esprimere dichiarazioni legate al sociale, all’economia e anche alla politica.
Silvia Turrin
Fonte

giovedì 21 luglio 2011

IL DESERTO VERDE

L'espressione “deserto verde” è stata coniata in Brasile alla fine degli anni Sessanta per designare le monocolture arboree su grandi estensioni, finalizzate alla produzione di cellulosa. Già a quel tempo, il termine alludeva alle conseguenze che questo tipo di piantagioni avrebbe prodotto negli anni a venire sull'ambiente: desertificazione, erosione, riduzione della biodiversità e migrazione forzata delle comunità umane.
Le prime piantagioni di eucalipto nella parte settentrionale dello Stato di Minas Gerais e in quella meridionale dello Stato di Bahia [it] risalgono proprio agli anni Sessanta. Secondo le stime fornite dall'Associazione Brasiliana dei produttori forestali (Associação Brasileira de Produtores de Florestas Plantadas) la monocoltura di eucalipto si espande al ritmo di 720 ettari al giorno, una superficie pari a 960 campi di calcio. Le aree maggiormente interessate dalle nuove piantagioni si trovano negli Stati del Minas Gerais, di São Paulo e di Bahia, ma il deserto verde avanza anche in altre regioni del nord-est e del sud del Paese.

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Una fitta piantagione di eucalipti. Foto di Cássio Abreu ripresa con licenza Creative Commons BY 2.0

Nel corso del suo viaggio attraverso lo Stato di Minas Gerais lo scorso aprile, l'autore del blog Viajante Sustentável (il viaggiatore sostenibile) ha parlato con gli abitanti della valle dello Jequitinhonha, scoprendo come gli scenari geografici e sociali della regione siano drasticamente mutati nel corso degli ultimi vent'anni:
La monocoltura dell'eucalipto, praticata dalle imprese private a monte dei corsi d'acqua, si è rivelata una calamità socio-ambientale: il deserto verde di eucalipti ha prodotto effetti catastrofici, avvelenando il suolo, provocando la scomparsa di flora e fauna locale, prosciugando le sorgenti e le falde freatiche. Un tempo la regione era autosufficiente dal punto di vista alimentare, grazie ai prodotti dell'agricoltura familiare perfettamente integrata con la natura ma la situazione è radicalmente cambiata: i piccoli corsi d'acqua si sono prosciugati, sono scomparse le polle d'acqua dolce, i livelli dei fiumi si sono abbassati mentre sono cresciuti quelli dei depositi di limo. I terreni agricoli sono stati abbandonati e di conseguenza tutti i generi alimentari vengono fatti arrivare dai distributori di Belo Horizonte. E in tutto questo, le multinazionali dell'eucalipto e della cellulosa continuano a ricavare enormi profitti.
Nella zona intorno a Montes Claros, la situazione non è molto diversa:
Non si scorgevano altre colture ad eccezione di trenta chilometri di deprimente deserto verde. I flagelli dell'eucalipto e del pino si alternavano, avvelenando e prosciugando le sorgenti e la falda freatica. Dato che utilizza pochissima mano d'opera, la monocoltura per l'esportazione non contribuisce in alcun modo alla diminuzione della povertà di quelle regioni, al contrario, concentra i profitti nelle mani di una o dell'altra grossa multinazionale.
Ad attendere la poetessa Anna Paim, rientrata nel suo paese d'origine nello Stato di Espírito Santo dopo un'assenza di 19 anni, c'era un'amara sorpresa:
È stato triste: i paesaggi originari più belli della regione sono stati completamente distrutti per fare posto agli eucalipti. Voglio testimoniare qui la mia indignazione, la mia rabbia il mio dolore, eccoli…
Sul sito Beco da Velha (Il vicolo della vecchia) viene ricordato che gli eucalipti naturali erano molto diffusi nel sud del Brasile; il danno ambientale è iniziato e rapidamente peggiorato quando è stata introdotta la coltura di piante transgeniche che crescono a un ritmo accelerato e consumano molta più acqua:
Oggigiorno, la coltura degli eucalipti presenta profonde differenze rispetto al passato e non si tratta solo delle manipolazioni genetiche: si è passati ad un tipo di coltivazione molto intensiva; vengono piantati eucalipti ovunque, senza alcun criterio né buonsenso; le estensioni delle piantagioni sono impressionanti ma soprattutto sono cambiati gli obiettivi strategici che si nascondono dietro questa accresciuta passione per la “riforestazione” - un termine del tutto improprio per descrivere quanto si sta facendo perché sottintende che si ricostituisca la foresta originaria, ripristinando un ecosistema devastato, quando invece si sta facendo esattamente il contrario.

L'inesorabile avanzata del deserto verde

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Illustrazione ripresa dal Centro de Estudos Ambientais.

Dopo essersi espanso nel sud-est a discapito della foresta atlantica, il deserto verde ha fatto la sua comparsa nelle zone aride del nord e del nord est del paese. Nello stato del Piauí, la costruzione di un impianto per la lavorazione della carta e della cellulosa ha portato con sé promesse di sviluppo economico per la regione che secondo il blogger Leo Maia non hanno alcun fondamento: citando i dati diffusi dall'IBGE(l'Istituto brasiliano di Geografia e Statistica), Maia sostiene che il 41% della popolazione dello Stato è malnutrita come conseguenza del fatto che gli agricoltori locali non sono minimamente incentivati a coltivare prodotti destinati all'alimentazione umana.
Ciononostante, nel Piauí sono 160.000 (pari a 1 600 km2, cioè 1,57% dell'estensione dell'intero stato) gli ettari di territorio già trasformati in “foreste” di eucalipto per produrre carta e cellulosa destinate all'esportazione. Nel suo blog, Leo rilancia un articolo apparso in un quotidiano locale in cui si denuncia la contrapposizione tra gli interessi commerciali e le necessità della popolazione.
(…) gli alberi a crescita veloce come l'eucalipto, necessitano di enormi quantità d'acqua per svilupparsi e per questo provocano un inaridimento del suolo, abbassano i livelli delle falde acquifere e aumentano le possibilità di desertificazione di queste regioni. Alla luce di tutto ciò, l'apertura dello stabilimento della Suzano si rivela ancora una volta in contrasto con le reali necessità della popolazione dello stato di Piauí visto che la regione patisce, praticamente tutti gli anni, gli effetti della siccità. Solo dall'inizio di quest'anno sono stati 155 i municipi che hanno dichiarato lo stato di emergenza per la siccità e alcuni hanno visto il 90% dei loro raccolti compromessi per la mancanza d'acqua.
Ambientalisti e movimenti sociali continuano a denunciare i rischi derivati dalla pericolosa combinazione di eucalipto, monocoltura e pesticidi per la salute delle persone. Oltre a occupare territori che potrebbero essere utilizzati per l'agricoltura, le piantagioni di eucalipto causano problemi anche a quei coltivatori che producono generi alimentari nelle aree circostanti dato che le loro terre vengono invase da animali selvatici in cerca di cibo. Mariana Brizotto vuole enfatizzare che le piantagioni non sono foreste e chiede:
Cosa faremo quando non sarà rimasta più una goccia d'acqua? Mangeremo carta?
I piccoli agricoltori stanno perdendo le loro terre a causa delle monoculture di eucalipto, ma c'è anche chi come Sumário Santana coglie la tristezza e la sinistra bellezza del deserto verde, traendone ispirazione per le sue poesie:
Laddove un tempo sorgeva la comunità tradizionale di Marília, oggigiorno sorge la fabbrica di cellulosa. Lì nel Nuovo Mondo, dove un tempo le famiglie lavoravano felici nelle loro piccole fabbriche di mattoni oggi esiste solo una grande fabbrica di mattoni. Le famiglie se ne sono andate, il fiume si è prosciugato, l'argilla è sparita e ora la fabbrica minaccia di chiudere. Laddove un tempo c'era una colonia agricola con centinaia di piccoli proprietari, oggi ci sono i latifondi chiusi, sorvegliati da guardie in moto.
Laddove un tempo sorgeva un'immensa, diversificata e umida foresta oggi c'è un deserto verde.
L'apparente bruttezza dell'intrico caotico di piante, liane, sorgenti, animali, insetti, centopiedi, fango, melma, limo e fotosintesi ha lasciato spazio all'apparente bellezza di un mosaico unico, ben disegnato, mappato, catalogato, un'unica specie ripetuta in serie, nella solitudine del deserto…

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Illustrazione di Charge de Santiago, ripresa con autorizzazione.

scritto da Paula Góes · tradotto da Katia Gerussi
Fonte

martedì 19 luglio 2011

LE PRATICHE ILLEGALI DELL'INDUSTRIA DI BIOCOMBUSTIBILI IN BRASILE

I biocombustibili si sono dimostrati essere la miglior soluzione possibile alla carenza di risorse energetiche nel mondo. Al tempo stesso, sono stati individuati come un'alternativa “verde” che favorisce la riduzione delle emissioni di carbonio. Tuttavia, nel mese di maggio, un'analisi realizzata dalla ONG Reporter Brasil [pt, come tutti i link tranne ove diversamente segnalato] sulla catena di produzione dell'etanolo brasiliano ha rivelato che i biocombustibili possono avere un impatto elevato a livello socio-ambientale:
Lo studio rivela le irregolarità socio-ambientali di cui sono colpevoli gruppi come Cosan (joint-venture con Shell), Greenergy International, São Martinho, Louis Dreyfus Commodities, Carlos Lyra, Copertrading, Moema/ Bunge e Noble, così come la destinazione delle loro esportazioni di etanolo. Sono stati rivelati casi di schiavitù, un orario di lavoro eccessivo, lavoratori non in regola, smaltimento illegale dei rifiuti, per non parlare dell'incendio e dell'uso illegale di terre indigene per la produzione di canna da zucchero.

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Il costo sociale della diffusione di biocombustibili in Brasile: la comunità indigena dei Guarani Kaiowá di Laranjeira Nhaderu costretta a lasciare le proprie terre 14 mesi fa per far posto alle piantagioni di canna da zucchero. Ora vive lungo l'autostrada BR-163. Foto di Annabel Symington, Demotix (21/10/10).
Sporco il lavoro, sporco l'ambiente
Secondo Reporter Brasil, i dati pubblicati dall'organizzazione Comissão Pastoral da Terra indicano che tra il 2003 e il 2010 sono stati liberati 10.010 lavoratori impegnati nelle piantagioni di canna da zucchero del Brasile. Questo studio, disponibile in inglese[en] e in portoghese, tiene conto anche dello sforzo del governo federale e dell'Associazione dell'industria da canna da zucchero (UNICA) nell'affrontare i problemi socio-ambientali, ma al tempo stesso denuncia l'assenza di una legge che impedisca l'esportazione di etanolo alle aziende che effettuano queste pratiche illegali.

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L'allevamento e la canna da zucchero hanno prodotto tra il 2003 e il 2010 il 59% dei casi di schiavitù in Brasile. Rapporto in inglese di Reporter Brasil / p.5

Il blog ufficiale della Fondazione Universitaria Iberoamericana(FUNIBER) segnala che:
Se l'intenzione era quella di ottenere combustibili più puliti, allora stiamo commettendo errori in qualche punto della catena di produzione, visto che in questo processo si smaltiscono e si bruciano boschi per fare spazio a una varietà di monocolture che possano poi essere sfruttate dall'industria dei biocombustibili. Smaltimento e incendio aumentano le emissioni di CO2, in quantità maggiore rispetto a quelle prodotte dalle automobili.
Un altro problema della produzione di biocombustibili è che questa può mettere in pericolo la qualità dell'acqua [video sottotitolato in inglese] e indebolire la riforma agraria che ancora deve essere completata nel paese. L'articolo ‘Monopólio da Terra e os Direitos Humanos no Brasil’ (Monopolio della terra e diritti umani in Brasile) scritto dalla direttrice della “Rete per la giustizia sociale e i diritti umani”, Maria Luisa Mendonça, riporta:

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La gran parte delle piantagioni di canna da zucchero in Brasile sono ancora nello Stato di São Paulo, dove il 60% del raccolto si effettua con macchine, il che non ha interrotto l'uso di bruciare preventivamente le terre. Flickr: Royal Olive (CC BY-NC-ND 2.0)
(…) Secondo uno studio finanziato dalla National Academies Press, la qualità dei fiumi, delle coste, delle acque termali può risultare danneggiata dall'aumento dell'uso di fertilizzanti e pesticidi che vengono impiegati nella produzione dei biocombustibili. (…)
Il governo ha scelto il Cerrado come obiettivo prioritario per la diffusione della produzione della canna da zucchero per l'etanolo. Il Cerrado è noto come il “padre delle acque” perchè rifornisce i principali bacini del paese. (…) L'avanzare delle monocolture di soia e canna da zucchero ha minacciato questo bioma, che potrebbe scomparire del tutto in pochi anni se il processo di distruzione continua a questo ritmo, mettendo fine così ad alcuni dei principali fiumi del paese.
Qual è il futuro della terra?
Felipe Amin Filomeno, nel blog Outras Palavras (Altre Parole), afferma che ‘Brasile e Mercosur hanno iniziato a lottare per le proprie terre' e inoltre che per la fretta di ottenere terre per la febbre di biocombustibili in Brasile e in altri paesi in via di sviluppo è cresciuto il costo della terra, il che comporta un ulteriore problema: la fine delle piccole fattorie a conduzione familiare:
Mentre gli stranieri comprano terre che, nella maggior parte dei casi, saranno utilizzate per le monocolture da esportazione, molti nativi (comprese le comunità indigene) continuano a necessitare l'accesso alla terra come mezzo di sussistenza familiare. (…)
Tuttavia, i piccoli agricoltori di America Latina e Africa non sono gli unici a scontrarsi con i problemi causati dalla mercificazione di terre in tutto il mondo. Con l'estensione dell'industria di biocombustibili, aumentano le dispute per la terra da destinare alla coltivazione di soia e canna da zucchero. I grandi produttori di soia del Brasile, per esempio, vedono aumentare il valore delle loro proprietà, ma al tempo stesso crescere le spese, in particolar modo coloro che sono costretti ad affittare le terre per la produzione. Dovranno contendersi con gli stranieri le risorse del proprio paese.
Fonte
http://www.demotix.com/photo/509918/social-cost-brazils-biofuels-expansion

lunedì 18 luglio 2011

SICCITÀ IN EAST AFRICA

The worst drought in the Horn of Africa has sparked a severe food crisis and high malnutrition rates, with parts of Kenya and Somalia experiencing pre-famine conditions, the United Nations has said. More than 10 million people are now affected in drought-stricken areas of Djibouti, Ethiopia, Kenya, Somalia and Uganda and the situation is deteriorating.
Faduma Sakow Abdullahiand her five children tried to escape starvation in Somalia by journeying to a Kenyan refugee camp. Only one day before they reached their destination, her 4-year-old daughter and 5-year-old son died of exhaustion and hunger. At first the 29-year-old widow thought the two were merely sleeping when they wouldn’t get up after a brief rest. She had to leave their bodies under a tree, unburied, so she could push on with her baby, 2-year-old and 3-year-old. She saw more than 20 other children dead or unconscious abandoned on the roadside. Eventually a passing car rescued the rest of her family from what could have been death.
“I never thought I would live to see this horror,” she said, tears rolling down her cheeks as she described the 37-day trek to Dadaab, the world’s largest refugee camp.
Tens of thousands of Somalis have watched their land dry up after years without rain. Then the livestock died. Finally all the food ran out. Now they are making the perilous journey over parched earth to refugee camps in Kenya and Ethiopia, regions that also have been hit hard by drought.

Kenya East Africa Drought
Recently-arrived Somali refugees wait to fill jerry cans with water at a newly-installed tank in Iffou 2, an area earmarked for refugee camp expansion, but yet to be approved by the Kenyan government, outside Dadaab, Kenya, Monday, July 11, 2011. U.N. refugee chief Antonio Guterres said Sunday that drought-ridden Somalia is the "worst humanitarian disaster" in the world, after meeting with refugees who endured unspeakable hardship to reach the world's largest refugee camp in Dadaab, Kenya. (AP Photo/Rebecca Blackwell)

Kenya East Africa Drought
Members of the family of Rage Mohamed are overtaken by wind-blown dust as they build a makeshift shelter around a thorny acacia tree, on the outskirts of Dagahaley Camp, outside Dadaab, Kenya, Sunday, July 10, 2011. It took the 15-person family five days to make the journey from their drought-stricken home in Somalia. They spent two nights sleeping in the open air under the tree prior to receiving tarps on Sunday. U.N. refugee chief Antonio Guterres said Sunday that drought-ridden Somalia is the "worst humanitarian disaster" in the world after meeting with refugees who endured unspeakable hardship to reach the world's largest refugee camp in Dadaab, Kenya. (AP Photo/Rebecca Blackwell)


504266747.jpgA young Somali girl who fled violence and drought in Somalia stands in line among adults outside a food distribution point in Dadaab refugee camp in northeastern Kenya on July 5, 2011. Dadaab, a complex of three settlements, is the world's largest refugee camp. Built to house 90,000 people and home to more than four times that number, it was already well over its maximum capacity before an influx of 30,000 refugees in the month of June. Upon arrival, the refugees find themselves tackling a chaotic system that sees new arrivals go days, even weeks, without food aid. "It still takes too much time for refugees to get proper assistance," Antoine Froidevaux, MSF's field coordinator in Dadaab told AFP. "The answer in terms of humanitarian aid is not satisfactory at all at the moment." ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images

Kenya East Africa Drought
A Somali woman waiting amongst scores of other refugees, all hoping to receive their ration cards despite a processing backlog, pleads with an organizer in Dagahaley Camp, outside Dadaab, Kenya, Monday, July 11, 2011. U.N. refugee chief Antonio Guterres said Sunday that drought-ridden Somalia is the "worst humanitarian disaster" in the world, after meeting with refugees who endured unspeakable hardship to reach the world's largest refugee camp in Dadaab, Kenya. (AP Photo/Rebecca Blackwell)

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A Somali man who fled violence and drought in Somalia with his family sits on the ground outside a food distribution point in the Dadaab refugee camp. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images


Kenya East Africa DroughtOne-year-old, Habibo Bashir, rests on a bed at a Doctors Without Borders hospital where he is being treated for severe malnutrition, in Dagahaley Camp, outside Dadaab, Kenya, Monday, July 11, 2011. U.N. refugee chief Antonio Guterres said Sunday that drought-ridden Somalia is the "worst humanitarian disaster" in the world, after meeting with refugees who endured unspeakable hardship to reach the world's largest refugee camp in Dadaab, Kenya. (AP Photo/Rebecca Blackwell)

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A refugee holds her child in her arms as she and others like her mass outside a food distribution point in Dadaab in the hope of getting access to much needed aid at the worlds biggest refugee camp in the world on July 4, 2011. With a population of 370,000, Dadaab is the world's largest refugee camp even though it was built for just 90,000. With serious drought in the Horn of Africa, thousands of Somalis have arrived in recent weeks in search of food and water. AFP PHOTO/Roberto SCHMIDT

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A Somali refugee drags a sack with food aid given to her at a food distribution point at the Dadaab refugee camp. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images

Kenya East Africa Drought
Refugees newly arrived from Somalia line up to receive food rations at a receiving center in Dagahaley Camp, outside Dadaab, Kenya. The United Nations High Commissioner for Refugees estimates 1300 new refugees fleeing drought and hunger in Somalia are arriving daily in the Dadaab area. (AP Photo/Rebecca Blackwell)


504255736.jpgSomali refugees wait in line to recieve aid at a food distribution point at Dadaab refugee camp. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images)

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A Somali man accesses a water point at the Dadaab refugee camp on July 4, 2011. With a population of 370,000, Dadaab is the world's largest refugee camp even though it was built for just 90,000. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images
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A Somali girl being treated for severe malnutrition pushes away a cup as a woman tries to feed her at a hospital operated by the International Rescue Commission. (AP Photo/Rebecca Blackwell)

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A Somali refugee waits to receive a food ration for her and her family at a food distribution point. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images

Kenya East Africa Drought
Somali refugees sit in the yard of their makeshift shelter, fenced in with thorny branches, in Iffou 2, an area earmarked for refugee camp expansion, but yet to be approved by the Kenyan government, outside Dadaab, Kenya, Monday, July 11, 2011. U.N. refugee chief Antonio Guterres said Sunday that drought-ridden Somalia is the "worst humanitarian disaster" in the world, after meeting with refugees who endured unspeakable hardship to reach the world's largest refugee camp in Dadaab, Kenya. (AP Photo/Rebecca Blackwell)

Kenya East Africa Drought
A Somali woman walks past the frame for a sparsely-covered makeshift shelter in Iffou 2, an area earmarked for refugee camp expansion. (AP Photo/Rebecca Blackwell)


APTOPIX Kenya  DroughtA carcass of an animal lies on an empty road, near Lagbogal, 56 kilometers from Wajir town, Wednesday, July 6, 2011. The worst drought in the Horn of Africa has sparked a severe food crisis and high malnutrition rates, with parts of Kenya and Somalia experiencing pre-famine conditions, the United Nations has said. More than 10 million people are now affected in drought-stricken areas of Djibouti, Ethiopia, Kenya, Somalia and Uganda and the situation is deteriorating, (AP Photo/ Sayyid Azim)


504256320.jpgSixty-year-old Suban Osman sits with two of her malnourished grand children at a clinic run by Doctors Without Borders (MSF) at the Dadaab refugee camp on July 4, 2011. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images

APTOPIX Kenya East Africa Drought
Two-year-old, Aden Salaad, looks up toward his mother, unseen, as she bathes him in a tub at a Doctors Without Borders hospital, where Aden is receiving treatment for malnutrition, in Dagahaley Camp, outside Dadaab, Kenya. (AP Photo/Rebecca Blackwell)

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A Somali boy uses a wheelbarrow to carry two jerry cans filled with water to a tent that he and his family call home at the worlds biggest refugee camp. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images

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Two-year-old Shiniyo looks while bundled in her mothers arms while they stay at a clinic run by Doctors Without Borders. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images

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A Kenyan doctor looks at the IV drip on a child suffering from severe malnutrition at a clinic run by Medecins Sans Frontieres (MSF) at the Dadaab refugee camp on July 4, 2011. With a population of 370,000, Dadaab is the world's largest refugee camp even though it was built for just 90,000. According to Doctors Without Borders, the number of people seeking refugee keeps swelling and Dadaab will house 450,000 refugees by the end of the year, or twice the population of Geneva. With serious drought in the Horn of Africa, thousands of Somalis have arrived in recent weeks in search of food and water. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images

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Children walk down a dusty street in Dadaab refugee camp on July 4, 2011. Fatimah who fled violence in Somalia with her family one year ago says that she does not venture outside the camp to look for firewood because it is too dangerous. With a population of 370,000, Dadaab is the world's largest refugee camp even though it was built for just 90,000. With serious drought in the Horn of Africa, thousands of Somalis have arrived in recent weeks in search of food and water. ROBERTO SCHMIDT/AFP/Getty Images
Fonte

Corno d’Africa, Unicef: “Due milioni di bambini malnutriti”
Dì continuo si sente parlare di crisi, di mancanza di lavoro, di difficoltà nel coprire le spese del mese, ma basta pensare che in alcune parti del mondo la situazione sia nettamente peggiore per accorgerci di quanto siamo fortunati. Secondo gli ultimi dati Unicef, nel Corno d’Africa sono oltre 2 milioni i bambini malnutriti e a rischio di sopravvivenza. Ad aggravare la situazione di queste popolazioni, che vivono nell’estrema povertà, è la forte siccità che sta colpendo il paese, una delle peggiori dell’ultimo secolo.La mancanza di piogge compromette i raccolti, gli animali muoiono e molti bambini lasciano le scuole per aiutare la famiglia a trovare del cibo. Molto spesso non si riesce a coprire nemmeno un pasto al giorno. Le zone più colpite dall’aridità sono Kenya, Somalia, Etiopia e Gibuti, e le persone in pericolo di vita sono oltre 10 milioni, tra i quali 2 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni di cui 500mila in pericolo di morte o di avere gravi forme di malformazioni fisiche e mentali.
Nonostante la situazione critica secondo le stime Unicef ogni settimana arrivano 10 mila profughi tra la Somalia e il Kenya dove la malnutrizione raggiunge anche il 40%, nella speranza di trovare una situazione migliore. Il Fondo delle Nazioni Unite fa sapere alle comunità internazionali che servono 31,9 milioni di dollari per arginare la situazione e nutrire le donne e le piccole vite in pericolo, almeno per i prossimi tre mesi.
“E’ davvero umiliante trovarsi qui, la gente ha attraversato tante difficoltà per arrivare e si trova in pessime condizioni”, ha commentato il direttore Unicef per l’Africa orientale e meridionale, Elhadj As Sy, durante una visita a Dadaab, al confine tra Kenya e Somalia.
E’ stato lanciato più volte lo stato d’allerta da parte della FAO e sono stati creati diversi programmi per affrontare le emergenze, sono stati creati dei corsi per insegnare a contadini e pastori ad adattarsi e affrontare il costante ed estremo cambiamento climatico sempre più frequente, soprattutto nella previsione che la siccità durerà sino al prossimo novembre.
Fonte

http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/411418/

martedì 12 luglio 2011

UCCISO UN MESSAGGERO MONDIALE DI PACE

È stato ucciso a colpi di mitragliatrice. È l'epilogo tragico di una vita da romanzo, quella del cantautore argentino Facundo Cabral, assassinato da un commando di uomini armati in un agguato nella capitale del Guatemala, uno dei paesi più violenti dell'America Latina. Segue qui

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Il cantautore argentino Facundo Cabral era nato a La Plata il 22 maggio 1937. Di famiglia poverissima, era conosciuto per le sue canzoni sulla libertà e la pace. Il suo pezzo più celebre era «No soy de aquí, no soy de allá»




giovedì 7 luglio 2011

UNA CANZONE CONTRO LA FAME

La fame nel mondo è un problema di tutti

Amadou & Mariam, coppia di musicisti maliani di fama mondiale, sono i nuovi Ambasciatori contro la Fame nel Mondo per il World Food Program. "Labendela", la canzone che hanno dedicato alla sfida mondiale contro la fame, è stata presentata per la prima volta durante un grande concerto alle Terme di Caracalla a Roma il 27 giugno scorso.


"La fame è un problema di tutti...
Date da mangiare a chi non ne ha
ai bambini e ai rifugiati dalle guerre
Combattiamo la povertà
perché la precarietà è la calamità
Viva la solidarietà nel mondo...
Prendiamoci cura del futuro dei bambini
perché i bambini sono il futuro"



"Labendela" – Amadou & Mariam





Fonte

AMII STEWART - WALKING AFRICA

Amii Stewart canta per le donne africane e la Campagna Noppaw




mercoledì 6 luglio 2011

"AL RITMO CON CUI STIAMO PERDENDO LA TERRA, NON SAPREMO PIÙ DOVE SEPPELLIRE I MORTI"

Questo è stato il commento di un deputato, dopo aver letto il rapporto dell’NPA sul Sud Sudan.
Stando a quanto rivelato dall'ong Norwegian People's Aid (NPA), aziende straniere, governi e singoli individui interessati a investire in agricoltura, biocarburanti e selvicoltura hanno sottoscritto accordi di leasing per almeno 2,6 milioni di ettari di terreno, nelle aree più fertili del Paese.

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Un recente studio della Banca mondiale ha evidenziato come l'incremento dei prezzi alimentari registrato all'inizio del 2008 abbia decuplicato gli accordi agricoli su vasta scala, con almeno 45 milioni di ettari di terra scambiati solo nel 2009, di cui il 70% situati nell'Africa sub-sahariana. "Si sta sfruttando questo Stato giovane, uscito dalla guerra - ha denunciato il rappresentante locale dell'Nga, Jan Ledang - non a caso sono arrivati subito dopo la guerra. Gli investitori avvicinano a livello locale un capo, un commissario di contea o un governatore e ottengono la terra quasi in cambio di nulla". Alcuni hanno sottoscritto accordi pagando soli 4 pence a ettaro.
Vai al sito http://www.npaid.org/en/

martedì 5 luglio 2011

CORPI DI DONNE NEL COLONIALISMO ITALIANO

Introduzione. Immagini e dominio coloniale

clip_image001fig. 12 Ufficio postale

La rappresentazione delle donne africane tanto nella fotografia quanto nel cinema, nella letteratura e nelle canzoni, ha svolto un contributo fondamentale nella costruzione dell’immaginario collettivo italiano sull’Africa, fornendo un impianto culturale importantissimo per la legittimazione della conquista e il rafforzamento del consenso popolare sull’impresa coloniale. L’importanza della rappresentazione dell’Altro come inferiore nel discorso coloniale è stata ampiamente messa in luce negli ultimi trent’anni daipostcolonial studies – a partire sopratutto dal pionieristico Orientalism di Edward Said che, per primo, ha dimostrato quanto le scienze sociali, l’arte e la letteratura costituiscano strumenti indispensabili per la costruzione e giustificazione del dominio coloniale. Uno sforzo di definizione dell’alterità che non ha determinato solamente l’immaginario europeo sulle colonie ma ha contribuito, specularmente, anche al rafforzamento di una certa idea dell’identità occidentale[1]. La costruzione di quest’immaginario collettivo – tramite l’appropriazione visuale delle terre conquistate grazie alle nuove tecnologie del tempo come la macchina fotografica[2] e la cinepresa – rappresenta pertanto un elemento decisivo per definire le caratteristiche della conquista e del dominio. Svariate ricerche in ambito internazionale[3] hanno oltretutto dimostrato quanto siano presenti, in questo tipo di discorso, riferimenti alle gerarchie di genere molto significativi. Anche in Italia negli ultimi anni l’occupazione dell’Africa orientale è stata riletta secondo quest’approccio d’analisi[4].
Le donne dell’Africa orientale furono infatti il soggetto più fotografato[5] dai colonizzatori italiani, tanto da generare un mercato estremamente fiorente di cartoline e fotografie. Una delle immagini più ricorrenti fu quella della donna somala[6] che, grazie anche alla diffusione di un’importante letteratura esotica, divenne il simbolo di un’Africa “paradiso dei sensi”. Un territorio in cui il maschio italiano riscopriva una primordiale virilità, conquistando quelle terre naturalmente selvagge le cui donne erano considerate parti integranti del paesaggio. Come chiariscono Campassi e Sega la donna africana diventa perciò il simbolo della conquista e l’azione colonizzatrice e civilizzatrice viene rappresentata anche come il giusto dominio dell’uomo bianco europeo sulla donna nera, secondo una precisa gerarchia di razza e di genere:
La donna nera diventa il simbolo dell’Africa…e il rapporto uomo bianco-donna nera è simbolico del rapporto nazione imperialista-colonia: l’uomo è colui che dà la sua virilità fecondatrice e vivificante, la donna è colei che riceve da ciò un arricchimento nella realizzazione di sé come completamento dell’espandersi dell’io maschile[7].
L’immaginario popolare italiano sull’Africa si colloca pertanto in linea con quella che Anne McClintock ha definito porno-tropics traditions[8], ossia quella tradizione culturale che, fin dalle prime espansioni geografiche del XVI secolo, erotizzava lo spazio coloniale attraverso la femminilizzazione delle nuove terre, rappresentate appunto come donne fertili, disponibili e passive alla conquista. È utile quindi ricordare quanto l’accostamento colonia/donna sia un’immagine di lunghissimo periodo che ha attraversato e condizionato, anche se in forme molto differenti, la costruzione dei rapporti di dominio in tutte le esperienze coloniali. Una fonte molto interessante a riguardo è la seguente: (fig. 1).
clip_image001[5]fig. 1 A. Vespucci e l’America (1589)

Si tratta di un’incisione di Theodor Galle del 1589 e rappresenta Amerigo Vespucci sulle spiagge del nuovo continente, dove incontra una donna seminuda distesa su un’amaca che lo invita ad avvicinarsi. Quest’immagine, oltre a dimostrare quanto appena detto in merito alle considerazioni di McClintock, introduce un secondo problema. Sullo sfondo infatti sono raffigurate donne che si danno alla pratica del cannibalismo. L’ambivalenza dell’immaginario sulle colonie risiede proprio nell’accostamento tra l’attrazione sessuale delle donne indigene e il pericolo di essere travolti da queste terre selvagge così lontane dalla civiltà. Un tema molto presente anche nel colonialismo italiano, sopratutto quando inizieranno ad aumentare le condanne all’eccessiva promiscuità in quanto causa del meticciato. Un quadro quindi che testimonia una sorta di atteggiamento schizofrenico, in bilico tra l’immagine di un Africa ricca d’avventure erotiche, che promettono una riscoperta della virilità e una rigenerazione dello spirito[9] e il timore di perdere la propria superiore identità europea, mischiando il proprio sangue con le africane e rimanendo insabbiati[10] nel territorio della colonia.
Le fonti visive (fotografie, cartoline e vignette) rappresentano una testimonianza fondamentale per comprendere come si è formato quest’immaginario e, successivamente, quali novità sono intervenute con la proclamazione dell’impero (1936) e la successiva promulgazione delle leggi razziali (1937)[11].

1. Il mito della Venere nera nelle fotografie di Luigi Naretti


clip_image005fig. 2 (1) Donna abissina (tigrina) residente in Aden

Per meglio indagare il fenomeno dell’erotizzazione dello spazio coloniale ho scelto quindi di analizzare alcune fotografie di Luigi Naretti[12], primo vero “fotografo colono” che, grazie al cugino Giacomo Naretti[13], si trasferì in Eritrea già nel 1885[14] e accompagnò perciò da subito l’impresa coloniale italiana con un’importante produzione fotografica[15].

clip_image007fig. 2 (2) Donna Galla residente in Aden

Osservando le fotografie di Naretti si ritrovano immediatamente tutti gli stereotipi e i temi essenziali dell’esotismo e dell’erotismo tipici dell’immaginario coloniale di metà Ottocento. I soggetti rappresentati sono infatti spesso trasformati in icone, “tipi”: una produzione stereotipata che trasmette un’immagine dell’Africa che «è in se stessa uno strumento di controllo e di appropriazione»[16]. Per poter creare immagini che rappresentino l’Africa secondo i parametri con i quali gli europei guardavano al continente, le fotografie sono spesso scattate in studio, ricostruendo artificialmente l’ambiente naturale degli indigeni con pellicce, foglie di palme, fiori e vestiti particolari[17]. Per quanto riguarda la rappresentazione delle donne si sono riscontrate due tipologie. Da un lato fotografie antopologico-documentaristiche che cercano di fissare le caratteristiche fisiologiche dei soggetti al fine di classificarne l’appartenenza etnica. Dall’altro una serie consistente di nudi femminili, realizzati con l’evidente scopo di trasmettere il mito della Venere nera.

clip_image009fig. 2 (3) Donna abissina (amarica) residente in Aden

Per il primo gruppo si sono presi in considerazioni quattro scatti (fig. 2) che ritraggono “tipi di donna abissina”: la tigrina, la galla e l’amarica (o amhara). Si tratta d’immagini di donne agiate, riccamente vestite, ingioiellate e comodamente sedute in un ambiente benestante. Si nota in particolare l’artificiosità di questi scatti, gli sguardi assenti delle donne ritratte e sopratutto il fatto che, malgrado l’intento di fissare degli stereotipi, le donne siano sostanzialmente uguali: gli sfondi e pure gli indumenti non differiscono di molto, e anche i tratti fisionomici non presentano in realtà grandi differenze.

clip_image011fig. 2 (4) Donna abissina (tigrina) residente in Aden

Un’altra fotografia interessante è Donna abissina portatrice d’acqua (fig. 3), che vuole appunto raffigurare lo stereotipo della miseria africana: un donna piegata dalla fatica, costretta a dover trasportare sulle sue spalle un pesante recipiente pieno d’acqua. Secondo l’interpretazione di Palma la fotografia è sicuramente sceneggiata[18], per il modo in cui l’azione è stereotipata e, sopratutto, per il seno scoperto della donna, con buone probabilità volutamente mostrato al fine di sollecitare – oltre che un sentimento di pietà e, secondariamente, di superiorità di fronte alla situazione di miseria – le fantasie erotiche dello spettatore maschio. La rappresentazione dell’alterità africana in Naretti sottintende perciò, e si vedrà sopratutto con il secondo gruppo di immagini, pratiche di gerarchizzazione razziale e di genere che tramite l’accostamento alterità/inferiorità legittimano il dominio coloniale e la sua opera di “civilizzazione”.

clip_image013fig. 3 Donna abissina portatrice d’acqua

La seconda tipologia di fotografie rientra nella diffusa commercializzazione di immagini pornografiche, prodotte per alimentare lo stereotipo della colonia come miraggio sessuale. Malgrado fin dal 1861 erano previste sanzioni per chi produceva fotografie pornografiche, l’Italia – insieme alla Francia e all’Austria – rappresentava uno dei mercati più importanti per questo prodotto[19].

clip_image001[1]fig. 4 L. Naretti?, Sifilicomio di Asmara?, (albumina, cm 28×20,5), 1887-1900.


Le fotografie di tipo pornografico venivano generalmente realizzate nei postriboli e sifilicomi, appositamente creati per la clientela italiana, ma anche negli studi fotografici. Lo stesso Naretti produsse una quantità considerevole di questo tipo di scatti. La fotografia Sifilicomio di Massaua (fig. 4) che ritrae ben undici donne nude, di cui quattro accovacciate in pose invitanti, sembra proprio esser stata realizzata per “pubblicizzare” quel luogo di prostituzione. D’altro tipo sono invece i tre nudi femminili realizzati in studio (figg. 5, 6, 7) che rappresentano appunto il classico stereotipo della Venere nera: ragazze completamente nude, abbellite con collane, bracciali, e altri accessori, e ritratte in pose sensuali.

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fig. 5 Venere Nera

Tutte queste immagini sono oltretutto prive di caratteri di definizione individuale: non c’è mai il nome della donna rappresentata o comunque un riferimento alla sua identità.

clip_image001[3]fig. 6 L. Naretti?, Nudo femminile, (albumina, cm 16×21,5), 1887-1900

Spogliate e private di ogni individualità le donne sono rappresentate esclusivamente come oggetti sessuali e l’attenzione è sempre incentrata sul corpo: a volte stereotipato per classificarne l’etnia, a volte abbruttito dal lavoro domestico (o deformato, come si vedrà successivamente, per mostrarne l’inferiorità razziale) e infine, nella maggior parte dei casi, rappresentato come corpo sessualmente disponibile alla conquista.

clip_image017fig. 7 Nudo femminile

A livello estetico queste immagini riprendono oltretutto alcuni temi tipici dell’orientalismo e dell’esotismo già sviluppati in ambito artistico nel XIX secolo (si pensi a Dominique Ingres[20]). Sopratutto Araba d’Archico-Venere Nera (fig. 5) riprendendo la classica posa dell’Odalisca, rimanda a un classico tema estetico dell’esotismo[21], ribadendo quanto esposto all’inizio in merito all’ampia diffusione di questi dispositivi culturali che non possono essere circoscritti esclusivamente alle singole esperienze coloniali. L’analisi di queste fonti non può però essere completa senza alcune osservazioni sui soggetti fotografati. La fotografia, infatti, a differenza di altri mezzi di comunicazione visiva come la pubblicità, i manifesti ecc., sebbene sia realizzata con gli occhi del conquistatore presuppone un incontro con l’indigeno e la realtà che viene raffigurata ci permette quindi di notare le differenti reazioni dei soggetti sottoposti a questi scatti. Si possono constatare due tipi di risposte nelle donne africane. Da un lato si può notare (dai visi di alcune fotografie come ad esempio nella fig. 7) quanto i soggetti siano turbati dall’invasività di queste fotografie. Spaventate dalla macchina fotografica, oltre che turbate dallo sguardo coloniale e, in alcuni casi, dalle vere e proprie violenze fisiche alle quali erano sottoposte, molte donne tentavano di fuggire o chiedevano in cambio somme di denaro[22]. Dall’altro lato, in molte fotografie, le donne africane assumono un atteggiamento di partecipazione e quasi di complicità con il fotografo. Sempre ritratte in pose sensuali rispondono con sguardi ammiccanti, non distolgono lo sguardo dall’obiettivo ma lo fissano sorridendo. Si tratta spesso di fotografie realizzate nei postriboli dove, evidentemente, i soggetti fotografati erano prostitute, abituate ormai all’invadenza e alle richieste dei colonizzatori[23]. Oppure sono immagini scattate negli studi fotografici con modelle anch’esse in parte consapevoli di ciò che le aspettava. Bisogna poi sottolineare le differenze cronologiche. Le fotografie che Naretti scatta negli ultimi decenni dell’Ottocento rappresentano ancora un fenomeno nuovo agli occhi delle donne africane, mentre per le immagini degli anni ‘20 e ’30 (si osservi per esempio la fig. 8) è necessario valutare quanto era ormai quotidiano il rapporto tra italiani e indigeni dopo anni di presenza sul territorio.

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fig. 8 Nudo femminile, anni '30.

È bene infine ricordare che il mito della disponibilità delle donne africane non rappresenta esclusivamente uno strumento per la costruzione del consenso al colonialismo e per l’affermazione delle gerarchie di genere e di razza, ma favorisce anche una giustificazione all’aggressività e alle violenze commesse dalle truppe italiane[24]. Grazie anche a varie interpretazioni, in termini di maggior licenziosità, degli usi, dei costumi e della morale locali verranno legittimati moltissimi soprusi[25].
Il mito della Venere nera costituisce dunque una delle metafore più potenti della conquista africana che, penetrando profondamente nella cultura popolare italiana, influenzerà fortemente le aspettative dei soldati all’alba dell’impresa fascista in Etiopia. Significativo è il fatto che molte fotografie di questo genere furono trovate tra gli oggetti personali di alcuni volontari fascisti caduti durante la guerra civile spagnolae, sopratutto, che il regime distribuiva direttamente ai soldati in partenza per l’Etiopia varie fotografie di donne nere nude[26]. Quindi, ancor più delle promesse di prosperità economica e possibilità lavorative, uno degli argomenti decisivi che vennero utilizzati per spingere molti uomini a combattere per quella virgin land of virgins[27], fu certamente l’idea di poter a pieno titolo pretendere delle donne come compenso per la sicura vittoria.

2. Le donne africane durante il fascismo: tra fantasie erotiche e difesa della razza


clip_image020fig. 9 Nudo femminile, anni ’30.

Malgrado l’intenzione del regime di dimostrare già dai primi anni la netta superiorità degli italiani sugli africani e di scongiurare perciò il persistere dei temi dell’esotismo più romantico, lo stereotipo dell’Africa, formatosi come si è visto nel corso del XIX secolo, era ancora fortemente presente nell’Italia fascista, non solo nell’immaginario collettivo popolare ma anche nella letteratura [28], nella pubblicità[29] e nei mezzi di comunicazione visiva. La contraddittorietà nella rappresentazione delle colonie raggiungerà con il fascismo, e con l’approdo finale di quest’ultimo al razzismo biologico, il momento più eclatante. Se infatti l’immagine dell’Africa come paradiso dei sensi verrà ancora alimentata dal regime – sia per spronare i soldati, sia per attrarre forza lavoro maschile necessaria per il progetto di colonizzazione demografica – si svilupperanno parallelamente le tendenze più specificatamente razziste che modificheranno la rappresentazione delle donne africane. È importante però ricordare da subito che, seppur il periodo che va dalla proclamazione dell’impero (9 maggio 1936) alle prime misure legislative per la difesa della razza rappresenti certamente un momento di svolta, esso non costituisce una radicale rottura con il passato bensì l’esito di un approccio razzista posto in essere già nel periodo liberale[30]. È perciò necessario sciogliere questa apparente contraddizione: la rappresentazione delle donne africane come prede sessuali era funzionale al dominio coloniale fintanto che, giunti alla fondazione dell’impero, si decise di affermare la netta superiorità degli italiani tramite un sistema di segregazione razziale che necessitava di una disciplina e un’autodisciplina che coinvolgessero tutti gli aspetti della vita quotidiana [31]. La contraddizione tra il periodo coloniale e il fascismo è perciò soltanto apparente: il nesso tra politiche razziali e politiche sessuali è decisivo e la rappresentazione della donna cambia proprio in relazione alla trasformazione del colonialismo in un più ampio progetto di dominio imperiale di cui il razzismo è una parte fondamentale[32].
Le cartoline, spesso fornite direttamente dall’Ufficio Storico della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale[33] furono uno degli strumenti più utilizzati dal regime per diffondere il mito della Venere nera tra le truppe, specialmente nella fase di preparazione e nei primi mesi della campagna di Etiopia. Si tratta in genere di raffigurazioni di fotografie (fig. 9), oppure di disegni e vignette.

clip_image022fig. 10 Visioni abissine, 1935-1936

La cartolina Visioni abissine (fig. 10), pubblicata tra il 1935 e il 1936, sintetizzata con estrema chiarezza l’idea che la maggior parte degli italiani possedevano dell’Africa: un luogo in cui le donne non aspettano altro che consegnarsi ai colonizzatori (le ragazze disegnate sono infatti sorridenti a seno scoperto e con sguardi invitanti) come prede della facile vittoria conseguita contro i loro uomini che, come vigliacchi, si fanno massacrare dalle bombe degli italiani.

clip_image024fig. 11 Terra … Vergine!...

Un’altra immagine interessante è la vignetta pubblicata sulla rivista «Il “420”» di Firenze il 19 gennaio 1936 (quindi cronologicamente molto vicina alla proclamazione dell’impero) che ci dimostra quanto ancora venisse sfruttato lo stereotipo della disponibilità sessuale delle donne nere. Il titolo della vignetta, Terra … Vergine!…, gioca appunto sul fatto che il primario motivo di interesse degli italiani per l’Abissina dovevano essere le vaste aree di terreno fertile promesse da Mussolini. Ma, nella vignetta, anziché una “terra vergine” viene rappresentato l’incontro tra una donna nera e un colonizzatore, che si scambiano una battuta chiaramente provocante (fig. 11). È evidente l’accostamento tra conquista della terra e conquista delle donne.
Altra fonte interessante è la serie disegnata da Enrico De Seta prodotta anch’essa a cavallo tra il ’35 e il ‘36. Queste cartoline ricalcano tutti gli stereotipi più razzisti e sessisti. È chiaro sopratutto in Ufficio postale e Al mercato (figg. 12, 13), la mercificazione della donna africana che queste immagini vogliono trasmettere, raffigurata esclusivamente come oggetto sessuale.

clip_image001[5]fig. 14clip_image002fig. 15
Mentre in La moretta innamorata ed Esercito abissino (figg. 14, 15) si ripropone ancora una volta l’idea della naturale disponibilità delle donne africane. Ciò che però è più interessante evidenziare per queste vignette, e che ci consente di segnare l’inizio di una svolta

clip_image002[9]fig. 13 Al mercato

nella rappresentazione delle donne, è che le autorità non gradirono l’incoraggiamento alle unioni miste cosicché la serie, originariamente destinata alle truppe in partenza per l’A.O.I., venne rifiutata dagli alti comandi[34]. Ma l’indicatore sicuramente più significativo, è la messa al bando della canzone faccetta nera[35] – uno dei motivi più diffusi tra la popolazione italiana e tra i soldati che, con frasi allusive[36], incoraggiava contatti promiscui tra italiani e africani – nei giorni appena successivi alla proclamazione dell’impero. L’adesione alle direttive del regime fu immediata: già a metà maggio le cartoline delle giovani donne africane iniziano a scomparire dalle vetrine dei negozi[37] e il 13 giugno 1936, sulla prima pagina della Gazzetta del Popolo, viene pubblicato un articolo di Paolo Monelli contro faccetta nera, intitolato Moglie e buoi dei paesi tuoi, che così descrive le donne:
[...] sempre fetide del burro rancido che cola a goccioline sul collo; sfatte a vent’anni; per secolare servaggio amoroso fatte fredde ed inerti tra le braccia dell’uomo; e per una bella dal viso nobile e composto, cento ce ne sono dagli occhi cipriosi, dai tratti duri e maschili, dalla pelle butterata. [...] Le parole faccetta nera sono peggio che idiote. Sono indice di una mentalità che vorremmo trapassata[38].
clip_image028fig. 16 cartolina "artistica"

Anche la vignetta di Domenici Le parole … e i fatti (al burro rancido), pubblicata su «Il “420”» il 5 luglio 1936, quindi appena sei mesi dopo Terra … Vergine!…, si scaglia contro faccetta nera (fig. 16). Anche qui, come nell’articolo di Monelli, si propone in senso dispregiativo la tradizionale acconciatura delle donne fatta con il burro rancido. Le donne non sono quindi più belle vergini disponibili ma sono brutte e maleodoranti. A partire da questo momento le donne africane vengono quindi rappresentate sempre più come deformi, di cattivo odore, portatrici di malattie e sempre più disumanizzate:
Nelle razze negre, l’inferiorità mentale della donna confina spesso con una vera e propria deficienza; anzi, almeno in Africa, certi contegni femminili vengono a perdere molto dell’umano, per portarsi assai prossimi a quelli degli animali[39].
Per combattere quindi in modo deciso la promiscuità tra italiani e africani e imporre così una «naturalizzazione dei rapporti di dominio»[40], il razzismo già ampiamente diffuso diviene, grazie a una capillare azione di propaganda voluta dal governo e sostenuta dal supporto “scientifico” di antropologi e medici, un razzismo biologico che, sommato a un’escalation legislativa, porterà al razzismo di Stato[41].

clip_image030fig. 17 Acconciatura di donna abissina

Le immagini di donne africane che iniziano ora a circolare per l’Italia sono sopratutto quelle diffuse dal periodico «La difesa della razza», in cui la donna viene ora rappresentata esclusivamente sotto un punto di vista antropologico, per descriverne l’inferiorità razziale. Si riportano quindi tre esempi significativi. Il primo esempio è una fotografia (fig. 17) pubblicata in un articolo di Lidio Cipriani sui riti e le superstizioni africane[42]. In quest’articolo Cipriani elenca una serie di riti nonché di pratiche estetiche al fine di sottolineare l’inciviltà degli indigeni. Si propone per l’ennesima volta il tema già visto in Le parole … e i fatti e nell’articolo di Monelli dell’usanza delle donne abissine, naturalmente disgustosa agli occhi di Cipriani, di acconciarsi i capelli con il burro rancido.

clip_image002[5]fig. 18

Il secondo è l’immagine della Venere ottentotta (fig. 18), nella riproposizione dell’articolo di Fischer I bastardi di Rehboth, sul numero di «La difesa della razza» interamente dedicato al meticciato[43]. Si tratta di Sarah Bartmann, donna africana che veniva esposta in alcuni zoo umani europei nel XIX secolo[44]. L’articolo ripropone appunto quest’immagine per sostenere la deformità delle donne africane, sottolineandone l’adiposità dei glutei e i seni grossi e cadenti.

clip_image002[7]fig. 19

Infine, il terzo esempio, è la fotografia di una donna pigmea (fig. 19), anch’essa pubblicata su «La difesa della razza»[45]. Sempre secondo uno studio antropologico di stampo razzista viene in quest’articolo mostrata la bruttezza dei pigmei, deformi e biologicamente inferiori rispetto alla razza europea.
È evidente, osservate queste immagini, quanto l’approccio sia diverso rispetto alle cartoline pornografiche di cui si è parlato in precedenza anche se, è importante ricordarlo, entrambe le serie di fotografie condividono uno sguardo coloniale che presuppone una superiorità dell’uomo occidentale sulla donna africana.

3. Conclusioni
In questo articolo ho cercato di ripercorrere alcune modalità attraverso le quali l’Africa e gli africani sono stati rappresentati agli occhi della popolazione italiana. Inizialmente, ho provato a evidenziare dell’utilizzo delle donne nella costruzione dell’immaginario coloniale e l’importanza centrale che questa rappresentazione ha avuto in tutte le politiche di colonizzazione tanto da costituire una dinamica di lungo periodo che attraversa molte storie nazionali europee a partire dall’epoca moderna.
Ho cercato successivamente di mostrare quanto gli stereotipi costruiti sui corpi delle donne, prima sessualmente caricati e poi imbruttiti, deformati e disumanizzati, siano stati funzionali al dominio coloniale italiano in Africa orientale. Una prospettiva che mette in luce i caratteri fondamentalmente razzisti dell’impresa coloniale fascista. È infatti centrale, a mio avviso, inquadrare anche la vicenda coloniale italiana nella storia del razzismo europeo. Troppo spesso, infatti, la valutazione sul razzismo fascista – specialmente fuori dalla ricerca storica, nell’opinione pubblica italiana – si concentra esclusivamente sulle leggi razziali del 1938 applica nel territorio italiano e sulle politiche antisemite del regime. Questa tendenza, che dimentica appunto il razzismo coloniale, non coglie l’essenza del razzismo di Stato a cui il fascismo arrivò e considera le leggi razziali come una deriva del regime costretto a seguire le politiche dell’alleato tedesco. Il famoso «sovrano disprezzo per talune dottrine d’oltralpe» con cui Mussolini apostrofò il razzismo nazista nel 1934 durante un pubblico discorso a Bari, voleva esclusivamente ribadire il primato dei latini nella gerarchia delle civiltà europee e rispetto alla purezza ariana germanica – oltre che a mantenere un certo distacco politico dal nazismo in un periodo in cui Mussolini era ancora interessato a non compromettere l’amicizia con l’Inghilterra e la Francia. Leggere il razzismo fascista come una deriva del regime per ingraziarsi Hitler non coglie quindi, a mio avviso, l’essenza del colonialismo fascista e contribuisce ad alimentare il mito degli “italiani brava gente”.
Malgrado ciò, è importante sottolineare che la svolta razzista del 1936 e tutti i tentativi compiuti per separare italiani e africani (si provò addirittura, con scarso successo, a sostituire le moltissime prostitute nere reclutate precedentemente per i soldati con donne bianche[46]) incontrarono innumerevoli ostacoli nell’affermarsi. Tuttavia, la penetrazione del pregiudizio razzista fu considerevole nella popolazione italiana[47], provocando un inasprimento decisivo nel comportamento delle truppe in A.O.I. (dimostrato dal drastico aumento degli stupri e delle violenze su donne e uomini indigeni)[48] e rafforzando molti stereotipi che tutt’oggi emergono in determinate occasioni[49].

clip_image031Etica coloniale

Note
[1] Sul rapporto tra alterità e identità si segnala: Michael Taussig, Mimesis and alterity: a particular history of the senses, New York, Routledge, London 1993.
[2] Si pensi alla Kodak, prima fotocamera commerciale diffusa dal 1888, che non richiedendo una particolare preparazione professionale, permetteva a chiunque di diffondere immagini delle nuove terre conquistate.
[3] Tra le tante si ricordano: R. Hyann, Empire and sexuality, Manchester University Press, Manchester 1990, M. Sinha,Colonial masculinity: the manly Englishman and the effeminate Bengali in the late nineteenth century, Manchester University Press, Manchester 1995; McClintock,Imperial leather: race, gender and sexuality in the colonial contest, Routledge, New York 1995
[4] Se ne citano alcune: G. Campassi, M. T. Sega, Uomo bianco e donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale, in «Rivista di storia e critica fotografica», IV, 5, giugno-ottobre, 1983; B. Sòrgoni,Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998; A. Alessandro, Faccetta nera. Le donne, la razza e la politica coloniale fascista nell’Africa Orientale Italiana, in «Calendario del popolo», 57, 660, gennaio 2002, pp. 8-15; G. Stefani, Colonia per maschi: italiani in Africa orientale: una storia di genere, Ombre corte, Verona 2007; N. Poidimani, Difendere la ‘razza’. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Sensibili alle Foglie, 2009.
[5] S. Palma, L’Italia coloniale, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 44.
[6] A Mogadiscio esisteva addirittura la ditta Edizioni Artistiche Fotocine specializzata in nudi femminili. Fonte: L. Goglia,Colonialismo e fotografia. Il caso italiano, (1885-1940), Sicania, Messina 1989.
[7] G. Campassi, M. T. Sega, Uomo bianco e donna nera…, op. cit., p. 55
[8] A. McClintock, Imperial leather…, op. cit., p. 22.
[9] Rispetto al tema dell’avventura coloniale come rigenerazione della virilità di segnalano i romanzi: L. Bricchetti, Nell’Harar, Galli, Milano 1896; G. D’Annunzio,Più che l’amore (1906), F. T. Marinetti, Mafarka il futurista(1909).
[10] Era il termine utilizzato per descrivere coloro che rimanevano “intrappolati” nel continente perdendo la propria identità. Ci cita come esempio un romanzo scritto dall’ex colonnello Ernesto Quadrone, Madundu. Cacciatori d’ombre all’Equatore (1935), dove il protagonista subisce appunto l’insabbiamento, perde la sua identità e si “indigenisce”.
[11] In questo caso ci si riferisce alle prime misure legislative contro il meticciato limitate all’A.O.I. che inaugurano l’escalation legislativa che porterà alle leggi razziali del 1938. Si tratta, nello specifico, del R.D.L. 19 aprile 1937, n. 880, che stabilisce sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi coloniali, mettendo definitivamente fuori legge il madamato. Vedi: G. Stefani, op. cit., p. 67.
[12] Per affrontare questo personaggio e analizzarne parte della produzione fotografica si è utilizzata la ricerca di Silvana Palma, Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885/1910), in «Quaderni storici», 37 (1), 2002, pp. 83-147.
[13] Personaggio importantissimo del primo colonialismo italiano, per maggiori informazioni si veda: Alberto Sbacchi-Gino Vernetto (cur.), Giacomo Naretti alla corte del negus Johannes IV d’Etiopia (Diari 1856-1881), Associazione di storia e arte canavesana, Ivrea 2004.
[14] Viste le scarsissime informazioni sul personaggio il suo arrivo in Africa è stato dedotto dalla data recata su due fotografie da lui scattare. Fonte: S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 85.
[15] Le fotografie a noi pervenute sono 256, di cui 33 rappresentano donne africane. Fonte: S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 87. La maggior parte erano di proprietà della Società africana d’Italia di Napoli. Si segnala in proposito: S. Palma (cur.), Raccolte fotografiche e cartografiche, in «Archivio storico della Società africana d’Italia», Istituto universitario orientale, Dipartimento di studi e ricerche su Africa e paesi arabi, Napoli 1996.
[16] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 98.
[17] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 97.
[18] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 99.
[19] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., 100. Si ricorda sopratutto l’importanza della cartolina, inventata in Austria nel 1869, che divenne ben presto il mezzo più semplice per una diffusione di massa dell’immagine delle colonie a un pubblico in gran parte ancora analfabeta. Vedi: L. Goglia,Le cartoline illustrate italiane della guerra 1935-1936: il negro nemico selvaggio e il trionfo della civilta di Roma, inLa menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Grafis, Bologna 1994, p. 37, n. 2.
[20] Si ricordano i dipinti più famosi dai temi esotici e orientali:La grande Odalisca 1814, Odalisca con una schiava 1842,La sorgente 1856, Il bagno turco 1862, etc.
[21] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 106.
[22] E. Bini, Fonti fotografiche e storia delle donne: la rappresentazione delle donne nere nelle fotografie coloniali italiane, Convegno SISSCO Cantieri di Storia II, Lecce (Settembre) 2003, p. 7.
[23] Si riporta in proposito un commento del medico italiano Ambrogetti: “Quanto sono restie le prostitute abissine a farsi fotografare nude!”. Fonte: P. Ambrogetti, La vita sessuale nell’Eritrea, F.lli Capaccini, Roma 1900, p. 18.
[24] C. Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane, in «DEP rivista telematica di studi sulla memoria femminile», n. 10, maggio 2009.
[25] Si segnala, per esempio, quanto questi pregiudizi abbiano influenzato anche l’applicazione della legge. A un uomo italiano accusato di stupro su una ragazzina di nove anni gli vennero garantite tutte le attenuanti proprio in considerazione «della facilità di costumi […] e della diversità del concetto morale locali»: S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., pp. 104-105
[26] G. Campassi, M.T. Sega, Uomo bianco. Donna nera, op. cit., pp. 61-62
[27] G. Barrera, Dangerous Liaisons: Colonial Concubinage in Eritrea (1890-1941), «Program of African Studies Working Papers» n.1, North-Western University, Evanston 1996, p. 22.
[28] Mario dei Gaslini, Piccolo amore beduino (1926); G. Zucca,Il paese di madreperla. Sette mesi in Somalia (1926); Mario Appelius, Il cimitero degli elefanti (1928); Gino Mitrano Sani, La reclusa di Sarabub (1931) e Femina somala (1933); Tedesco Zammarano, Azanagò non pianse (1934). Sono alcuni dei molti romanzi usciti durante il fascismo nei quali temi come la riscoperta della sessualità più primitiva e del contatto con la natura costituiscono le ragioni per le quali i protagonisti dei racconti si trasferiscono nelle colonie. Vedi: G. Stefani, Colonia per maschi, op. cit., p. 95.
[29] Come ad esempio i cioccolatini faccetta nera. Vedi: K. Pinkus, Bodily Regimes: Italian Advertising under Fascism, University of Minnesota Press, pp. 52-57.
[30] E. Bini, Fonti fotografiche e storia delle donne, op. cit., p. 2. Per un apporfondimento sul razzismo italiano tra XIX e XX secolo si veda: A. Burgio (cur.), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 1999.
[31] La preparazione alla vita coloniale avvenne anche attraverso importanti apparati organizzativi e di propaganda come: la fondazione dell’Istituto Luce nel 1924, l’istituzione nel 1926 della “giornata coloniale”, la trasformazione dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio in Ministero per la Stampa e la propaganda nel 1935, la diffusione della “coscienza coloniale” nelle aule scolastiche, etc. N. Poidimani, Difendere la ‘razza’…, op. cit., pp. 77-80.
[32] N. Poidimani, Faccetta nera: i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, in L. Borgomaneri (cur.), Crimini di guerra. Il mito del bravo italiano tra repressione del ribellismo e guerra ai civili nei territori occupati, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 3.
[33] L. Goglia, Le cartoline illustrate italiane della guerra etiopica 1935-1936, in La menzogna della razza, op. cit., p. 28.
[34] La menzogna della razza, op. cit., pp. 175-176.
[35] La canzone fu lanciata nel 1935 da Carlo Buti. Autore delle musiche era Mario Ruccione mentre le parole, originariamente in dialetto romano, erano di Renati Micheli.
[36] Come l’inizio della seconda strofa: «La legge nostra è schiavitù d’amore». Fonte: A. V. Savona-M. L. Straniero,Canti dell’Italia fascista (1919-1945), Garzanti, Milano 1979, p. 215.
[37] N. Poidimani, Difendere la ‘razza’, op. cit., p. 126.
[38] Paolo Monelli, Moglie e buoi dei paesi tuoi, in «Gazzetta del popolo», 13 giugno 1936.
[39] L. Cipriani, Un assurdo etnico: l’impero etiopico, R. Bemporand & Figlio Editori, Firenze 1935, p. 181.
[40] N. Poidimani, Difendere la ‘razza’, op. cit., p. 76.
[41] Le leggi razziali promulgate con il 15 novembre 1938 sono infatti il risultato definitivo di una serie di leggi già sperimentate in Africa: l’eliminazione delle misure di acquisizione della cittadinanza italiana per i meticci nel R.D.L. 1 giugno 1936, n. 1019, la già citata legge sui rapporti coniugali tra africani e italiani (R.D.L.19 aprile 1937, n. 880), il sistema di segregazione previsto dalle Direttive d’azione per l’organizzazione e l’avvaloramento in A.O.I., ecc.
[42] L. Cipriani, Riti e superstizioni, in «La difesa della razza», anno IV, n. 10, pp. 18-21.
[43] E. Fischer, I bastardi di Rehboth, in «La difesa della razza», anno III, n. 10, pp. 12-17.
[44] N. Poidimani, Oltre le monoculture del genere, Mimesis, Milano 2006, p. 65.
[45] C. Colosso, I pigmei africani, in «La difesa della razza», anno IV, n. 14, pp. 6-9.
[46] G. Stefani, Colonia per maschi, op. cit., pp. 132-135.
[47] Si riporta per esempio la protesta fatta da un comune cittadino, Ugo Celano, su «La difesa della razza», anno III, n. 5, p. 45, in merito a una sentenza della corte d’appello di Torino che aveva assolto una donna italiana già condannata in primo grado per rapporti coniugali con un tripolino. Celano, scandalizzato dalla notizia, ritiene inaccettabile che un simile attacco al prestigio della razza italiana sia permesso da un tribunale dello Stato.
[48] G. Stefani, Colonia per maschi, op. cit., p. 136.
[49] N. Poidimani, Difendere la ‘razza’, pp. 80-81, pp. 167-168; Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?: un mito duro a morire, N. Pozza, Vicenza 2005
Bibliografia
Letteratura principale:
1. A. Alessandro, Faccetta nera. Le donne, la razza e la politica coloniale fascista nell’Africa Orientale Italiana, in «Calendario del popolo», n. 57, 660, gennaio 2002, pp. 8-15.
2. G. Barrera, Dangerous Liaisons: Colonial Concubinage in Eritrea (1890-1941), in «Program of African Studies Working Papers» n.1, North-Western University, Evanston 1996.
3. E. Bini, Fonti fotografiche e storia delle donne: La rappresentazione delle donne nere nelle fotografie coloniali italiane, Convegno SISSCO Cantieri di Storia II, Lecce (settembre) 2003.
4. A. Del Boca-N. Labanca, L’impero africano del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori riuniti, Istituto Luce, Roma 2002.
5. A. Burgio (cur.), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 1999.
6. G. Campassi-M. T. Sega, Uomo bianco e donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale, in «Rivista di storia e critica fotografica», n. IV (5), giugno-ottobre, 1983, pp. 54-62.
7. L. Goglia, Storia fotografica dell’impero fascista 1935-1941, Laterza, Roma-Bari 1986.
8. L. Goglia, Colonialismo e fotografia. Il caso italiano, (1885-1940), Sicania, Messina 1989.
9. A. McClintock, Imperial leather: race, gender and sexuality in the colonial contest, Routledge, New York 1995.
10. La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Bologna Grafis, 1994.
11. S. Palma, Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885/1910), in «Quaderni storici», n. 37 (1), 2002, pp. 83-147.
12. N. Poidimani, Difendere la ‘razza’. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Sensibili alle Foglie, 2009.
13. N. Poidimani, Faccetta nera: i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, in L. Borgomaneri (cur.), Crimini di guerra. Il mito del bravo italiano tra repressione del ribellismo e guerra ai civili nei territori occupati, Guerini e Associati, Milano 2006.
14. N. Poidimani, Oltre le monoculture del genere, Mimesis, Milano 2006.
15. G. Stefani, Colonia per maschi: italiani in Africa orientale: una storia di genere, Ombre corte, Verona 2007.
16. C. Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane, in «DEP rivista telematica di studi sulla memoria femminile», n. 10, maggio 2009.
Fonti letterarie:
1. B. Imbasciati, Razze e malaria, in «La difesa della razza», anno III, n. 2, pp. 4-7.
2. L. Cipriani, Un assurdo etnico: l’impero etiopico, R. Bemporand & Figlio Editori, Firenze 1935.
3. L. Cipriani, I Boscimani, in «La difesa della razza», anno IV, n. 21, pp. 12-15.
4. L. Cipriani, Riti e superstizioni, in «La difesa della razza», anno IV, n. 10, pp. 18-21.
5. Faccetta nera in A. V. Savona, M. L. Straniero, Canti dell’Italia fascista (1919-1945), Garzanti, Milano 1979, p. 215.
6. Lettera di Ugo Celano da Torino, in «La difesa della razza», anno III, n. 3, p. 45.
7. G. Pensabene, Il meticciato, in «La difesa della razza», anno IV, n. 8, pp. 6-9.
Fonti visive, tratte da:
1. http://www.wmich.edu/dialogues/sitepages/vespucci.html
2. S. Palma (cur.), Raccolte fotografiche e cartografiche, in «Archivio storico della Società africana d’Italia», Istituto universitario orientale, Dipartimento di studi e ricerche su Africa e paesi arabi, Napoli 1996;
3. S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit.
4. Come siamo diventati colonialisti, in «GEO», n. 3, marzo 2006, p. 125 (immagini prese dal Laboratorio di Ricerca e Documentazione Storica Audiovisiva dell’Università di Roma Tre).
5. Goglia L., Storia fotografica dell’impero fascista 1935-1941, Laterza, Roma-Bari 1986, foto. 485.
6. Cipriani L., Riti e superstizioni, in «La difesa della razza», anno IV, n. 10, p. 19.
7. Fischer E., I bastardi di Rehboth, in «La difesa della razza», anno III, n. 10, p. 12.
8. Colosso C., I pigmei africani, in «La difesa della razza», anno IV, n. 14, p. 6.

Fonte

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