Quando arriviamo alla sua capanna, la sua ger,dopo una cavalcata al freddo e al gelo, lui non c’è. Dalban è partito di buon mattino seguendo le tracce nella neve.
Poi ha trovato la tana, con i cuccioli, e li ha uccisi tutti. Mamma lupa aveva ammazzato alcune sue capre proprio per nutrire i piccoli, lui ha dovuto farlo. Ma la storia, probabilmente non finirà qui. La lupa farà altri cuccioli e insidierà ancora il gregge di Dalban. Questa è la Mongolia, dove l’ancestrale lotta uomo-lupo continua nel rispetto reciproco e con le spietate regole del gioco. È un’economia del riciclo realizzata, dove nulla si spreca: dai cavalli (ce ne sono trenta per ogni abitante), che diventano carne quando sono troppo vecchi per cavalcare, agli escrementi animali e umani, buoni per il falò e altri usi. Ma la Mongolia non è solo equilibrio uomo-natura. Pochi lo sanno, ma la crisi dei mutui subprimeè arrivata fin qui, attraverso i prestiti ai pastori nomadi: soldi elargiti a raffica e debiti riconvertiti in derivati piazzati sul mercato internazionale delle obbligazioni, secondo l’ingegneria finanziaria così alla moda prima del botto. La garanzia era il prezzo del cashmere, quando il mercato tirava nel ricco Occidente. Ma con il crollo dei consumi dalle nostre parti, anche i mongoli si sono trovati con pecore “svalutate” e quindi con debiti insolvibili. Proprio come le case appena acquistate dal piccolo ceto medio di Cleveland o dell’Orange County. Così la ruota ha cominciato a girare al contrario. Ora la Khan Bank sta cercando di ristrutturare i prestiti, perché i pastori non ce la fanno a pagare e, anzi, necessitano di nuovo credito per tirare avanti: nei primi sei mesi dell’anno ha già messo mano a circa dodicimila prestiti, cioè il ventitrè percento di quelli finora concessi a questa gente. La globalizzazione è anche questo. “Khan” Bank, un nome, un programma: sintetizza perfettamente ciò che oggi è la Mongolia, a cavallo tra un passato incentrato sulla figura di Genghis e il futuro globalizzato, a cui ammicca un po' impaurita. Atterrando all'aeroporto Genghis Khan, si ammira una ciclopica sagoma incisa sulla montagna di fronte. Chi è? Genghis Khan. Se alla banca Khan il servizio non ci soddisfa, possiamo sempre rivolgerci alla concorrenza: la banca Genghis Khan. Chiedere informazioni alla reception del Genghis Khan Hotel. A Ulaanbaatar, la capitale, si può bere una birra Genghis Khan sgranocchiando patatine Khan nella catena di caffè Khan. Se ci piace il gioco duro, possiamo sostituire la birra con la vodka, naturalmente “Genghis Khan”. Certo, prima bisogna fare un salto ad ammirare la statua di Genghis che troneggia all'ingresso del palazzo del governo. Superfluo dire di chi sia la faccia stampata sulle banconote da mille tughrik. Siamo nei giorni delle elezioni presidenziali e chi vincerà dovrà occuparsi anche di questo: come dare sviluppo alla Mongolia rispettando l’ambiente e le tradizioni? Il Partito della rivoluzione (Maxh, ex comunista) e quello democratico si sfidano nelle persone di Nambariin Enkhbayar e Tsakhiagiin Elbegdorj. In giro non si trovano alcolici. Il fatto è che l’anno scorso, dopo la vittoria dei comunisti, Elbegdorj ha accusato i rivali di brogli. È scoppiata così la “rivolta della vodka”, in cui i suoi sostenitori hanno devastato le sedi del Maxh dopo essersi fatti coraggio con abbondanti libagioni: cinque morti tra i manifestanti e stato d’assedio. Quest’anno è meglio non correre rischi. La capitale ha vissuto un processo di urbanizzazione: dei due milioni e seicentomila abitanti della Mongolia, più di un milione ormai vive qui.
In realtà esistono più Mongolie, c'è questa, poi c'è la Mongolia interna cinese dove vivono più mongoli che qui (ma sono comunque minoranza rispetto all'ottanta per cento di cinesi han) e infine la Mongolia diffusa delle genti sparse tra Russia e repubbliche centroasiatiche. Molti di quelli che sono calati su Ulaanbaatar restano nomadi dentro: si costruiscono la casetta di legno in una periferia che è già prateria e ci piazzano di fianco la gerdove, si capisce, passano la maggior parte del tempo. Il taxista che mi porta in centro città parla russo e ci tiene a dire che voterà democratico. Perché? “Perché speriamo che cambi”. Non si capisce cosa, ma è chiaro che la recessione ha colpito duro anche qui. I palazzi moderni che sorgono nel centro città non tolgono a Ulanbaatar il sapore di vecchio centro sovietico-siberiano e di recente le costruzioni hanno subito una battuta d'arresto. I salari medi sono calati del sessanta percento e le entrate dello Stato soffrono per via del crollo dei prezzi delle materie prime. Si parla di duecento milioni di dollari di deficit nell'ultimo anno e mezzo, il dodici percento di un Pil che è già il 164esimo al mondo, di poco superiore a quello della Striscia di Gaza. Un paradosso: la Mongolia importa energia da Cina e Russia nonostante sia ricchissima di corsi d'acqua, vento, sole e risorse minerarie. In realtà la politica non sembra appassionare tutti. Khuu, ventotto anni, volto sorridente e abbronzato, incorniciato dai lunghi capelli nerissimi delle donne asiatiche. È la mia guida. È forte. Non riesco a farmi dire se voterà e per chi: "Sono tutti uguali", un discorso già sentito. Lei fa da sola. Viene da una famiglia di pastori benestanti, sei gere settanta cammelli nel deserto del Gobi, poi la mamma le ha comprato un diziona- rio di inglese. E si è messa a studiare. Quelli dell'agenzia di viaggi l'hanno scoperta portando i turisti nella gerdei suoi, c'erano foglietti con le parole inglesi appesi dappertutto. Le hanno promesso un lavoro se avesse imparato bene. Detto fatto. Con il lavoro da guida ci paga l'università, vuole diventare insegnante, naturalmente di inglese. La prima volta che ha visto le montagne ha avuto un attacco di claustrofobia, per lei la terra è piatta e sabbiosa. Non le piace cucinare, ma cucina per i viaggiatori che scarrozza in giro. Cavalca come un'amazzone e continua a scambiarsi sms con un ragazzo che però "mi sta un po' troppo addosso". Pezzetto per pezzetto costruirà il suo futuro che non immagina in città: insegnerà in una scuola di villaggio. Questa è una storia a suo modo di successo, poi ci sono quelli che la modernità ha divorato. Nel 2006, una ricerca del ministero della Salute scoprì che il ventidueper cento degli uomini e il cinqueper cento delle donne erano alcolizzati, tre volte le percentuali europee. L'abuso di alcol è aumentato da quando la Mongolia ha smesso di essere un protettorato russo di fatto, all'inizio degli anni Novanta. L'apertura verso l'economia di mercato ha messo fuori gioco le vecchie industrie manifatturiere di Stato e per molti sono arrivati disoccupazione e povertà. Il settantadue percento dei crimini violenti è dovuto all'alcol e quasi un uomo su cinque beve pesantemente almeno una volta a settimana. Anche perché la materia prima si trova facilmente, in un Paese che ha una rivendita di alcolici ogni duecentosettanta abitanti, la più alta densità al mondo. Normale, perché stiamo parlando della maggiore fonte di ricchezza per lo Stato: tra il venti e il ventitre percento delle entrate dipende da tasse e imposte direttamente collegate alla vendita e al consumo di alcol.
Bataa ha circa trent'anni, guida il furgone Uaz che mi porta nella Mongolia profonda e che qui chiamano Purgan. Quattro ruote motrici, due serbatoi di benzina - si gira una levetta, tipo riserva della moto, e si passa da uno all'altro - abitacolo sopraelevato e ruote da camion, è il veicolo più efficiente che conosca. Nella steppa e sulle piste sterrate si incontrano solo Uaz Purgan, grigio chiaro o verde militare. Lui lo accudisce come se fosse un cavallo, ma intanto ha la testa altrove: non si trova birra per via delle elezioni. Ci proviamo in ogni singolo minimarket, spaccio, bancarella, nel percorso che da Ulaanbaatar ci porta a ovest. Niente da fare. In una rivendita, l'enorme scaffale degli alcolici è totalmente avvolto dentro coperte serrate da catene. Alla fine arrivano i risultati delle elezioni: "Hanno vinto i democratici, cinquantatrè a quarantasette", dice Khuu. Anche a Bataa importa poco, ma finalmente si può comprare la birra. Tre giorni a cavallo, nella zona di Naiman Nuur, gli otto laghi. È il paesaggio “da Mongolia” dell'immaginario collettivo, verde intenso in basso, azzurro sopra la testa: prateria, colline, boschi, acqua, cavalli, falchi. Si può quasi immaginare il terrore che doveva suscitare un'orda di cavalieri mongoli che si staglia in cima a un pendio e poi ti cavalca contro. Dove diavolo scappi? Khuu indica un torrente e mi dice che l’anno scorso c’era più acqua. "Adesso è quasi in secca. Il deserto avanza". Secondo lei, lo stile di vita dei mongoli è comunque una garanzia ecologica, qualcosa che potrebbe insegnare molto a tutto il pianeta. La terra continua a chiamare. L’urbanizzazione sta già lasciando il posto a un movimento inverso, di ritorno alla vita nomade e alla steppa. Si mettono via due soldi a Ulaanbaatar - se si riesce - e poi si investono in cavalli, yak e capre da pascolare altrove. E pochi chilometri fuori dalla capitale le strade sono già sterrate. È già prateria. Bor, classe 1943, è tatuato sull'avanbraccio. Si faceva così durante il servizio militare. Tre geraddossate a un roccione sul quale il suo enorme gregge di capre si arrampica per la notte, cinque cammelli e una famiglia composta da quattro generazioni. Siamo duecento chilometri a sudovest della capitale, lui vive alla mongola, offre ai visitatori snuff, la polvere a base di spezie e tabacco che si sniffa e che qui si chiama hamryn tamhie ospitalità. In più c'è il valore aggiunto dei cammelli tourism oriented. Un giretto nella pianura incastrati tra due gobbe, con lui che canticchia motivi tradizionali nel tipico stile armonico, facendo risuonare il tratto vocale. E il gioco è fatto. Sarà il turismo "gentile" il futuro della Mongolia? Ma non è il turismo stesso a sancire la fine di un ecosistema fatto di natura e cultura? Ancora Khuu, una che paradossalmente di turismo vive: "La gente è cambiata, prima c'era l'ospitalità gratuita, adesso ti chiedono soldi". Però non sempre. "Una volta sono capitata nella gerdi una famiglia e alla fine volevo pagare qualcosa. Si sono quasi offesi. Qualcuno così lo trovi ancora". L'altra faccia dello sviluppo è forse ancora più problematica. Oyu Tolgoi, nella regione del Gobi, è il più grande giacimento di minerali del Paese: si calcola che possa produrre quattrocentoquarantamila tonnellate di rame e trecentotrentamila once d'oro all'anno per il prossimo mezzo secolo. Può dare lavoro a cinquemila minatori e a migliaia di altre persone nell'indotto. C'è già un accordo con la canadese Ivanhoe Mines. Khanbogd, il centro più vicino, diventerà una boomtown pronta ad accogliere chi calerà da queste parti in massa, trasformandosi da nomade in sedentario. Poi c'è Dornod, cioè uranio, nel nordest: qui il contratto è con la Russia. Quindi i pozzi di petrolio a est, su cui hanno già messo le mani i cinesi. C'è anche Uyanga, Mongolia centrale, teatro di una corsa all'oro in stile Klondyke, dove il terreno costellato di buche rivela la presenza di circa centomila ex pastori riconvertiti, che avvelenano il terreno con il cianuro necessario a separare l'oro dalla roccia. Sono chiamati "cercatori Ninjia". La Mongolia sta vendendo le proprie ricchezze, le conseguenze sociali e ambientali sono imprevedibili. La ricchissima scena musicale mongola rappresenta bene le contraddizioni tra vecchio e nuovo. Nella notte di Ulaanbaatar la battuta dritta della mongolian-techno esce prepotente dai locali, mentre sul nostro Uaz, Bataa ci impone canzoni melodiche con tanto di nitriti in sottofondo. Dopo due giorni mi scopro a canticchiarle (nitrito compreso). Ma in un Paese in cui il sessanta percento della popolazione ha meno di trent'anni, il codice privilegiato è l'hip hop che, secondo i suoi adepti, è la diretta filiazione dei canti sciamanici tradizionali. 4 Zug, una band che non ha nulla da invidiare ai peggiori gangsta rapper Usa: "Noi mongoli, che siamo diventati uomini seguendo i principi degli uomini, ci faremo umiliare da questi cinesi di merda? Chiama i cinesi, chiamali, chiamali, chiamali. E sparagli a tutti, tutti, tutti". Si intitola Buu Davar Hujaa Naraa ( Non superate i limiti, cinesi) e i 4 Zug sono già stati definiti la faccia brutta dell'hip-hop mongolo. Ma si dice esprimano a modo loro preoccupazioni diffuse. È di nuovo la Mongolia che cerca la sua strada autonoma tra due vicini ingombranti. Dal lato opposto della contaminazione tra antico e moderno, ecco gli Egschiglen (bella melodia), progetto "colto" che da vent'anni adatta gli strumenti e lo stile canoro tradizionali al gusto contemporaneo. A chi abbia un minimo di frequentazione con il khöömii(canto di gola) suonerà strano, ma provi ad ascoltare Love will tear us apartdei Joy Division nella versione di Albert Kuvezin, cantante tuvano (russo) ma di cultura mongola. Un po' così canta anche Monhoon, trentasei anni, l'uomo dei cavalli che ci guida nel paesaggio incontaminato. Primo giorno, cinquanta chilometri percorsi e trenta gradi; bufera di neve nei due successivi e tappe forzate nel silenzio e nel bianco. Un accampamento di tre gerci appare come un miraggio. Sfruttamento intensivo delle risorse, turismo, ritorno alla natura. Vita nomade e vita sedentaria, tradizione e modernità. In Mongolia si combatte una battaglia fondamentale ma nessuno se ne accorge. Dal suo esito capiremo se questa terra può darsi uno sviluppo "altro" che sia d'insegnamento per tutti o se andiamo inevitabilmente verso il mondo a una dimensione. Noi, riscaldandoci nella gerdi Dalban, aspettiamo che lui torni dalla caccia ai lupi.
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