Un popolo in piazza per quattro mesi, in città, villaggi, quartieri, bidonvilles, a dispetto delle proprie forze, della famiglia, della scuola, del lavoro, della salute, del rischio di essere ferito, sequestrato, fatto sparire, torturato, ammazzato.
Per la libertà, anzitutto (il nome vero dell’abusata “democrazia”), per la dignità, per il pane, per i figli, per il futuro. Quattro mesi di sacrosanto amore, fitto tessuto della comunità, e di sacrosanto odio che, aldilà dei vaneggiamenti dei nonviolenti fautori del disarmo unilaterale, va a chi, per ingrassare, ci succhia il sangue. E così, dopo decine di morti, centinaia di feriti, migliaia di carcerati e desaparecidos, infinite botte, paura, terrore, repressione dell’informazione libera e resistenza, guidato da capi scaturiti dalla lotta e dalla volontà di massa resi irriducibili, il Frente de Resistencia al Golpe de Estado, ha vinto. Alla maniera di come hanno vinto i popoli di Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua. Rendendo impraticabile la dittatura, gettando i corpi dei tantissimi giusti contro fucili, veleni e mazze, riparo dei pochissimi ingiusti. Micheletti ha firmato l’ultimo punto del comunque nefasto “Accordo di S. José” mediato in Costarica dal mezzano locale degli Usa, Oscar Arias, premio Nobel alla maniera di Obama. Accordo che sancisce il ritorno formale alla situazione istituzionale precedente il golpe del 28 giugno, cioè del ritorno alla presidenza della repubblica di Manuel Zelaya, il liberale-liberista divenuto riformatore alla bolivariana, traditore de suoi padrini oligarchici e imperialisti, impegnato a trasformare la “repubblica delle banane”, piattaforma per le incursioni genocide degli Usa in Centroamerica, in qualcosa di degno del proprio popolo.
L’accordo è stato firmato il 30 ottobre dal lumpendiktator Roberto Micheletti, dopo aver tentato di tergiversare per arrivare a elezioni da manipolare grazie al potere assoluto sull’amministrazione statale e alla disponibilità dei gorilla delle forze armate di obbedienza pentagoniana. Elezioni che avrebbero legittimato quell’operazione 28 giugno che aveva riportato l’America Latina ai fasti fascisti della kissingeriana operazione Condor: Obama esattamente come Nixon e Reagan e tutti i presidenti Usa di tutti i tempi. “L’impero è l’ìmpero”, come mi ha detto a Tegucigalpa, nella sua modesta casa, abitazione più da operaio che da segretario generale del sindacato honduregno, Carlos Reyes, protagonista del memorabile sciopero generale del 1954 che rivelò al mondo come tra banane e bananieri a stelle e strisce ci fossero anche lavoratori in lotta, indigeni vivi, un popolo degno del nome più di molti altri. Reyes è oggi, a elezioni di fine novembre garantite limpide dal restaurato Zelaya, il candidato alla presidenza della repubblica del movimento di resistenza popolare: C’è chi si illude su Obama, che s’immagina scontri tra i cattivi e i buoni a Washington. Ma così argomentando si mena solo il can per l’aia. E il cane siamo noi. L’impero è l’impero. L’impero ci ha fatto due guerre in questi mesi: una interna, di classe, utilizzando i tirapiedi locali delle Dieci Famiglie e dell’esercito gorilla, per annullare le misure sociali antiliberiste adottate da Zelaya. L’altra, esterna, contro Hugo Chavez e tutto il movimento di emancipazione latinoamericano, per il quale noi dovevamo servire da esempio e, poi, da base di lancio per il recupero, anche militare, delle posizioni perdute nel continente.
Certo, pecore e volpi (chiedo scusa per la metafora agli animali) inneggeranno ora agli Usa, a Obama, al Dipartimento di Stato della virago Clinton, qualche femminista italiana del giro delle ginocrati tornerà a scaldarsi sull’ “angelo Hillary” (Mariuccia Ciotta) che ha inviato a Tegucigalpa il suo sottosegretario Thomas Shannon, una di quelle lenze alla Holbrooke e alla Mitchell che vanno in giro a fottere la gente con sopra il cappuccio del boia la targhetta del “mediatore”. Tutto il merito agli Usa che, dopo quattro mesi, hanno costretto il Goriletti – Pinochetti ad abbassare il pennacchio mussoliniano. Cosa che avrebbero potuto fare con una telefonata al proconsole coloniale il pomeriggio stesso della defenestrazione manumilitari di uno Zelaya in pigiama. Non scherziamo. La Clinton che, tramite il suo burattino all’OSA aveva dato dell’ “idiota” a Zelaya rientrato avventurosamente, per i golpisti imbarazzantemente, in Honduras, pronube Lula, aveva flirtato per tutto questo tempo con la feccia militar-oligarchica insediatasi nel più povero, degradato e presunto sottomesso paese dell’area. Il golpe l’aveva partorito questa orrida megera, inseminata da Cia e Mossad (presente in forze, come mi ha denunciato lo stesso Reyes, in tutte le fasi di golpe e repressione), con l’assistenza al parto della levatrice Obama. Obtorto collo, ridotta in ginocchio dall’immensa e ininterrotta forza dei caminantes honduregni, si è dovuta acconciare al piano B: accettare il ritorno dell’ infame, rinnegato dell’impero, ma senza che a ciò si accompagnasse alcun provvedimento contro i fiduciari momentaneamente messi da parte. Fiduciari Usa che ogni legge marchia di criminali colpevoli di alto tradimento, di assassinii di massa e di violazione di ogni diritto umano. Impunità di costoro, conferma del golpista militare al comando supremo, Vasquez Velasquez, salvataggio del torturatore e seriallkiller degli anni’80, Billy Joya, qui tornato a impazzare. Per gli Usa e le Dieci Famiglie di licantropi locali c’è, ad addolcire la battuta d’arresto, il valore aggiunto di un presidente, sì vittorioso nel recupero della sua carica, ma sostanzialmente svuotato di ogni possibilità di far danno. Ha sottoscritto i punti dell’accordo che annullano l’assemblea nazionale costituente per il cambio radicale del paese, ha rinunciato ai più importanti provvedimenti a suo tempo adottati per mutare la condizione di stato-burletta nel teatro delle multinazionali come, in primis, l’adesione all’ALBA, l’Alleanza Bolivariana dei Popoli dell’America Latina, voluta da Chavez e diventata il temutissimo, da multinazionali e FMI, fronte avanzato dell’antimperialismo e del progresso sociale nel continente.
Il giorno prima dell’arrivo dell’emissario Shannon, c’era stata una delle più grandi manifestazione della Resistenza e una delle più brutali aggressioni dei gorilla di Micheletti. Forse il dado è stato tratto quel giorno. Un popolo in piedi e in piazza, pur inerme, troppo inerme, ininterrottamente per oltre 120 giorni, alla faccia del peggio che il pinochettismo aggiornato può infliggere a essere umani, fa paura e pesa. Qualcuno tra i burattini e il burattinaio ha capito che così non c’era verso di andare avanti. I burattini ci hanno provato: nel percorso dall’Università Pedagogica, nella lontana periferia, fino all’Hotel Clarion, sede delle trattative, hanno scatenato sui ventimila tra donne, anziani, bambini, militanti, tutto quello che l’apparato repressivo messo in piedi dagli israeliani aveva a disposizione: altri feriti, altri fratturati, altri bastonati, altri sequestrati, altri spediti in ospedale per intossicazione da gas venefici. Molte centinaia avevano incredibilmente resistito e si erano trincerati davanti al “5 Stelle” , luogo della presa per i fondelli durata un mese e oggi battuta. Girava voce, confermata in Nicaragua, che in quel paese honduregni meno disposti a subire calci in faccia e morti ammazzati da una dittatura duratura, stavano addestrandosi ad altre forme di lotta e di contrasto al terrorismo di Stato sparso dall’impero per ogni dove. Sarebbe stata una resistenza non isolata come un tempo, non senza sostegni internazionali di ogni genere: l’America Latina non è più tutta amerikana, anzi, lo è per soli due parastati, narcostati, Colombia e Perù. Voleva Obama lacerare ulteriormente la sua facciata di cartapesta imbarcandosi in una guerra di sterminio sul modello Contras degli anni’80? Forse no, non ancora. Intanto ci ha provato con il golpe alla Pinochet. Ma stavolta li non è andata come a Kissinger allora. Bel segno di come le cose da quella parte del mondo sono cambiate. E pensare che da noi, chi dovrebbe guardare da quelle parti e imparare, imparare, imparare, tiene la testa di struzzo avvolta nel pluriball delle sue folcloristiche pippe domiciliari.
Mentre scrivo c’è ancora qualche firma da mettere sotto l’accordo per il ritorno alla legalità costituzionale. Ancora per guadagnare tempo – non tanto per salvarsi la ghirba, quella gliela garantisce Washington – il Goriletti con le mutande alle caviglie si è appellato a un trucco istituzionale: il ritorno di Zelaya deve essere “approvato dal Congresso sentita la Corte Suprema di Giustizia”. Su questi due organismi si appoggia il lumpendiktator appeso al cappio strettogli addosso dalla rivolta popolare. Si tratta di due putride latrine, colme di detriti rastrellati dall’oligarchia golpista, che già avevano legalizzato il colpo di Stato. Forse, agitandogli sul muso i suoi serpenti la gorgone Clinton, questi sicari del golpe accetteranno di sottostare alla necessitata congiuntura e approveranno. Mel Zelaya tornerà al suo posto, è stato bravo nelle condizioni micidiali in cui i gaglioffi lo avevano ristretto nell’ambasciata del Brasile, ha tenuto duro, ha incitato la sua gente alla resistenza. Ma quello che governerà da qui alla fine di gennaio, quando gli subentrerà il successore eletto il 29 novembre, sarà un presidente dimezzato, impegnatosi a non fare più nulla di quello che voleva fare e il popolo chiedeva che facesse. Sarà già grasso che cola se riuscirà a impedire che le elezioni diventino una megatruffa alla Karzai, quelle che gli Usa hanno ormai preso la consuetudine di allestire a casa loro e ovunque gli convenga. Perché il processo di liberazione portato avanti dai milioni di eroi di questo paese continui, dovrebbe uscire da libere e trasparenti elezioni il candidato del popolo Carlos Reyes. Sarebbe come la vittoria di Chavez o di Morales, una rivoluzione dal voto. Se Zelaya invita a votare per lui, non c’è partita per gli altri, squallidi rimasugli di un bipartitismo – liberal-nacional - all’Italiana, di quelli che ci sono famigliari poiché, qui come lì, si esibiscono sui muri delle città con le facce più bolse e ottuse che la politica della borghesia capitalista riesce a scovare.
Il composito Fronte della Resistenza deve ora mantenere la sua finora saldissima unità, riuscita addirittura ad aggregare settori del vecchio Partito Liberale e del partitello di Unità Democratica. Non deve perdere i pezzi particolarmente leali al personaggio Zelaya che potrebbero dirsi: “Tornato il presidente tutto è risolto. Lasciamo fare a lui”. E no. La vittoria è grande, esemplare, storica. Ma è una vittoria tattica. Tira un’aria, soffiata dagli Usa, da legge di “Punto final”, quella che nei paesi della dittatura latinoamericana ha garantito per troppi anni, e in parte ancora garantisce, l’impunità ai despoti assassini e violatori dei diritti umani. Guai se la Resistenza ora mollasse e non stesse con 14 milioni di occhi (sette e mezzo sono gli abitanti, il mezzo è dei vampiri e loro ascari) addosso agli eventi politici che si dipanano a partire da adesso e che, o sono condizionati dalla richiesta popolare di democrazia, giustizia e assemblea nazionale costituente per il rinnovamento del paese, o sono il contrario, come golpisti e padrini vorrebbero. Le insidie per l’Honduras libero sono ancora tante. E ancora tanta è l’indifferenza, l’ignavia, la stolta assenza delle sinistre fuori dall’America Latina. Se l’Honduras perde, anche noi perdiamo e non ce lo dovremmo perdonare mai. Lo stivale del mostro avrebbe fatto un altro passo avanti sul corpo di tutti. In queste ore a Tegucigalpa la città è occupata da centinaia di migliaia di persone festanti e decise più che mai. Il paese è occupato da 7 milioni. Quello stivale ha perso il tacco.
Scrive il Fronte Nazionale di Resistenza: Questa vittoria si è potuta ottenere con più di quattro mesi di lotta e sacrificio del popolo. Un popolo che, nonostante la selvaggia repressione inflittagli dai corpi fascisti di uno Stato in mano alla classe dominante, ha saputo resistere e far crescere coscienza e organizzazione, fino a trasformarsi in una forza sociale incontenibile… La firma da parte della Dittatura del documento in cui si stabilisce di far tornare il Potere Esecutivo allo stato precedente il 28 giugno rappresenta l’accettazione esplicita che in Honduras v’è stato un colpo di Stato… Ribadiamo che l’Assemblea Nazionale Costituente è un’aspirazione irrinunciabile del popolo honduregno e un diritto non negoziabile per il quale continueremo a lottare nelle piazze, fino ad arrivare alla rifondazione della società per renderla giusta, egualitaria e autenticamente democratica.
Ne avessimo di eroi così! Altro che il buon Brecht…
Da noi ci si chiacchera addosso e si tace sul resto.
Scenderemo nel gorgo muti.
(Cesare Pavese, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”)
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Si è dimesso (ma non lascia) il governo golpista di Roberto Micheletti
Questa notte il governo golpista hondureño, al potere dal colpo di stato dello scorso 28 giugno, si è dimesso. Non lo ha fatto però per restituire il potere al presidente legittimo Mel Zelaya, come previsto dagli accordi, ma per arrivare a un governo di unità nazionale sul quale vorrebbe ancora mettere la sua ipoteca il dittatore di Bergamo Alta. Nelle dimissioni vi sono almeno due trappole che contengono l’intenzione di Micheletti di continuare a gestire il processo elettorale. Il parlamento non ha votato, come stabilito negli accordi, la restituzione di Zelaya e, secondo il portavoce e Sottosegretario alla presidenza del governo di fatto, Rafael Pineda Ponce, la cosa più logica sarebbe “che don Roberto Micheletti, essendo il presidente costituzionale della nazione, fosse anche il capo del gabinetto di Unità nazionale” che dovrebbe decidere se e quando il presidente legittimo Manuel Zelaya debba riprendere il proprio posto fissando la data del voto parlamentare.Pineda Ponce conferma che Micheletti ha richiesto e almeno in parte ricevuto dai candidati alle elezioni presidenziali, tuttora in programma tra 22 giorni, una lista di nomi di candidati a posti di ministro per un governo che dovrebbe durare poche ore. Mel Zelaya non ha invece inviato alcuna lista di nomi.Se la formazione del governo è pleonastica non viola gli accordi della scorsa settimana. Dove la divergenza è totale è per quanto concerne il rientro in carica di Zelaya che per quest’ultimo doveva essere al massimo entro giovedì prossimo “altrimenti ogni accordo sarebbe da considerare decaduto” e che per il governo golpista uscente non avrebbe una data precisa e quindi il governo di Unità nazionale potrebbe proseguire almeno fino a ridosso delle elezioni presidenziali.Paradossalmente è Micheletti ad avere ancora più carte nelle sue mani. Dopo aver tardato mesi per accettare che fosse il parlamento a votare il ritorno di Zelaya adesso, anche dimettendosi, sta ritardando questo voto il più possibile. Alla chiusura di questo articolo non è possibile fare un quadro su chi, in queste condizioni, effettivamente possa appoggiare il governo di Unità nazionale sotto l’ipoteca di Micheletti e ritardando ulteriormente il ritorno di Zelaya e se non siamo, al contrario, al riprecipitare della crisi honduregna.
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