Sono più di due secoli che gli antichi bazar della domenica animano la vita di Kashgar, la città oasi che sorge ai limiti del deserto del Taldamakan, a quattromila chilometri da Pechino, ultima tappa cinese dell’antica via della seta che dal 1° ottobre 1949 vive all’ombra della statua di Mao Zedong. Uzbeki, kazaki, tagiki, kirghizi, pakistani e afgani; centinaia di carovane che ogni settimana arrivano nel più importante centro commerciale dell’odierna provincia autonoma dello Xinjiang, nel vecchio Turkestan orientale: dal Kirghizistan, superando la catena del Tien Shan e il passo Torugart; dal Tagikistan, attraverso il Pamir e il passo Kulma; dal Pakistan, scavalcando il Karakorum lungo il passo Khunjerab. Popoli che s’incontrano in una terra antica, nella terra degli uiguri, la minoranza turcomanna che lotta contro le conseguenze dell’onda distruttiva di quella che un giorno fu la Rivoluzione popolare e che oggi è la nuova politica di “ripopolamento” targata Pechino.
Come già avviene in Tibet, in Mongolia e in molte altre province cinesi, anche nelle “nuova frontiera” dello Xinjiang le popolazioni autoctone pagano le fredde pianificazioni del governo centrale, che negli ultimi anni ha lanciato una vera e propria campagna di immigrazione di massa, un’invasione che ha portato nella regione milioni di cinesi di etnia han. Le ragioni di questa invasione? Greggio e gas naturale, giacimenti da 20 miliardi di tonnellate di petrolio e 11 trilioni di metri cubi di gas naturale che fino a ieri la China Petrochemical Corporation (Sinopec) e la China National Petroleum Corporation (Cnpc) consideravano una riserva strategica e che oggi diventano una delle principali fonti energetiche del nuovo capitalismo cinese.
Miliardi di yen stanziati per la ricerca di nuovi giacimenti e la realizzazione di nuovi oleodotti, per la costruzione delle strutture necessarie ad accogliere i nuovi pionieri dell'industria petrolifera e per la militarizzazione della regione: un progetto di assimilazione culturale e di segregazione socio-economica che il popolo turcomanno paga ogni giorno e al quale si oppone con ogni mezzo.
Più che di occupazione il Partito Comunista Cinese ha sempre parlato di “liberazione” del Turkestan orientale (Turkestan cinese per i maoisti), una liberazione voluta non solo da Pechino ma anche dagli stessi capi musulmani che avrebbero contribuito alla nascita della nuova Cina combattendo contro i nazionalisti di Chiang Kai-Shek a fianco dell’Esercito popolare. Una collaborazione spontanea quindi, fatta non solo di azioni di guerriglia e di lotta ai soprusi di Nanchino, ma anche di promesse per la creazione di un governo autonomo e di garanzie di libertà religiose e culturali. In realtà quelle promesse non sono mai state mantenute e dopo il primo impatto, dopo la prima ondata di rinnovamento portata dalla Rivoluzione culturale, i cinesi si sono trasformati in una forza di occupazione, in un’orda distruttiva che in nome della nuova visione politica messa in atto dal Partito ha stravolto completamente le radici culturali del popolo uiguri.
La provincia dello Xinjiang, diventata regione autonoma il 1º ottobre 1955, ha lo stesso regime amministrativo concesso al Tibet, alla Mongolia Interna, al Ningxia e al Guangxi: una sorta di autonomia fittizia, uno status che non accontenta nessuno e che al contrario genera il risentimento uiguri nei confronti di quella che viene percepita come una repressione religiosa e culturale e il risentimento dei cinesi han che vedono nelle aspirazioni di autonomia del popolo turcomanno una sorta di minaccia e di discriminazione verso gli stranieri. Una situazione difficile, soprattutto se si pensa agli effetti della rinascita islamica avvenuta nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e alle conseguenze della difficile situazione del Pakistana settentrionale e dellAfghanistan.
Proteste diffuse, attentati, sospetti collegamenti con le cellule di al Qaeda, fanno si che lo Xinjiang, e Kashgar in particolare, siano considerati dalle autorità cinesi la roccaforte islamica dell’indipendentismo uiguri, il centro politico dal quale si diffonde il credo estremista dei gruppi più radicali e dove nasce e cresce la forza organizzativa del terrorismo waabita. Un estremismo islamico che molto spesso i cinesi usano per giustificare gli arresti indiscriminati e le condanne sommarie con le quali si vuole risolvere il problema dell’integrazione delle minoranze etniche e soffocare le aspirazioni di autodeterminazione di un popolo.
Nell’ultimo decennio Pechino ha investito molto nello Xinjiang. Si è assistito ad un notevole sviluppo del sistema industriale e ad un forte potenziamento infrastrutturale, azioni finalizzate all’estrazione di risorse energetiche e allo sfruttamento dell’agricoltura. Fattori che non hanno assolutamente giovato al benessere degli uiguri ed hanno generato fortissime tensioni inter-etniche. Nell’agricoltura sono stati creati 14 distretti produttivi che occupano una superficie di oltre 70 mila chilometri quadrati ed impiegano una manodopera formata principalmente da cinesi arrivati dall’est: quasi 3 milioni di han che si aggiungono ai 4 milioni già presenti, ai quali sono tra l’altro riservati i posti di lavoro più qualificati; un numero di immigrati che in totale rappresentano quasi la metà dei residenti. Un nuovo Tibet quindi, con 8 milioni di uiguri controllati a vista dai reparti anti-sommossa, costretti a vivere ai margini di una società in continua trasformazione e obbligati a subire proibizioni di carattere religioso, linguistico e culturale; ospiti della loro stessa terra, destinati a combattere o scomparire.
martedì 28 aprile 2009
KASHGAR: VIVERE NELLO XINJIANG ALL’OMBRA DI MAO
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1 commento:
Se non ho capito male ... c'è sempre di mezzo il petrolio ... ma quanto ispira nobili sentimenti di libertà sto petrolio!! Ispira cosi tanto che la libertà ce la esportano a cannonate.
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