LAMPEDUSA - "Erano sette o otto, tutti armati di fucili e di machete. Hanno fatto irruzione nella nostra baracca, c'eravamo io, mio padre e mia madre. Hanno trascinato fuori mio padre, l'hanno accusato di essere un collaborazionista del governo solo perché lavorava a pochi dollari al mese per lo Stato. Quelli del Mend (il movimento rivoluzionario del Delta del Niger, ndr) lo hanno quasi decapitato con un colpo di machete. Ho tentato di salvarlo, è stato inutile: mi hanno ferito in faccia, ma mi hanno lasciato vivo. Mia madre non l'hanno toccata, però mio padre non c'era più. In quel momento ho preso la decisione a cui pensavo già da molti anni: andarmene via, tentare di raggiungere mio cugino. Lui è stato più fortunato di me, tre anni fa è riuscito a raggiungere la Svezia, lavora lì come aiutante pizzaiolo".
Comincia così il "diario di un naufrago" dell'allucinante viaggio dalla Nigeria fino a Lampedusa. Austine Osajande, uno dei miracolati presi a bordo dal mercantile turco "Pinar", è nato nel villaggio di Orhob 19 anni fa. Poche capanne a qualche chilometro dal delta del fiume Niger che si apre a ventaglio sull'oceano Atlantico. Il paese è ricco, il principale esportatore di greggio del continente nero: ma la gente muore di fame, come moriva di fame Austine, che da due giorni è ospite della base Loran di Lampedusa insieme a Selima, 17 anni: nigeriana anche lei, conosciuta durante una tappa intermedia di un viaggio durato sei mesi, che il giovane oggi racconta in un drammatico "diario". Sono innamorati pazzi.
10-15 NOVEMBRE 2008 - "Non ricordo il giorno preciso, è il mese di novembre. Non abbiamo di che mangiare. Mio padre è stato ammazzato da poco, e quello che guadagno io come ambulante di frutta e oggetti in legno non basta a sostenere la famiglia. Decido di partire. Mia madre con le lacrime agli occhi mi dice: "Vai figlio mio, Dio ti proteggerà. Ho solo cento dollari da parte, prendili e fuggi da questo inferno"". Per alcune settimane Austine attende che arrivi il "mediatore", l'uomo che gira per i villaggi del Delta del Niger a raccogliere "clienti" da trasferire in Tunisia, in Libia e, se la fortuna li aiuta, far salire a bordo di un barcone per raggiungere l'Italia. "Altri lo avevano già fatto, come mio cugino. Anch'io vorrei essere felice come lui, ma arrivare a Lampedusa è stato durissimo. Pensavo che sarei morto quando in mare il nostro gommone saltava come una palla tra le onde del mare in tempesta. Poi Dio ci ha mandato la "Pinar"".
DICEMBRE 2008 - "Sono in viaggio da alcune settimane, i cento dollari sono finiti in poco tempo: tutti vogliono essere pagati, poliziotti, doganieri, autisti di camion e furgoni; mi hanno lasciato solo le cose che per loro non hanno valore ma che per me contano quanto tutto il petrolio della Nigeria. Il rosario con il crocifisso di legno, la piccola Bibbia che conservo in un sacchetto di plastica chiuso con il nastro adesivo; e la speranza, il sogno di raggiungere l'Italia e mandare dei soldi a mia madre".
NATALE 2008 - "Ogni settimana o due mi fermo in qualche villaggio. Chiedo ospitalità, o un lavoro per proseguire il mio viaggio. Faccio di tutto, il pastore, il contadino, il trasportatore di legno. Non basta, ma non mollo. Ho deciso: vivere o morire. Io voglio vivere, avere un lavoro vero, una donna, una famiglia, dei figli. Questi desideri e questi sogni, la fede in Dio mi danno la forza di continuare. L'autista di un furgone un giorno ci lascia in mezzo al deserto. Siamo in sei, tutti uomini, tutti nigeriani. Non abbiamo nulla da mangiare, ma uno è riuscito a portarsi appresso del pane, anche se ormai è duro come le pietre. Lo divide con tutti noi. É Natale. Riusciamo ad accendere un fuoco e tutti assieme preghiamo e cantiamo. Chiediamo a Dio di non dimenticarci".
GENNAIO - FEBBRAIO 2009 - "Ci fermiamo in tanti villaggi: sono tutti uguali, tutti poveri come Orhob. Molti sono cristiani e, sia pure con difficoltà, lì ci danno una mano. In uno restiamo per oltre tre settimane. Non c'è possibilità di trovare un lavoro, un passaggio che ci faccia andare avanti. Poi un giorno un camion carico di frutta, diretto a un paesino a 200 chilometri di distanza, ci prende a bordo con la promessa che lo aiuteremo, una volta a destinazione, a scaricare la merce. Promettiamo".
MARZO 2009 - "Per alcuni giorni camminiamo a piedi sotto il sole. Il pomeriggio ci fermiamo da qualche parte e per molte notti dormiamo all'aperto bruciando la sterpaglia raccolta durante il viaggio. In un villaggio ci regalano delle bottiglie di plastica che riempiamo di acqua. Beviamo solo quando non ce la facciamo più. Le scarpe che ci hanno regalato in un altro villaggio sono sfondate. Indossiamo sempre gli stessi abiti, un giubbotto, una maglietta, dei pantaloni. Ci laviamo di rado, l'acqua è preziosa e non va sciupata. Al confine tra la Tunisia e La Libia incontro Selima. É con altre due donne. Mi chiede di proteggerla, ha paura degli uomini che più volte l'hanno insidiata. Così ci siamo innamorati".
16 APRILE 2009 - "Eravamo in mare, noi che avevamo pagato di meno su un gommone, gli altri che avevano pagato di più sulla barca. Stavamo affondando, eravamo stremati quando è arrivata la nave e quel "Dio" del comandante Asik. Grazie Asik. Grazie Pinar, grazie Dio".
Fonte: La Repubblica (22 aprile 2009)
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4 commenti:
Testimonianza davvero toccante, ma soprattutto istruttiva: si dovrebbe alla fine capire che qualunque politica verso i migranti, per quanto cattiva, sarà solo gratuitamente cattiva, non potrà mai avere alcun valore di dissuasione.
E poi dopo questo, torni indietro e capisci come la politica o i paesi li trattino come una merce a se stante...
... e pensare che l'uomo e' nato libero e la Terra e' di tutti...
(i tuoi commenti sono stati preziosi!)
buona giornata catone
......questo argomento mi sconvolge...le immagini sono un colpo al cuore
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