Oggi, nella nostra Italia, siamo vittime di una compiuta schiavitù, nell’adorazione del profitto, del mercato, del denaro.
La cosiddetta politica, dopo avere alacremente lavorato, almeno negli ultimi trent’anni, per condurci a questo esito, è sfociata, da ultimo, in un governo di tecnici.
Annoto, semplicemente, che in tale soluzione v’è la resa incondizionata alle regole dei nemici dell’umanità, e un adeguarsi alle loro pretese, con il proposito, o con l’augurio, o con l’illusione, di uscire indenni dalla crisi, o con meno danno possibile. Speriamo.
Sta di fatto che ci viene chiesto di sacrificare al vitello d’oro, di rispettare come sacrosanti i “diritti” del più spietato e cinico individualismo, come intangibili le strategie dello sfruttamento pianificato dagli affaristi dell’impresa e della finanza, come doverosa e opportuna la diseducazione globale e omologante delle coscienze – nella scuola come nei mezzi di “disinformazione” privati e pubblici. Ci viene chiesto di rinunciare al diritto di sperare che il lavoro contribuisca a identificarci stabilmente come persone, alla passione per professioni e occupazioni realmente utili e costruttive, fondate sulla predisposizione naturale, sulla padronanza tecnica e sulla lunga consuetudine (“ingegno, arte e uso”, come annota Dante nel X del Paradiso).
Dobbiamo abituarci, sempre in ossequio al vitello d’oro, al massiccio ritorno del disagio sociale, all’abbandono dei disabili, alla marginalizzazione delle famiglie. Chi se ne frega? Dobbiamo attenderci un progressivo dilagare di un aggressivo anti-umanesimo, che tenderà all’emarginazione e poi alla soppressione fisica del diverso, o di chi è considerato tale dai più. Non è mia questa convinzione: si leggano gli scritti di Zygmunt Bauman, o le recenti considerazioni – finora solo elaborazioni teoriche e accademiche, in futuro forse proposte legislative – circa un possibile ritorno al monte Taigeto (soppressione di neonati non graditi perché “diversi rispetto alle attese). Il monte Taigeto era quello dal quale gli antichi spartani gettavano i neonati “difettosi”.
Come si è arrivati a tanto? Quali colpe ha la cosiddetta politica? Quali vie intraprendere?
Nella storia della nostra repubblica, la lotta degli interessi, un tempo mitigata dal diuturno impegno per la composizione delle esigenze vitali della gente, e da una certa dose di solidarietà trasversale che percorreva gli strati più profondi della società anche nel mezzo di aspre contrapposizioni, ha creduto bene di evolversi. Si è imposta gradualmente l’azione politica all’insegna dell’opportunismo, del tornaconto personale o di gruppo, del favore da concedere alle emergenti, e poi dilaganti, tendenze individualistiche che avrebbero gravemente minato quello che con un termine abusato si definisce il tessuto sociale.
E qui il pensiero va alla famiglia, stretta fra le derive dell’irresponsabilità egoistica individuale, da un lato, e la latitanza irresponsabile della parte pubblica dall’altro: irresponsabilità che hanno presto trovato cittadinanza nel modo di sentire comune, e sono pacificamente accettate. E va anche, il pensiero, all’educazione, efficacemente affossata da tentativi di egemonia ideologica, prima, e stremata in seguito da una politica troppo miope, o forse attivamente preoccupata di disperdere, in nome dell’asservimento al potere economico, quel che restava dell’anima di una tradizione alta e plurisecolare.
Sempre all’insegna dell’opportunismo e del cinismo, ci hanno voluto convincere che la politica è solo l’arte del possibile, mutevolissima al mutare delle pressioni degli interessi. Interessi da giocare come si gioca una partita a scacchi, senza il desiderio di un riferimento che voli oltre la loro mediocre e dannosa provvisorietà.
Ma è proprio un’utopia, ci chiediamo, immaginare e perseguire un orizzonte di reale bene comune che faccia da guida alla caotica dispersione degli interessi? Aspettiamo qualcuno che ci dimostri che è un’utopia. E che ci dica, però, come contrastare l’avvelenamento e la degenerazione dei rapporti interpersonali, condizionati oramai quasi solamente da atteggiamenti di utilitarismo, pragmatismo, egoismo, cinismo, stupidità e perfino sadismo. A tutti i livelli e in tutte le sedi.
L’interesse indica uno stato di vantaggio reale o potenziale, generalizzato se l’interesse è comune, o parziale o settoriale o privato, in caso contrario, costituito da una rete di relazioni contrattualistiche, conflittuali e di compromesso. In tale rete di rapporti, ciascun attore “interessato” lucra uno spazio di visibilità e di potere, in base alla forza propria e del proprio schieramento, accettando, obtorto collo, che anche gli altri, e le altre parti, godano di un loro spazio; con il proposito, nemmeno tanto celato, di accrescere, ciascuno, lo spazio proprio, a svantaggio di quello altrui, secondo come si modificano i rapporti di forza o i risultati delle strategie di raccolta del consenso. Alla fine, l’astratta non belligeranza interindividuale, basata sulla reciprocità e ripartizione di interessi, non essendo incentrata su un reale zelo per il valore altrui, non dura che lo spazio di un sospiro.
Un tal modo di pensare e di operare può essere detto di aerea mediocritas, alludendo non a un giusto mezzo, ma a una mediocrità dell’agire basata su tornaconti di bassa lega (l’aes, da cui aerea, era per i romani il bronzo, il rame, il denaro); in esso tende a dissolversi l’attenzione verso i diritti di tutti i cittadini e la tutela di chi è in minoranza, attestandosi quella tirannia della maggioranza che non di rado, proprio della democrazia, rinnega i valori fondanti; con il rischio incombente che proprio nel gioco maggioranza-minoranze si creino società di esclusi parallele alle società dei dominanti.
L’aerea mediocritas dissolve, soprattutto, l’essenziale valore pre-economico ed extra-economico della persona, mentre promuove come essenziale il valore economico dell’uomo, relegando tutta la vita umana in una condizione di assoggettamento innaturale e quindi dis-umano. Non che l’aspetto economico non sia importante (primum vivere deinde philosophari, prima vivere e poi ragionare): ma è questione di quali priorità da avere a cuore e di cui prendersi cura.
È urgente, dunque, ritrovare una centralità dell’uomo, un luogo di aurea medietas, dove l’interesse – del singolo, della parte, della collettività – reclami di essere sorvegliato e diretto dal bene comune, cioè dallo zelo e dalla preoccupazione per i diritti basilari e comunitari di tutti – formazione, lavoro, famiglia, salute, speranza, futuro –, orientandoli perché ritornino a bene di ognuno, e non solo dei più o meno legittimi titolari; è il luogo dove prima dell’azione viene il progetto, prima del progetto l’idea, prima dell’idea l’ideale; è il luogo dove si lavora perché tutti possano avere voce e rappresentanza, non solo i più forti o più scaltri; un luogo dove regni un pensiero che discerna “de la vera cittade almen la torre” (Dante, Purg. XVI, vv 96), affinché la comunità nella quale ci troviamo a vivere scansi il famoso rimprovero: “e ora in te non stanno sanza guerra / li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro e una fossa serra” (Dante, Purg. VI, vv 82-84), perché “superbia, invidia e avarizia sono / le tra faville c’hanno i cuori accesi”(Dante, Inf. VI, vv 74-75).
Può ritrovarlo la politica un tale luogo? Non credo, dopo che le metamorfosi degli ultimi decenni l’hanno appiattita nella confusione polarizzante e paralizzante, nell’abbandono delle radici ideali, delle appartenenze storiche, dei riferimenti a valori alti e decisivi; nell’idiozia che senza ideali certi e definiti si potesse fare miglior governo; nell’assurdità di una condotta senza quel passaggio, vitale, dall’ideale al progetto, dal progetto alla proposta, dalla proposta alla sintesi, dalla sintesi all’azione concreta.
Ritengo che, come è accaduto nell’immediato dopoguerra, il rinnovamento dell’azione politica possa avvenire solo per pressioni dall’esterno, per intervento di una “lobby sociale” aperta e trasparente, fondata su associazionismi di buona volontà, di diversa matrice, ma fra loro interagenti, e alimentata da un rinnovato desiderio di riappropriarsi, anche a livello culturale, oltre che etico, delle ragioni profonde che generano e regolano la società come comunità di partecipanti e non come insiemi di individui solitari. Qualche spiraglio si intravede all’orizzonte.
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