Cuba, Santa Clara. Tomba del “Che” © Marta Forzan
“C’è in un’isola lontana, una favola cubana che vorrei tu conoscessi almeno un po’ “. Un sogno tropicale di gente vivace. Di sigari e mojito, ribelli e menestrelli. Ancorata a nostalgici ricordi, il 17 maggio 2009, Cuba ha celebrato il 50° anniversario della sua rivoluzione “degli umili e per gli umili” (Raul Castro). Lo ha fatto un po’ in sordina, indebolita da tre devastanti uragani e dalla prolungata assenza del “Jefe maximo”.Tuttavia, il 21 settembre all’Habana si è tenuto il “Grande concerto per la Pace Senza Frontiere”. Più di un milione di cubani hanno partecipato all’esibizione di artisti latinoamericani , spagnoli e italiani riuniti per gridare al mondo che la pace, la fraternità e l’amore sono gli unici strumenti capaci di dare all’umanità la speranza per il futuro.
“C’era un uomo troppo spesso solo, e ora resta solo un viso che milioni di bandiere guidò e che diceva venceremos adelante. O victoria o muerte”. Guerriero sulla Sierra, fautore della rivolta permanente, eroe dell’immaginario. E’ sempre vivo l’alfiere che fece divampare un incendio di speranze nell’America Latina. Sin da quel maggio ’59 quando il dittatore Batista lasciò l’isola e Cuba libera.
Il dottor Guevara con la sua stella in fronte e i capelli al vento. Sangue basco, da parte materna. Sangue irlandese, da quella paterna. Classe 1928. “Che”, l’argentino. Il 9 ottobre di ogni anno Cuba, Bolivia, Irlanda e il mondo intero ricordano la morte di Ernesto Guevara de la Serna Lynch assassinato il 9 ottobre del 1967, in Bolivia. Come se non fosse mai avvenuta.
Chi non ha quel volto in camera. Chi non l’ha visto sfilare con studenti, operai e oppressi. Chi non ha seguito quel ritratto, quel viaggio, quella storia. Per passione, per speranza. Perché si. Una carica simbolica universale. Forse, ingenuo simbolo di lotta, ma anche di tragedia, solitudine, sconfitta.
“Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza”. Parla il Che, e guarda oltre l’orizzonte. Quante volte hai fissato i suoi occhi. Su un muro, su un libro, su manifesti sin da quando i verdi anni scompigliavano pensieri e sentimenti. Ti aggrappavi ad uno scatto di “Korda” per sentire un soffio d’umanità.
Fierezza e timidezza, coraggio e umiltà. Eppure sempre un po’ sfuggente quello sguardo, quasi distratto da un intimo presagio. E ti chiedevi se avesse la verità o la cercasse. Poi hai scoperto un altro scatto. E una storia. Anni Sessanta due immagini fanno il giro del mondo. Due fotografi, Alberto Diaz Gutierrez Korda e Freddy Alborta. Due date. Due luoghi e due eventi. Un uomo, il Che.
La prima ha un nome, “Guerillero Heroico”. Fatta all’Habana il 5 marzo 1960 durante il funerale di 140 cubani uccisi da un’esplosione. Korda scattò mentre Guevara sul podio si trovava tra un uomo e delle foglie di palma. Colpito dallo sguardo del Che, decise di isolarne il volto “encabronado y dolente”.
La seconda non ce l’ha. Scattata il 9 ottobre 1967, nel lavatoio dell’ospedale Nuestro Señor de Malta, a Vallegrandre in Bolivia. Alborta, fotografo dell’United Press International, stampa decine di immagini di un cadavere crivellato di colpi. Senza tempo né luogo. Sguardo ardente ormai assente. Sorriso sdegnoso per un vile istante infinito.
E’ proprio la foto di Alborta a dare l’eternità al ritratto di Korda. L’immagine del guerrigliero morto a 39 anni per la libertà dei popoli, disteso sul lavatoio arrugginito, con gli occhi aperti, scuote gli animi mentre il volto di quell’uomo fiero, bello col basco nero diventa un’icona con la scritta “il Che vive”.
Il mondo porta magliette col baschetto e il viso serio. Troppi non hanno letto i suoi “diari”, appunti di un viaggio nella memoria collettiva del Sud America. Molti non sanno che Guevara oltre che guerrigliero è stato viaggiatore, medico, poeta, fotografo, filosofo, economista, ministro. Nemico giusto. Mito e icona. Usato dalla politica e sfruttato dal mercato cinico e bottegaio.
Sognatore poco incline alla mediazione, Guevara partiva per il suo primo giro in America Latina con l’amico Granado, a cavallo di una Norton del ’39 con in testa la dottrina di Gandhi, l’ingenuità di un ventitreenne e la voglia di scoprire una terra di popoli ardenti, fiumi battaglieri e mitiche montagne. Di certo non sapeva quale significato avrebbe avuto quell’avventura.
Tetè, Che, Guerrillero Heroico, Comandante Che Guevara, San Ernesto de La Higueira. Lui si definiva “piccolo cavaliere errante del XX secolo”. Paladino senza frontiere. Anche nel XXI secolo. In ogni angolo del mondo al servizio delle proteste, delle rivendicazioni, delle cause più disparate. Dall’Ucraina ad Hong-Kong, dal Libano ad Haiti. Dai territori palestinesi a Calcutta. Persino in Iran è in prima fila accostato ai “leadear riformisti”.
I contadini in Bolivia affiancano il volto del Che a quelli di Gesù, la Vergine Maria, Papa Wojtyla. Era come Cristo, raccontano i vecchi che quel 9 ottobre ’67 videro il suo corpo nel lavatoio de La Higueira. Gli stessi che non aderirono alla sua chiamata rivoluzionaria, oggi lo venerano come un santo. E c’è chi paragona quel corpo al “Cristo morto” del Mantegna.
Il 17 ottobre del 1997, Il Che è tornato a casa. L’ultimo viaggio coi suoi compagni percorrendo mezza Cuba tra due ali di folla ininterrotta dall’Avana a Santa Clara, la città più legata al Comandante. Qui è sepolto Ernesto Guevara de la Serna con Tania e gli altri 13 partigiani morti in Bolivia i cui nomi, uno sotto l’altro, graffiano il marmo bianco.
L’hai cercato nei tuoi viaggi in Bolivia, in Argentina, in Perù. A Cuba. Negli occhi della gente. Sulla Sierra, parlando coi vecchi. L’hai visto nelle case, frugando nelle madie, sulle credenze, nei vecchi bar, nel museo Moncada tra schizzi e schemi tattici. Hai pianto leggendo l’ultima lettera a Fidel. “Altre sierras nel mondo reclamano il contributo delle mie modeste forze …lascio un popolo che mi ha accettato come figlio…se l’ora definitiva arriverà per me sotto un altro cielo, il mio ultimo pensiero sarà per questo popolo..”
L’hai trovato nel cenotafio di Santa Clara, una sorta di caverna rifugio per guerriglieri. Appena illuminato. Una piccola targa accanto alle altre. Hai sentito la profonda umanità di un tempo mai arreso. Dietro gli steccati.
di Marta Forzan
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