Minute e anziane, e preparate. Giovani e indomite, e determinate. Per loro la vita è lotta. Contro governi che brandiscono la religione come arma di guerra per azzittirle e farne docili serve, e contro quelle società - dal Messico al Congo - che semplicemente ne umiliano il corpo e l’anima.
Contro l’inetta giunta militare birmana (è il caso famoso di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, appena condannata ad altri 18 mesi di arresti domiciliari) e contro la più potente dittatura del mondo, la Cina. Non hanno paura.
Combattono contro una diga in India perché «i dollari non sono commestibili»
(l’attivista Medha Patkar), e in nome degli alberi portatori di pace in Kenya (il premio Nobel Wangaari Mathai).
Osano indossare i pantaloni in Sudan. Rivendicare a costo della vita il diritto alla maternità in Zambia e in Cina. Cercano di guidare l’automobile o varcare il confine dell’Arabia Saudita non accompagnate da un uomo. I nemici sono sempre l’ingiustizia e la sopraffazione. Ma le forme di lotta sono infinite. Con ognuna mettono in gioco la vita perché un giorno altre donne possano averla, una vita. Sono le eroine del nuovo millennio: le donne che non si arrendono a società fatte contro di loro. A differenza degli eroi uomini, quando combattono nel nome dei diritti umani, della democrazia, della libertà, lottano prima di tutto per la sopravvivenza loro e dei loro figli.Secondo Amnesty International, una donna su tre subisce una qualche forma di violenza e, in determinati Paesi, due su tre. «Eccezione fatta per i paesi Scandinavi, nel resto del mondo le donne sono vittime di una qualche forma di discriminazione», spiega Mary Hawkesworth, direttore di “Signs: Journal of Women in Culture and Society”, la rivista guru del femminismo mondiale. Ciò che è peggio è che queste donne coraggio sono spesso, troppo spesso, lasciate a combattere da sole. «Ci sono 12 agenzie dell’Onu e 17 mila peacekeeper in Congo, ma il responsabile umanitario dell’Onu è andato a visitare il Paese soltanto quando Eve Ensler, autrice dei “Monologhi della Vagina”, ha raccontato ai giornalisti americani di essere “ritornata dall’inferno”» (un luogo in cui ribelli rwandesi e soldati congolesi con uguale violenza da 15 anni considerano gli uteri delle donne personale terreno di gioco, e vi trascinano bastoni, sedie e machete), racconta Stephen Lewis, co-direttore di Aids-Free World.
Ma da quest’autunno qualcosa potrebbe cambiare. L’assemblea generale delle Nazioni Unite, un’organizzazione ancora figlia degli anni 50, patriarcale e gerarchica, dovrebbe finalmente dare il via libera a una superagenzia dedicata ai diritti delle donne. Quelle che esistono oggi - Unifem, Daw, Osagi e Instraw - hanno budget ridicoli, nessun coordinamento e sono completamente escluse dal processo decisionale dei vertici.
Non potrebbe esserci momento migliore per cambiare rotta. Perché questa non è stata un’estate facile per le donne-eroine. Il 15 luglio è stata uccisa a Grozny, in Cecenia, Natalia Estemirova, una giornalista impegnata a rivendicare i soprusi commessi con il sigillo del Cremlino dal brutale regime di Ramzan Kadirov. Era amica ed erede della russa Anna Politkovskaja, l’attivista per i diritti umani, acerrima nemica del premier Vladimir Putin, silenziata dal regime nel 2006. Faceva parte di Memorial, una ong che si batte per il rispetto dei diritti civili in molti stati dell’ex Unione Sovietica, fondata da un’altra donna, l’avvocatessa Lidia Yusupova, oggi sotto minaccia di morte. «Durante gli anni del conflitto, quando gli uomini sparivano a migliaia, le donne hanno iniziato ad avere un ruolo sempre più importante nella società cecena, per questo adesso ci sono tante attiviste donne, e per questo Kadirov vuole rimetterle “al loro posto” appoggiando, ad esempio, la poligamia e vietando i vestiti scollati all’europea», spiega Tanya Lokshina, vice direttore di Human Rights Watch in Russia.
Il 4 agosto Rabiya Kadeer, 62 anni, la “Dalai Lama degli uiguri” (i cinesi di etnia turcomanna perseguitati dalla dittatura cinese), in esilio dal 2005 dopo anni di prigionia, ha visto i suoi figli apparire sulle televisioni di Stato per condannarla come malefica regista occulta delle sanguinose rivolte di luglio. Negli stessi giorni i registi cinesi boicottavano il Film Festival di Melbourne e gli hacker con gli occhi a mandorla ne bloccavano il sito: era la vendetta di Pechino dopo che l’organizzazione aveva rifiutato la sua richiesta di non proiettare il film sulla Kadeer, “Le 10 condizione dell’amore”, diretto da Jeff Daniels.
L’11 agosto la 63enne leader democraticamente eletta della Birmania, Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari dal 1988, è stata condannata pretestuosamente dalla giunta militare a un altro anno e mezzo di detenzione per evitare che si presenti alle elezioni del prossimo dicembre, che, fossero libere, vincerebbe senza un giorno di campagna elettorale. Lei, donna coraggio in un Paese in cui le donne sono sistematicamente soggette a violenza da parte delle uniformi militari, è diventata non solo il simbolo della Birmania oppressa ma di quell’intera parte di mondo.
I blogger asiatici non hanno perso tempo a tracciare paragoni tra Aung San Suu Kyi e Mu Sochua, una parlamentare dell’opposizione in Cambogia, candidata al premio Nobel per la pace, in lotta aperta con il primo ministro Hun Sen dal 2004. «Hun Sen sa bene che quest’anno ha rubato le elezioni e che il suo partito non avrebbe mai vinto se le elezioni si fossero svolte liberamente», ripete Sochua, che accusa: «La Cambogia ormai è una democrazia soltanto sulla carta». Nata in una ricca famiglia di Phnom Penh che l’ha spedita a Parigi quando la Cambogia è diventata terreno di guerra, Sochua ha vissuto in esilio per 18 anni e non ha mai piu rivisto i suoi genitori, spariti nell’abisso creato dai Khmer Rouge. Al rientro in patria nel 1989, ha fondato Khemara, la prima ong al femminile del Paese, e ha iniziato a battersi per i diritti delle donne. Ottenuto un seggio in parlamento nel 1998, è stata nominata ministro delle Donne in un paese con un livello di alfabetizzazione drammaticamente inferiore a quello maschile. Si è dimessa da ministro nel 2004, accusando il governo di corruzione, e si è unita al partito d’opposizione. «Credo che la Birmania e la Cambogia abbiano problemi simili anche se differiscono in intensità», spiega Sam Rainsy, il leader del partito di opposizione: «In ogni dittatura i diritti delle minoranze e quelli delle donne sono oppressi. Così le donne diventano la testa d’ariete di qualsiasi lotta in nome della democrazia e della dignità umana».
Ed è esattamente in nome di una discriminazione feroce da parte di una dittatura religiosa bugiarda che centinaia di migliaia di donne, decorate di verde, si sono riversate nelle strade iraniane lo scorso luglio, quando Mahmoud Ahmadinejad ha vinto coi brogli le elezioni presidenziali. «Nei paesi islamici - e sono oltre 60 - le attiviste si dedicano soprattutto alla difesa dei diritti delle donne», spiega Hawkesworth: «Nel farlo è inevitabile che finiscano in diretto contrasto con la leadership del Paese».
Tra loro c’era Neda, la giovane colpita a morte dai basij e santificata da una comunità on line che ne ha diffuso il messaggio ben oltre i confini nazionali. E poi Shadi Sadr, un’avvocatessa dei diritti umani, arrestata, picchiata, minacciata e più tardi rilasciata. E ancora la giornalista Narges Mohammadi, portavoce del “Centro in difesa dei diritti umani,” fondato dal premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi e chiuso quest’inverno dal regime. Avrebbe dovuto venire in Italia a luglio a ritirare il premio Alexander Langer, ma le è stato confiscato il passaporto. Al suo posto è venuta Ebadi, che se oggi è il più celebre avvocato iraniano per i diritti umani, nel 1969 - dieci anni prima della rivoluzione islamica - era il primo giudice donna nella storia dell’Iran. Già perché oltre al coraggio queste donne hanno in comune una preparazione culturale al di sopra della media del loro Paese, di cui, nella veste di avvocatesse, dottoresse o giornaliste, ne finiscono per diventare potente coscienza civile.
La Ebadi del Pakistan è Hina Jilani, l’avvocato che ha creato nel 1980, con la sorella Asma, il Women’s Action Forum per aiutare le donne ad ottenere il divorzio da mariti violenti. Nel 1981 ha fondato il primo studio legale femminile del Pakistan, diventando più volte obiettivo di attacchi violenti e minacce all’interno e all’esterno del suo ufficio. Cinque anni dopo ha dato vita alla Commissione pachistana per i diritti umani ed è diventata primo rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per la difesa dei diritti umani.
In Afghanistan, il regno degli uomini misogeni per ideologia - i talebani - ha scelto di intraprendere la via del governo, e quindi diventare un facile bersaglio degli studenti coranici, la dottoressa ematologa Habiba Sarabi: è il primo governatore donna del Paese, nella provincia di Bamyan. Era stata ministro degli Affari delle donne e, prima, ministro della Cultura e dell’educazione. I galloni li aveva guadagnati sul campo: fuggita in Pakistan con l’arrivo al potere dei talebani, aveva lavorato come insegnante per ragazze nei campi per rifugiati. Al rientro in Afghanistan, dove oltre l’80 per cento delle donne è analfabeta e ha un’aspettativa di vita di 45 anni a causa delle morti per parto, aveva fondato l’Associazione per l’assistenza umanitaria alle donne e ai bambini.
Non avrebbe invece mai immaginato di diventare una leader dell’opposizione Ding Dizilin, un’ex professoressa di filosofia all’Università del Popolo di Pechino, oggi settantenne. Fino a quando in quel lontano 4 giugno del 1989 le uccisero il figlio 17enne in piazza Tian An Men. Prima tentò la via del suicidio, poi quella dell’impegno civile, e fondò “Le madri di Tian An Men”. Nata per portare conforto alle centinaia, forse migliaia, di madri che Deng Xiaoping aveva privato dei figli pur di non mettere a rischio la sopravvivenza del regime comunista, l’organizzazione è diventata, vent’anni dopo, un potente simbolo politico: in una società priva di valori etici ed affettivi non sopravvive la verità; senza verità, non può esistere giustizia; e senza giustizia donne - e uomini - non potranno mai essere liberi.
Nessun commento:
Posta un commento