Prendete una carta geografica sulla quale siano rappresentate l’Europa e l’Africa e rovesciatela. Con l’Africa in alto e l’Europa in basso, i due continenti acquistano un profilo assai poco familiare: la sterminata massa africana sembra quasi schiacciare un’Europa striminzita. Questo rovesciamento non è una stranezza ma il tentativo di uscire dalla nostra gabbia concettuale che, quasi «naturalmente», colloca l’Europa in alto e l’Africa in basso.
Con la carta girata così, è più facile rendersi conto di che cosa significa che gli africani siano circa novecento milioni e diventeranno quasi due miliardi nel giro di qualche decennio, mentre gli europei rimarranno all’incirca cinquecento milioni. A questo punto non è neppure necessario un (auspicabilissimo) senso di solidarietà umana per concludere che non è nell’interesse dell’Europa ignorare un vicino di casa così grosso, così giovane, così privo di tutto. Se agli africani viene negata la prospettiva di raggiungere un livello di vita ragionevole, la «fortezza Europa» con la sua vecchia popolazione e la sua antica ricchezza non può resistere all’onda d’urto di un’Africa giovane, povera e disperata. Molti lettori saranno sicuramente d’accordo ma si chiederanno che cosa è possibile fare. Il pensiero economico dell’ultimo mezzo secolo ha messo a punto due ricette, spesso considerate, probabilmente a torto, alternative.
La prima va sotto il nome di «trade» (commercio), la seconda sotto il nome di «aid» (aiuto). La ricetta commerciale richiede l’abolizione delle barriere doganali e in questo Europa e Stati Uniti hanno mostrato una buona dose d’ipocrisia. Apparentemente il commercio internazionale è molto più libero perché i dazi doganali sono diminuiti; i dazi, però, sono spesso stati sostituiti da altre, forse più impenetrabili, barriere, in particolare da sussidi ai produttori. Il sussidio americano a circa 150 mila coltivatori di cotone consente a questi ultimi di praticare, a spese dei contribuenti, prezzi così bassi da mettere fuori mercato, e, in pratica, condannare alla povertà, milioni di produttori africani di cotone. Ancora: è molto facile per gli africani vendere in Europa e in America il loro caffè verde e il loro cacao, assai meno facile – per una serie di dazi specifici e di normative tecniche – vendere il caffè tostato e il cioccolato. L’apertura commerciale ai Paesi poveri ha un costo per l’agricoltura dei Paesi ricchi. Se importati liberamente, vino sudafricano, riso egiziano e olio d’oliva magrebino, a esempio, con i loro bassi prezzi riducono lo spazio per gli analoghi prodotti dell’agricoltura europea. Gli agricoltori europei vanno sostenuti non perché possano abbassare i prezzi ma perché diversifichino la loro produzione. Nel lungo periodo, gli africani, diventati meno poveri, «ripagheranno» acquistando una maggiore quantità di prodotti europei. Anche la seconda ricetta, quella degli aiuti, dev’essere aggiornata. Troppo spesso europei e americani sono andati in Africa pensando di di avere in tasca la formula sicura della crescita economica. Questa forma di colonialismo culturale ha fatto soprattutto disastri ed è necessaria un’iniezione d’umiltà: abbiamo relativamente poco da insegnare e molto da imparare assieme agli africani. Occorre quindi un «mix» di nuove aperture commerciali e nuove forme di aiuti. Se l’Africa raggiungerà così un ragionevole livello di benessere, gli imprenditori e i consumatori africani non saranno semplicemente la copia degli europei o degli americani.
Come mostrano le esperienze della Cina e dell’India, daranno origine a varianti autonome del sistema attuale. Aspettiamoci perciò una variante africana che potrebbe essere legata a una particolare dimensione familiare anziché all’individualismo esasperato. Come ha scritto Visay Mahajan, professore di Business all’Università del Texas in Africa Rising, un libro che finalmente fornisce una visione positiva di questo continente, l’Africa è ben di più di un’occasione per aiuti umanitari, è un’opportunità di mercato. Ma il mercato globale con novecento milioni di africani in più sarà un mercato diverso da quello di oggi e – possiamo sommessamente sperare – anche un mercato migliore.
mario.deaglio@unito.it
MARIO DEAGLIO
Nessun commento:
Posta un commento