Il Sudafrica del dopo-aparthaid si propone come nuovo polo geopolitico del continente. Le gelosie degli altri africani. I punti deboli della nuova potenza africana. Nella carta di LImes gli assi di influenza di Pretoria, gli interventi di peacekeeping e le aree "iimperiali" contestate.
"[...] È solo da un decennio che in Africa si stanno affermando soggetti geopolitici autoctoni, dotati degli attributi di vere e proprie potenze regionali. Uno su tutti: il Sudafrica. Accanto ai poli nordafricani (Algeria, Egitto), alla Nigeria sul ver-sante occidentale e all’Etiopia su quello orientale (se non imploderan-no), alla Repubblica Democratica del Congo e all’Angola nel quadrante centro-meridionale (se si stabilizzeranno), la terra riscattata dall’apartheid aspira a strutturare una sua sfera d’influenza. E a differenza dei concorrenti, è già molto avanti sulla strada che per la prima volta nella storia moderna dovrebbe portare alla nascita di un «impero» africano in Africa ( vedi carta a colori).
Le virgolette significano che non si tratta di una replica dell’imperialismo europeo – anche se qualche africano lo teme, perché continua a considerare i sudafricani come «mezzi bianchi». La Pax Pretoriana si propone soft, fondata sulla stabilizzazione dei territori infestati da conflitti endemici, sull’integrazione economica e sull’ideologia dell’African Renaissance. Slogan vago e fungibile, caro a Mbeki, che lega una categoria europea, primariamente italiana – il Ri-nascimento – all’africanismo. Quasi che per esistere l’Africa debba comunque riferirsi all’Europa. Lo stesso Mbeki ama paragonare la Timbuktu dell’impero Songhai alle contemporanee corti rinascimentali europee.
Nella geopolitica diacronica del leader di Pretoria il recupero del passato africano serve per dotarsi di una storia rispettabile, riscattare un radicato senso d’inferiorità e proiettarsi verso un futuro promettente. Per questo Mbeki esibisce una variopinta cornucopia di glorie africane, dalle piramidi egiziane alle rovine di Cartagine, dalle sculture rupestri di Shona ai bronzi del Benin, a testimoniare un’unica civiltà plurimillenaria. In quanto retorica dell’orgoglio africano e rimodulazione di un panafricanismo rivolto tanto ai popoli del continente quanto ai neri in diaspora, l’African Renaissance è sospettata da alcuni critici di soggiacere al fascino di un razzismo rovesciato. Ma è soprattutto uno strumento di rilegittimazione del Sudafrica nel continente, un supplemento d’anima per il nascente «impero» di Pretoria. Il quale non intende affatto contenersi nell’ambito regionale, tra Limpopo e Congo, Tropico del Capricorno ed Equatore, giacché coltiva aspirazioni continentali.
Fino a proiettarsi sulla scena mondiale come campione africano dell’Ibsa, acronimo che associa India, Brasile e Sudafrica in un «asse del Sud» transoceanico. Per sostenere tanta ambizione il Sudafrica fa soprattutto leva sulla sua economia in espansione, ancora in mano ai bianchi – in base al postulato per cui dopo l’apartheid il potere politico spetta all’African National Congress, a dominanza nera, mentre quello economico resta agli eredi dei colonizzatori (integrati da un’esigua nomenklatura nera di marca Anc). Tanto che i confini dell’area d’influenza sudafricana coincidono grosso modo con quelli della Southern African Develop- ment Community (Sadc), embrione di mercato comune regionale. Ma l’espansione economica della rainbow nation si diffonde fino al Sahara arabo e berbero, al Corno d’Africa e al Golfo di Guinea, ben dentro la sfera d’influenza nigeriana.
Le missioni di peacekeepinge le mediazioni nei conflitti, dal Sudan alle Comore, dalla Sierra Leone al Congo e al Burundi, contribuiscono a tratteggiare un ambizioso perimetro «imperiale». Pur se Mbeki ha cura di enfatizzare il ruolo delle organizzazioni regionali e della stessa Unione Africana, il suo protagonismo ingelosisce le potenze nere, a cominciare dalla Nigeria. L’accusa è che Pretoria agisce da America dell’Africa. E per incentivare un senso di appartenenza nazionale comune a tutti i colori del suo arcobaleno – dai neri d’ogni etnia agli indiani, dai boeri agli inglesi – suscita la xenofobia e pratica politiche migratorie analoghe a quelle dell’apartheid, per frenare l’immigrazione dei diseredati in fuga dalle aree devastate dai conflitti (Grandi Laghi, Nigeria, financo Etiopia).
Per molti sudafricani i neri d’oltre Limpopo sono makwere-kwere, termine xhosa che sta per «trafficanti». Spregiativo che significativamente non si estende agli stranieri bianchi. È possibile che nei prossimi anni Pretoria debba ridimensionare le sue velleità egemoniche. Un paese di appena 47 milioni di abitanti, assai decentrato rispetto al resto del continente, che non ha ancora sciolto decisivi nodi identitari (le «due nazioni», bianca e nera, che Mbeki proclama di voler ricomporre), con una disoccupazione ufficiale al 27%, difficilmente sarà il Piemonte dell’unità africana. E comunque, più che a integrarsi in un unicum, lo spazio africano tende a strutturarsi in blocchi regionali. Periodicamente destrutturati dalle rivalità, dalle guerre e dalle ingerenze neocoloniali. Una tela di Penelope. Rispetto allo scorso secolo, la differenza è che oggi nessuno, nemmeno l’America o la Cina, può considerare il continente nero come un continente impotente. Il mondo dovrà abituarsi a fare i conti con protagonisti africani. Per cominciare, sarà bene imparare a conoscerli."
Citazione da "Appuntamento a Timbuktu"
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