Chiunque sia interessato a cifre e statistiche, può leggersi quello che è oggi, probabilmente, il più completo riassunto di questo decennio cominciato tra la polvere ed il sangue delle Twin Towers crollate. Vale a dire: il resoconto finale della ricerca condotta gruppo di studio che, allestito dalla Brown University e coordinato dalla professoressa Andrea Mazzarino, ha studiato i “costi della guerra” o, più esattamente, delle molte guerre (Afghanistan, Iraq e dintorni) lanciate dopo l’11 settembre. Costi umani – calcolati, quasi certamente per difetto, in 225.000 vite umane, delle quali solo poco più di 31.000 appartenenti a militari – e costi economici (ormai superiori ai 4.000 miliardi di dollari. Costi il cui conto è ancora ben lungi dall’essersi concluso, visto che le guerre continuano. E visto, soprattutto, che continua il terrorismo che quelle guerre dovevano sradicare (e che hanno, invece, probabilmente, contribuito ad estendere).
Sul tema, pubblichiamo qui di seguito, un “dizionario del dopo 11 settembre”, scritto da Massimo Cavallini.
Dieci anni dopo l’evento che tutto doveva cambiare, nulla appare, in effetti, al suo posto. Non perché tutto sia davvero cambiato, ma perché nulla è dove, secondo le previsioni dei più, avrebbe dovuto essere. Di “The Freedom Tower”, il super-grattacielo che, nelle intenzioni, era chiamato a rimpiazzare, con svettante orgoglio, le due Torri Gemelle abbattute l’11 settembre del 2001, ancora non si vedono, in quella sorta d’artificiale Gran Canyon che è Ground Zero, che le prime fondamenta. Wall Street, “colpita al cuore” dai nemici del Mondo Libero, è bravamente sopravvissuta. E, dalle sue trincee del Lower Manhattan, ha quindi imperiosamente risposto al fuoco, colpendo a sua volta al cuore, sul finire dell’anno del Signore 2008, non i “nemici dell’America”, ma il resto dell’economia. Ovvero: quell’America capitalista (carne a sangue del capitalismo planetario) di cui, nel bene e nel male, era e resta il simbolo colpito al cuore dagli uomini di Osama Bin Laden. Il quale, Osama Bin Laden, è stato infine – quasi un decennio dopo – raggiunto ed ucciso (colpito più o meno al cuore e più o meno a sangue freddo) non dall’uomo che, tra le macerie delle Torri, aveva dichiarato se stesso un “presidente guerra”, ma dall’uomo che due anni or sono l’ha rimpiazzato, negandone l’eredità e promettendo al mondo pace e multilateralismo.
Al posto giusto – giusto nel senso di imposto dall’ordine delle cose – non si trovano, in realtà, che i morti: quelli dell’11 settembre, terrificante antipasto d’una carneficina che ancora continua, e quelli delle guerre (due, ed entrambe parte d’un unico conflitto da Bush a suo tempo chiamato “infinito”) che il summenzionato presidente di guerra ha fortemente voluto. I morti e, naturalmente, la capretta, indimenticabile ed involontaria partecipe delle prime ore della tragedia ed immutabile protagonista d’una storia – la sua, nero su bianco, con illustrazioni – come tutte le fiabe sempre eguale a se stessa. Ricordate? Quando, la mattina dell’11 settembre, l’allora “chief of staff” della Casa Bianca, Andrew Card, sussurrò all’orecchio di George W. Bush la ferale notizia – “il paese è stato attaccato” – il presidente si trovava, gradito ospite, in una scuola elementare della Florida, la Emma E. Booker di Sarasota, intento ad ascoltare i bambini impegnati nella lettura di “My Little Pet Goat’, la mia amica capretta. E questo – per sette interminabili minuti, fino a quando gli uomini della scorta non lo prelevarono di peso per portarlo in una località segreta e sicura – Bush aveva, dopo l’annuncio, continuato a fare: ascoltare in silenzio, come pietrificato dal panico, la favola della capretta…
Molti, prima che la macchina della propaganda creasse il mito del presidente-eroe, credettero di scorgere in quel prolungato silenzio una sconfortante testimonianza d’assenza di leadership. Ma, guardando a ritroso, è probabile che, anche i più contrari tra i bastian-contrari (quelli che non consentirono che il proprio cervello venisse portato all’ammasso dalla propaganda di cui sopra), ripensino oggi alla capretta ed a quel lungo silenzio con una punta di nostalgia: meglio, molto meglio sarebbe stato per tutti se George W. Bush – primo presidente degli Usa eletto, non dal popolo, ma dalla Corte Suprema – avesse continuato ad ascoltare, ben oltre quei sette minuti, i bambini della scuola di Sarasota. Bush, invece, ascoltò le teste d’uovo – tutte peraltro a lui da sempre molto vicine – del PNAC (Project for a New American Century). E lì cominciò, per lui e per ciascuno di noi, tutta un’altra storia…
Quale storia? Quella, per l’appunto, dei dieci anni che ci separano dall’evento “che tutto doveva cambiare”. Una storia tanto confusa e contraddittoria che, per trovare un filo conduttore, altro non resta che ricorrere al più primordiale modello di classificazione: l’ordine alfabetico. E questo è, più o meno, quello che, un decennio più tardi, sinteticamente ci racconta il dizionario tascabile (piccola parte di quella che potrebbe essere un’enciclopedia) dell’11 settembre.
A come AMERICAN AIRLINES volo 11, il primo dei due aerei che, la mattina dell’11 settembre, si schiantarono contro le torri gemelle. Ed anche, ovviamente, A come Al QAEDA, l’organizzazione che era dietro l’attacco, o come ATTA, Mohammad, il capo del commando suicida, l’uomo che, uccisi i piloti, quello stesso areo ha guidato contro le pareti di cristallo della North Tower. Ed anche quello che, da subito (la sua foto fu la prima a circolare, poche ore dopo il massacro), divenne il volto della strage. Atta l’egiziano, lo studente d’architettura ad Amburgo. Atta che voleva distruggere l’Occidente. Atta che odiava le donne al punto da chiedere, nel suo testamento, che ai suoi funerali non ne fosse presente alcuna; e che, nel contempo, le donne amava al punto da cercare il martirio per averne accanto 70, tutte per sé e tutte vergini, nell’eternità del paradiso. O, ancora, A come ATEF, Mohammad, nel 2001 numero tre di al-Qaeda e probabile mente militare degli attentati, nonché primo caduto d’una controffensiva che, per la verità, già era in corso da ben prima dell’attacco alle Twin Towers ed al Pentagono. Atef morì il 18 novembre del 2001, a Kabul, colpito (primo di una lunga serie) dal missile di un Predator telecomandato.
B, come BUSH, George Walker, detto W, e come BIN LADEN, Osama. Due nomi che non necessitano alcuna presentazione.
C, come CONSPIRACY THEORIES, le teorie cospirative fiorite come funghi dopo il gran temporale dell’11settembre. La più persistente e diffusa? Indubbiamente quella elaborata dal francese Thierry Meyssan (vedi sotto M, come Meyssan), il cui libro – “L’Effroyable Imposture”, ovviamente diventato un best seller – dimostra come l’intelligenza sia indiscutibilmente (e forse inevitabilmente) stata tra le prime vittime dell’attentato. E C, come “cost of war”. Ovvero: come i costi delle guerre – 225.000 vite umane, 4.000 miliardi di dollari – calcolati da un molto accurato studio della Brown University.
D, come DMORT, o Disaster Mortuary Operation Rescue Team, la semisconosciuta entità “non-profit” dal macabro suono e dall’ancor più macabra ma assai nobile funzione, alla quale è toccato il compito – non sempre possibile – di dare un nome ai frammenti d’ossa recuperati tra le macerie di Ground Zero. Un modo per collegare al ricordo di chi vive a quello che la ferocia della guerra aveva consegnato all’anonimato della polvere.
E, come ECONOMIC IMPACT, impatto economico. Subito dopo gli attentati, il danno immediato provocato nella sola “City” di Manhattan (valore delle Torri abbattute a parte) venne calcolato in 200 miliardi di dollari. Ed il 17 settembre, giorno della riapertura dei mercati, quando ancora la polvere delle torri saturava l’aria della città, tutti gli indici di Wall Street precipitarono. Ma fu una storia breve. Già il 24 settembre le borse ripresero a salire, per ritornare agli antichi splendori nella primavera del 2002. Wall Street era viva e pronta alla scalata che sarebbe culminata, infine, nel grande “crash” (da tremila miliardi di dollari, oltre dieci volte l’impatto del “nine eleven”) del settembre del 2008…
F, come FREEDOM TOWER (vedi sopra). Nell’originale progetto elaborato dal tedesco Daniel Libeskind doveva, questo mega-grattacielo, essere il punto d’arrivo d’una ricostruzione che, al suo centro, aveva la un parco alla memoria dei caduti. Il molto litigioso Gotha newyorkino volle invece – fortemente volle – che fosse l’inizio di tutto, il primo simbolo della riscossa. Ed ancora, anno dopo anno, lite dopo lite, non è stata posata la prima proverbiale pietra.
G, come GOAT, My Little Pet, of course. Ma soprattutto come GUANTÁNAMO, il carcere che – eretto in una base militare la cui presenza in territorio cubano è, già di per sé, una vergogna storica – della vergogna del post-11 settembre è diventata il più duraturo simbolo. Ed anche G, come GIULIANI, Rudolph William Louis “Rudy” III, sindaco uscente nei giorni dell’attacco e, da allora, ribattezzato “sindaco d’America”. In queste vesti – quelle di eroe americano – Giuliani ha partecipato da superfavorito, nel 2008, alle primarie presidenziali repubblicane. E lo ha fatto senza risparmio di retorica su se medesimo. Nel discorso con il quale ufficialmente scese in campo, calcolarono a suo tempo i media, Giuliani pronunciò 112 volte la frase “11settembre”. Ma nell’aprile del 2008, battuto in tutte le primarie chiave, il “sindaco d’America” – un’America ingrata ed immemore, o, più probabilmente, un’America che aveva, infine, mangiato la foglia – già era irrimediabilmente fuori gara.
H e I, come HEBE Bonafini e come IMBECILLITÀ. Ovvia domanda: che cosa può aver mai a che fare, con l’11 settembre, la più visibile e, ahinoi, ciarliera leader argentina delle Madri de la Plaza de Mayo? E perché le lettere H e I vengono qui accoppiate in un unico paragrafo? Risposta: purtroppo, le due cose – l’Hebe Bonafini e l’imbecillità di sinistra (infantile o senile che sia), hanno molto a che fare (tra loro e, ciascuna, con l’11 settembre), perché Hebe – con parole che, al tempo, un eccellente giornalista argentino definì “sanguinarie e puerili” – nei giorni seguenti l’attentato non ha esitato a cantare (e ricantare ad ogni occasione, in questi 10 anni) la sua gioia di fronte alle immagini delle torri in fiamme, senza mai scordarsi di dare (e ridare) la sua benedizione al compagno Osama che aveva dato una lezione all’America. Nessun fascista era riuscito prima d’allora – né sarebbe riuscito più tardi – ad infliggere un colpo tanto doloroso a quello (las Madres de la Plaza de Mayo, per l’appunto) che è (e che resta, nonostante Hebe) un luminoso simbolo della difesa dei diritti umani in tutto il mondo.
K, come KERIK, Bernard Bailey, Police Commissioner (e strettissimo alleato di Giuliani) ai tempi dell’attentato. È lui – altro effimero eroe di questa storia – l’unico (e ovviamente consenziente) testimone della frase che Giuliani afferma d’aver pronunciato mentre guardava le due Torri crollare: “Grazie a Dio, George W. Bush è il nostro presidente”. A Kerik, in questi anni, è comunque andata anche peggio che a Giuliani. Nel 2007, accusato per frode, è finito in carcere.
L come LADEN, Osama Bin. Di nuovo: non sono necessarie presentazioni.
M come MEYSSAN, Thierry (vedi anche sotto C, come conspiracy theories). Nel suo libro – il cui titolo, “terrificante impostura”, ben descrive le intenzioni dell’autore – Meyssan sostiene le sue tesi cospirative seguendo un assai semplice metodo: considerare parte della cospirazione (secondo Meyssan gli attentati furono pianificati dal governo Usa per giustificare un aumento del budget militare) tutti i testimoni – oculari o meno – che non confermano la sua teoria.
N, come NAUDET documentary. Ovvero: come il documentario – un’opera d’insuperata drammaticità – girato l’11 settembre dai due fratelli Jules e Gédéon Naudet, in quel momento impegnati in un servizio di routine dedicato alla vita dei pompieri di New York. La tragedia – senza bisogno di parole – è tutta in quelle immagini (molte delle quali, considerate troppo crude, non sono mai finite sul piccolo schermo).
O come OSAMA e come OBAMA, due nomi separati da una sola lettera che si sono incontrati, appena due mesi fa, in un villaggio pakistano chiamato Abbottabad, con il primo in veste di preda ed il secondo in quello di cacciatore. Nessun rimpianto per l’Osama vivo. Molti rimpianti, invece, per le promesse che OBAMA, il cacciatore vittorioso, non ha mantenuto: chiudere Guantánamo, ridare alla lotta internazionale contro il terrorismo la dignità d’una battaglia che difende e non che viola – mandando ad ud uccidere un uomo senza processo – i diritti umani.
P, come PAKISTAN, paese che, a dispetto delle “guerre infinite” di Bush, era prima dell’11 settembre, ed ancor oggi è, il fronte più delicato ed esposto (un fronte “nucleare”) della lotta contro l’estremismo islamico.
Q, come QAEDA, al. Di nuovo, come sosteneva Tino Scotti negli antichi Caroselli del confetto Falqui: basta la parola.
R, come RIDGE Tom, primo capo del Homeland Security Department, creato dopo l’11 settembre, accorpando diverse branche di governo, ed inventore (vedi sotto la lettera S) dell’oggi defunto Security Advisory System.
S, come, per l’appunto, SECURITY ADVISORY SYSTEM, un sistema di pubblica valutazione del pericolo terrorista basato su una scala cromatica che dal verde (scarso pericolo) gradualmente saliva fino al rosso (massima allerta). A che cosa servisse quella scala (visto che l’indicazione al pubblico era: quale che sia il colore, continuate la vostra vita come nulla fosse) mai venne ufficialmente chiarito. Ma del tutto chiaro – come lo steso Ridge ammise in un’intervista nel 2008 – era il suo fine politico: produrre paura. Durante la campagna presidenziale del 2004, il livello rimase costantemente sul rosso. Con buoni risultati, visto che Bush venne eletto per un secondo termine.
T, come TORTURA. Dopo l’11 settembre Bush – preso, in questo, molto alla lettera dai bravi soldati di Abu Ghraib e nei centri di detenzione segreti creati dalla Cia in diverse parti del pianeta – la reintrodusse chiamandola, con una piroetta lessicale, “tecniche rafforzate d’interrogatorio”, o “enhanced interrogation tecniques”. Ed ora, quelli che furono i suoi consiglieri, vogliono far credere che proprio grazie al suo ritorno, gli “uomini foca” sono infine arrivati al rifugio di Osama Bin Laden. Quasi certamente mentono, ma quel che conta è, ovviamente, il concetto: torturare è bello. Torturare vuol dire amare la Patria.
U come US PATRIOT ACT, la legge liberticida quasi all’unanimità approvata dal Congresso dopo l’11 settembre ed ancora in vigore. Obama, che in campagna elettorale del Patriot Act fu un dichiarato nemico, lo difende oggi nelle sue parti essenziali.
W, come WALKER, Bush George; e, naturalmente, come WEAPONS OF MASS DISTRUCTION (WPD), o armi di distruzione di massa. W usò le WPD come giustificazione per la guerra in Iraq. Le WPD non esistevano. La guerra – da Bush dichiarata vinta già il primo maggio del 2003 – è ancora in corso.
Z, come ZAWAHIRI, Ayman al. Osama (vedi sotto B, L e O) è morto. E le più recenti cronache ci dicono che proprio lui, Ayman al Zawahiri, storico numero due di al Qaeda (vedi sotto A e Q), è subentrato al comando.
Dall’11 settembre sono passati dieci anni. L’alfabeto è finito.
La storia continua…
m.goldenberg
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