La tragedia del popolo di Haiti ha scatenato la fantasia del presidente senegalese Abdoulaye Wade che, in crisi di consensi interni e pressato dall'opposizione socialista, ha tirato fuori una strana versione della negritudine di Léopold Sédar Senghor, il presidente-poeta e padre della patria senegalese.
R.J. Matson, The St. Louis Post Dispatch / Politicalcartoons.com
Ieri, in un'intervista a France Info, Wade non ha trovato di meglio che chiedere di favorire il ritorno degli haitiani in Africa, offrendo addirittura terre del povero Senegal ai miserabili discendenti degli schiavi africani che hanno liberato con le proprie mani Haiti dallo schiavismo francese.
«La ricorrenza di calamità che si abbattono su Haiti mi ha portato a proporre una soluzione radicale - ha detto il presidente di centro-destra del Senegal - Creare in Africa, da qualche parte, con degli africani ben intenzionati, con l'Unione Africana... uno spazio, da determinare con gli haitiani, per creare le condizioni per il ritorno degli haitiani. Questo ritorno potrebbe essere fatto in una sola volta o in più viaggi se riguardasse diversi Paesi. E' importante dare questa opportunità agli haitiani. Non hanno scelto di andare in quell'isola e non sarebbe la prima volta che degli ex schiavi o i loro discendenti ritornano in Africa. E' il caso della Liberia, dove si sono dovuti integrare con la popolazione locale per formare oggi la nazione liberiana. Il nostro dovere è quello di riconoscere loro il diritto di ritornare nella terra dei loro avi. Attualmente il problema è quello di sapere come e chi sopporterà tutto questo peso».
La proposta di Wade è fantapolitica in un continente (e in Senegal) che esporta centinaia di migliaia di migranti disperati e profughi politici ed ambientali verso i Paesi sviluppati. Come farebbe l'Africa a sopportare l'arrivo di 6 milioni di haitiani? Che ne sarebbe di Haiti e di chi rimane? Cosa ne sanno gli haitiani che piangono, scavano e si sbranano per un pezzo di pane, qualche dollaro, una bottiglia d'acqua nelle macerie desolate ed insanguinate di Port-au-Prince, cosa ne sanno del Senegal e dell'Africa da cui furono strappati i loro avi centinaia di anni fa?
Cosa ne sa un popolo di analfabeti e di bambini degli avi, della negritudine, delle loro tribù ancestrali che popolavano regni tribali scomparsi, sostituiti sulle carte geografiche da Stati nazionali disegnati dai colonizzatori che preparavano il neocolonialismo?
Come si determinerà la provenienza di una popolazione, quella haitiana, frutto della mescolanza degli schiavi, di un meticciato nero che ha realizzato la prima nazione indipendente dei Caraibi?
Lo stesso esperimento della Liberia citato da Wadw come esempio è un realtà un fallimento dell'illuminismo colonialista statunitense: schiavi liberati che invadono un pezzo d'Africa, scortati dalle cannoniere Usa, per portare la civiltà. Un esperimento presto trasformatosi nell'oppressione delle popolazioni autoctone e che ha portato in seguito alle divisioni etniche e sociali che hanno devastato la Liberia con una interminabile guerra civile, che l'aveva ridotta ad uno stato fantasma in ostaggio di una dittatura di gangster omicidi e portata in fondo alle classifiche mondiali della povertà e del benessere.
Solo un intervento armato internazionale è riuscito a ristabilire la pace e la democrazia in un Paese terremotato dalla guerra interna almeno quanto Haiti lo è stata dal sisma.
Wade ha ragione quando richiama «La responsabilità storica dei Paesi europei nella deportazione degli africani ridotti in schiavitù nelle Americhe» ma poi si contraddice quando afferma di «Opporsi al principio della riparazione, perché la schiavitù è irreparabile».
Eppure, secondo quanto ha confermato alla stessa France Info il portavoce del presidente senegalese, Mamadou Bamba Ndiaye, il Senegal è pronto ad offrire delle terre ai richiedenti haitiani: «se ci sono delle persone, offriremo loro un tetto ed un pezzo di terra. Se vengono in massa gli daremo una regione».
Probabilmente si tratta di una trovata elettorale, il piccolo e povero Senegal non potrebbe reggere l'onda d'urto di più di 8 milioni di haitiani e nemmeno del milione e mezzo di senza tetto, delle centinaia di migliaia di orfani e bambini di strada che ci sarebbero a Port-au-Prince e nelle sue sterminate periferie ridotte in polvere.
I profughi ambientali del terremoto di Haiti sono blindati nelle loro frontiere dal blocco dominicano e dal cordone militare-sanitario che gli Usa stanno realizzando con il beneplacito dei "nemici" cubani, terrorizzati dalla possibile ondata di nuovi rifugiati che andrebbe ad ingrossare la già folta comunità haitiana dell'isola di Fidel Castro.
Probabilmente gli eredi degli schiavi vogliono solo rimanere nel loro sfortunato Paese, vogliono che i loro figli diventino orgogliosi haitiani in grado di leggere e scrivere, vogliono che le loro donne non muoiano di parto, vogliono una casa sicura, acqua potabile, un ambiente sano, vogliono liberarsi dal loro sanguinoso passato, dal loro presente senza speranza, dai ricordi di una schiavitù mai passata nemmeno con l'indipendenza. Non sognano l'Africa ancestrale di cui non sanno niente, sognano di rimanere a ricostruire una nuova Haiti dove la natura non sia crudele e devastata e gli uomini non si uccidano per il potere o per sopravvivere.
Probabilmente la ricetta giusta per far riscoprire agli haitiani le loro radici africane non è quella dell'esodo dall'olocausto sismico alla ricerca di una improbabile Sion nera, ma è in quel che ha detto il ministro degli esteri del piccolo Benin, una delle patrie ancestrali degli haitiani. «Il governo béninois si organizza in questo momento per mobilitare delle risorse, delle braccia valide che, in uno slancio volontario e solidaristico, apporteranno dei soccorsi concreti del popolo del Benin al popolo di Haiti gravemente colpito. Nelle attuali condizioni, l'urgenza per il popolo di Haiti sono i soccorsi, l'acqua, il cibo, le cure sanitarie, un'assistenza forte per la ricerca delle persone scomparse sotto le macerie... Lancio un appello alla comunità internazionale perché dia, quando sarà il momento, la sua assistenza e sostegno al governo del Benin affinché ci permetta di assicurare il convogliamento dei doni umanitari che avremo mobilitato a profitto dei fratelli haitiani e, più tardi, di apportare il nostro modesto contributo alle operazioni di ricostruzione di Haiti. Il popolo haitiano è legato all'Africa e particolarmente al Benin per legami di sangue e storici che fanno si che il popolo béninois sia molto costernato per il dramma che vive il popolo di Haiti che conosce quasi tutti gli anni delle catastrofi naturali sotto diverse forme».
Nessuna ingegneria sociale su vasta scala, nessuno spostamento di popoli e cedimento alla demagogia della schiavitù, ma l'impegno di un piccolo e poverissimo Paese dell'Africa ad aiutare i suoi discendenti americani con quel che può e come può. Quell'aiuto da sud a sud che potrebbe essere la chiave per la rinascita e la dignità dei Paesi più poveri.
Al riguardo, andate a leggere questo esaurientissimo post di Cairoli.
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