A dirlo è un autorevole giornalista e scrittore Maurizio Chierici, che intitola così un suo articolo apparso domenica 25 ottobre 2009, sul Fatto Quotidiano.
” Come la Cina in Asia, il Brasile sta “mangiando” l’America Latina. Padrone dei mercati, riserve invidiate dagli Stati Uniti, prestito di 10 miliardi di dollari al povero Fondo monetario in rosso. Dare soldi al Fmi vuol dire entrare nel salotto degli strateghi dell’economia universale e smetterla di chinare la testa alle regole spietate dei banchieri “bianchi e dagli occhi azzurri”, come ha ripetuto Lula sciogliendo la felicità di mezzo Brasile. Inflazione sotto controllo, parità col dollaro che è stabile anche se assieme a Cina, India e Sudafrica, Lula ha deciso di trasformare il dollaro in moneta di riferimento contabile. Ognuno regola i pagamenti come vuole. Un milione e 800mila nuovi posti di lavoro mentre la crisi svuota uffici e fabbriche del G8 o del G20. Comincia l’ ultimo anno felice per il presidente operaio: quel dito amputato da una pressa. Del presidente sindacalista finito nelle galere del regime militare. Dell’ex ragazzo arrivato a San Paolo dalla miseria di Pernambuco, tremila chilometri su un carro tirato dai buoi. Dopo 7 anni di governo mantiene un gradimento attorno all’80% eppure, nel rispetto della democrazia, rifiuta di riscrivere la Costituzione per correre alle elezioni e stravincere per la terza volta. Banche, imprenditori e Brasile dalle tasche vuote lo pretendono a gran voce, ma Lula non ci sta. “È l’uomo del momento”, ripete Obama.
E poi Lula saudita, quei giacimenti scoperti in mare. Solo Tupi, piattaforme nell’oceano di fronte a San Paolo, raccoglie in un guscio di sale (spessore 2 chilometri) 8 miliardi di barili di un petrolio leggero come il light di Gheddafi. Tanto che dopo aver inventato la benzina rinnovabile succhiata da canna da zucchero, e aver fatto marciare milioni di auto con tecnologia che tutti stanno copiando, il Brasile torna alla benzina normale. Se lo può permettere. “Per salvare l’Amazzonia”,spiega fra gli applausi. Anche se le piantagioni di soia continuano a divorarla. Nei suoi anni di regno 20 milioni di brasiliani sono usciti dalla fame col programma Bolsa Familia. Ma l’analfabetismo resiste, le scuola non bastano perché paese-continente disuguale e con angoli di una disperazione che noi chiudiamo nella parola favela. Non è proprio così: i senza terra lottano per la dignità negata nelle campagne del latifondo, e i meninos do rua muoiono come mosche. Droga, squadre della morte e scontri con le polizie speciali che in questi giorni stanno “ripulendo” Rio: deve sembrare una città tranquilla. Campionati del mondo di calcio, 2014; Olimpiadi 2016. Il paese dove lo sport è religione, prepara l’immagine di una felicità senza crepe, per il momento ancora tante. La novità cresciuta con Lula è l’allargarsi di una piccola borghesia inimmaginabile a metà del Novanta. Insomma, il Brasile corre trascinando il resto del continente latino dove fioriscono governi che Lula ritiene “obsoleti”. Il socialismo del XXIesimo secolo che infiamma Chavez e una certa resistenza alla poltrona che allunga a consumo i mandati presidenziali in Colombia, Bolivia Nicaragua, Equador: naturalmente Venezuela. Svuotato il Messico, “paese sull’orlo del fallimento”, la tutela del Brasile si allarga all’America Centrale. Manovra la crisi dell’Honduras accogliendo nell’ambasciata di Tegucigalpa il presidente Zelaya travolto dal golpe organizzato dalle ombre dei servizi Usa che non digeriscono Obama.
Ma il Lula che tutti amano sta scivolando nella retorica di un’autocelebrazione alla quale erano sfuggiti non solo i presidenti delle democrazie tranquille, anche gli uomini dal pugno duro. Stalin (innamorato del cinema) non aveva voluto che un attore si mettesse i suoi baffi. Mai un film su Castro, se non l’intervista di Oliver Stone. Mai su Pinochet. Mai su Mao. Quando sedevano nella poltrona che conta, i capi di stato impedivano si girasse un racconto della loro vita. Lula ci è cascato. Per ragioni elettorali. Nel 2010 il suo Partito dei Lavoratori (Pt) presenterà, al suo posto, Dilma Rousseff, ex guerrigliera e spalla fedele del presidente, dicastero economico al governo: ha appena annunciato di essere guarita da un cancro. Contemporaneamente fa sapere che la bilancia commerciale chiude con 29 miliardi di dollari d’attivo. Brava, ma non basta. Manca del carisma di chi sta per lasciare. Parla come una professoressa noiosa. I rischi possono essere tanti anche con Lula apripista. Ecco l’idea del film. I produttori privati hanno fiutato l’affare perché il governo promette una distribuzione mai sognata dai mercanti di cinema.“Lula figlio del Brasile” verrà distribuito in 400 sale e proiettato su schermi itineranti in ogni angolo del paese: dalle campagne di Rio Grande del Sud, all’ultimo villaggio dell’Amazzonia. Non è tutto. Si sta lavorando per spezzettarlo in una mini serie tv in onda su Rede Globo di Roberto Marinho per anni avversario spietato di Lula e ora accodato al trionfo. Rede Globo si è allargata, come nessuna tv delle americhe, per volere dei governi militari. Il vecchio Marinho padre eleggeva i presidenti facendo parlare solo i propri candidati e solo tra una partita di calcio e la telenovela sciacquacuori. Il copione su Lula si ferma al compimento dei 34 anni quando esce di prigione e fonda il Partito dei Lavoratori. Storia di una piccola famiglia: lui, la madre, la moglie, i fratelli. Storia nella quale si specchiano milioni di brasiliani. Il Lula di celluloide è Rui Ricardo Dias. Dieci milioni di sindacalisti sono mobilitati per scaldare un interesse già bollente. La destra di Josè Serra, governatore di SanPaolo, sconfitto da Lula alle presidenziali ma con l’idea di candidarsi alle prossime, protesta inquieta. Parole nel vuoto. Perché la folla conta i giorni che mancano al 1° gennaio quando il film apparirà ovunque. Lula, la moglie e Dilma Rousseff in prima fila.”
Nessun commento:
Posta un commento