giovedì 30 giugno 2011

LA MILITARIZZAZIONE DI ONU E STATI UNITI AD HAITI

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A Porto Principe, la capitale di Haiti devastata dal terremoto del 12 gennaio 2010 che ha fatto 250mila vittime, gli Stati Uniti mantengono la loro quarta ambasciata più grande del mondo. Due giorni dopo il terremoto migliaia di marines partirono armati fino ai denti per una “missione umanitaria” nella capitale haitiana, si stabilirono dapprima nell’aeroporto Toussaint-Louverture e poi in numerosi campi di sfollati sparsi per la città. Il principale era (ed è) quello di Delmas-Petion Ville, un’enorme tendopoli da 60mila persone che ospita sessantamila persone stipate in un ex campo da golf, costruito dai marines per lo svago delle classi agiate di Port-au-Prince durante la prima occupazione americana di Haiti nel ventennio 1915-1934. Fatto sta che alla fine di gennaio c’erano già oltre 20mila soldati americani operativi nei punti strategici della città per tenere sotto controllo la situazione, la distribuzione di aiuti languiva e il campo Delmas era passato sotto l’egida dell’esercito Usa e dell’Ong Catolic Relief Service patrocinata dall’attore Sean Penn. Dal canto suo la famigerata Minustah, cioè la missione dei caschi blu dell’Onu per la “stabilizzazione di Haiti”, è la terza per importanza nel mondo tra tutte le missioni delle Nazioni Unite e sull’isola s’incarica del controllo militare e svolge funzioni di polizia da ormai 7 anni.
Esattamente da quando l’ex presidente Jean-Bertrande Aristide, rientrato 4 mesi fa ad Haiti dopo un esilio nella Repubblica Sudafricana, venne costretto il 28 febbraio 2004 a lasciare il paese e la presidenza in seguito all’esplosione di “ribellioni popolari”, sobillate da oppositori politici e settori legati a potenze straniere (in primis, Usa e Francia), e un vero e proprio colpo di Stato ai suoi danni (linea della storia e rassegna qui).
Ma la storia della militarizzazione Onu e Usa di Haiti non comincia di certo nel 2004 dato che la politica coloniale statunitense nei Caraibi ha radici secolari ormai. Dall’ottobre scorso Haiti, il paese più povero dell’emisfero occidentale, è stata colpita anche da un’epidemia di colera tuttora in corso che ha fatto 5.300 morti e circa 350mila contagi. Oltre alle sciagure e alle catastrofi naturali ci si mettono anche la potente ambasciata statunitense e gli interessi economici delle onnipresenti compagnie petrolifere Exxon e Chevron a rendere impossibile la vita agli haitiani.
Lo tornano a dimostrare i reportage, basati su oltre 19mila cabli rivelati da WikiLeaks, dei due giornalisti del settimanale Haiti Liberté, Kim Ives e Dan Coughlin. Hanno infatti analizzato i “PetroCaribe Files”, cioè i cavi relativi alle pressioni statunitensi contro l’accordo petrolifero ed energetico promosso dal Venezuela ad Haiti che, come la stessa ambasciata Usa ha ammesso, risulta essere profondamente benefico per il popolo dell’isola. Ha dichiarato Ives che “è davvero stupefacente vedere un ambasciatore [degli Stati Uniti] che manipola un presidente e tutti i suoi funzionari dicendo loro cosa fare, che loro non capiscono questo e quello, cercando di dire loro quali sono gli interessi di Haiti. E’ l’apice dell’arroganza”. Potete approfondire il tema qui-Link a intervista e reportage, spero proprio di parlarne presto. Ma partiamo dal passato e restiamo alla militarizzazione e alle “forze di pace”.

La Minustah ad Haiti. Il 15 ottobre scorso, in virtù del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, i quindici membri del Consiglio di Sicurezza, un organo che prende le sue decisioni più rilevanti con la maggioranza qualificata di 9 voti su 15 a patto che vi sia comunque il voto unanime dei cinque membri permanenti, cioè Cina, Usa, Russia, Francia e Regno Unito, ha deciso di rinnovare per un anno il mandato della Missione ONU ad Haiti. La composizione attuale di questa missione è di 8940 soldati e 4391 poliziotti sotto la responsabilità rispettivamente del generale brasiliano Luiz Guilherme Paul Cruz e del generale argentino Geraldo Chaumont.

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Il contingente brasiliano è il più imponente dato che il paese sudamericano fornisce un totale di 2600 uomini alla missione che costano alle casse statali oltre settanta milioni di dollari all’anno. D’altro canto, secondo il sito web ufficiale dell’ONU, il budget totale a carico delle Nazioni Unite per le operazioni della MINUSTAH, nel periodo che va dal primo luglio 2010 al 30 giugno 2011, è di 380 milioni di dollari, circa il 5,2% delle spese totali per le operazioni di peacekeeping nel mondo. Alcune fonti giornalistiche riportano la cifra di 600 milioni dollari annui, probabilmente basandosi su possibili rettifiche più recenti rispetto al bilancio approvato il giugno scorso e sul fatto che i fondi stanziati sono cresciuti a causa dell’invio di un crescente numero di soldati per le complicazioni post-terremoto, per il monitoraggio delle prossime elezioni e per la lotta alle bande del crimine organizzato ricostituitesi dopo i mesi più pesanti della crisi umanitaria (LINK).

Le origini. La partecipazione delle Nazioni Unite ad Haiti cominciò nel febbraio 1993 con un’operazione congiunta dell’OAS (Organizzazione Stati Americani) e dell’ONU che venne poi riconfermata dal Consiglio di Sicurezza nel mese di settembre sotto la sigla UNMIH (Missione delle Nazioni Unite ad Haiti). Questa non si dispiegò pienamente e non funzionò fino al 1995 per la mancanza di cooperazione delle autorità militari haitiane che, in quella fase, stavano spalleggiando il golpe attuato il 29 settembre 1991 dal generale Raoul Cèdras ai danni del presidente Jean-Bertrande Aristide, vincitore alle elezioni del dicembre 1990. Nel luglio 1994 il Consiglio di Sicurezza autorizzò l’invio di una forza multinazionale di ventimila soldati per permettere il ritorno di Aristide e mantenere un clima di stabilità e relativa legalità. Tra il 1994 e il 2001 si sono susseguite diverse iniziative militari delle Nazioni Unite oltre alla UNMIH: la UNSMIH (Missione d’Appoggio delle Nazioni unite ad Haiti), la UNTMIH (Missione di Transizione della Nazioni Unite ad Haiti) e la MIPONUH (Missione di Polizia delle Nazioni Unite ad Haiti).
Infine nel febbraio 2004 viene autorizzata la MIF (Forza Multinazionale Provvisoria) poi sostituita, dal primo giugno di quell’anno, dalla MINUSTAH che secondo la risoluzione 1542 ha, tra le altre, le funzioni di mantenere l’ordine costituzionale e la sicurezza dei cittadini, supportare i processi democratici e le organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo, favorire i processi di disarmo della popolazione e la riforma della polizia haitiana. Coi successivi rinnovi del mandato la missione è venuta ad acquisire ulteriori funzioni legate alla cambiante congiuntura socio-politica del paese e, in particolare dopo il sisma in cui anche 159 caschi blu hanno perso la vita, le sono stati affidati compiti di protezione della popolazione, di aiuto alla ricostruzione e di supporto al governo haitiano per lo svolgimento delle elezioni del 28 novembre 2010 e la riforma della giustizia.

Presenza controversa. All’atto pratico, però, come succede ogni qual volta si verifica una contrapposizione tra i cittadini comuni e gli organi detentori dell’uso legittimo della forza, siano essi la polizia, l’esercito o le forze straniere, le violazioni dei diritti umani da parte delle diverse autorità operative sono state, purtroppo, un tema ricorrente nel giudicare l’operato de governi e presidenti votati dal popolo ad Haiti ma pure quello dei militari dell’ONU che, in pratica, sono venuti ad assumere funzioni di polizia e difesa militare in compartecipazione (a volte in contrapposizione) con i corrispondenti apparati nazionali. Perciò non mancano settori importanti della società civile di Haiti che rifiutano categoricamente la presenza di truppe straniere, definendole come il “braccio armato della democrazia” o semplicemente come corpi estranei per giunta anticostituzionali. E hanno le loro buone ragioni.
Rappresenterebbero, inoltre, un sintomo della mancanza di piani concreti e ambizioni chiare per il paese e quindi i movimenti sociali di base manifestano puntualmente il loro dissenso dopo ogni rinnovo annuale concesso alla missione. Esiste anche un “Comitato Anti-Occupazione” formato da decine di gruppi, partiti e sindacati che ha documentato in una mostra fotografica, esposta nell’ottobre 2010 presso la Scuola Universitaria di Etnologia, gli abusi e i crimini per cui s’attribuiscono responsabilità gravi alla MINUSTAH. Lo stesso ex-presidente Prèval, rilevato dal cantante Michel Martelly il 14 aprile 2011, cosciente del grave deficit di sovranità e di legittimità del suo governo, aveva promesso che prima della fine del suo mandato avrebbe firmato l’atto di conclusione della missione ONU ma l’emergenza costante di un’isola e di un popolo privi del controllo delle proprie risorse, di una rotta chiara e di una leadership credibile l’hanno fatto ritornare su sui passi.

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Il contesto storico all’arrivo della MINUSTAH. Il duo formato dal presidente ad interim Boniface Alexandre e dal suo primo ministro Gerard Latortue restò per due anni al potere ad Haiti, dopo che il presidente Jean-Bertrande Aristide, alla metà del suo secondo mandato, fu deportato nella Repubblica Sudafricana il 29 febbraio 2004. Una versione politicamente corretta dei fatti di quelle caotiche settimane, tra gennaio e febbraio 2004, in voga nell’establishment haitiano e promossa dalle fonti ufficiali statunitensi, ritiene che Aristide si sia dimesso spontaneamente in seguito a una crisi istituzionale e che quindi si sia dichiarato impotente di fronte a una lunga serie di ribellioni sfuggitegli di mano nel nord del paese e a Porto Principe. In realtà le operazioni di finanziamento e fornitura di armi in favore dei ribelli e una buona parte della propaganda antigovernativa vennero pianificate e dirette dalla CIA (Central Intelligence Agency) e da altre agenzie straniere.
Dunque il golpe fu preceduto da mesi di destabilizzazione e crisi provocate da queste bande di paramilitari “ribelli” e da vari elementi dell’opposizione extraparlamentare legati alla stessa CIA, all’IRI (International Republican Institute) e a settori conservatori europei, vicini alla Francia del presidente Jaques Chirac e Nicolas Sarkozy (in quell’epoca ministro degli interni): il principale era il gruppo 184 o G184, un’ambigua organizzazione per la “difesa dei diritti umani” che ha funzionato, in realtà, come un’agenzia d’azione politica anche con i finanziamenti approvati in passato dalla Commissione Europea. L’IRI, dal canto suo, è un’emanazione del governo statunitense che venne creata da Ronald Reagan negli anni ottanta con l’obiettivo di esportare la democrazia nel resto del mondo ed è ancora oggi finanziata con denaro pubblico dei tax payers USA.
E’ un’istituzione politica che ha realizzato sistematicamente un’opera dubbia e controversa riguardo all’ordine democratico ad Haiti, specialmente durante la gestione di Stanley Lucas, rappresentante dell’agenzia sull’isola. La controparte dell’IRI, legata al partito democratico statunitense, è l’NDI (National Democratic Institute) che, almeno nel caso di Haiti, è ritenuto un interlocutore più imparziale dal momento che ha lavorato con diverse parti politiche, incluso il partito Lavalas di Aristide. Entrambe sono finanziate all’interno del programma conosciuto come National Endowment for Democracy o NED.

Dopo i marines, la MINUSTAH. Dopo alcuni mesi d’occupazione militare da parte della Forza Provvisoria delle Nazioni Unite, composta da mille marines statunitensi e dalle truppe francesi, canadesi e cilene, nel giugno 2004 sono entrati in funzione i primi settemila caschi blu della MINUSTAH. Sebbene questa sia sotto il comando militare del Brasile, deve ottenere i finanziamenti e i mandati per operare dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ed è gestita da un consiglio direttivo di cui fanno parte, per il coordinamento strategico e organizzativo, il guatemalteco Edmond Mulet, lo statunitense Kevin Kennedy e il canadese Nigel Fisher (Canada) e, per gli aspetti militari e di polizia, il Gen. Luiz Guilherme Paul Cruz (Brasile) e il Gen. Geraldo Chaumont (Argentina). Dunque sin dall’inizio l’affidamento al Brasile del comando delle operazioni delle Nazioni Unite ad Haiti sembrava rispondere più a delle esigenze d’immagine, per mostrare un relativo equilibrio tra i paesi coinvolti, e di presenza dell’emergente potenza sudamericana che a un effettiva messa in discussione della tradizionale presenza yankee nella regione.

War by proxy e stragi di Gran Ravine. In questo contesto cominciò ad attuarsi una guerra d’approssimazione (o “war by proxy”, cioè colpire zone e persone vicine agli obiettivi reali per disarticolare il tessuto sociale e fisico circostante) e avvenne l’esecuzione di una serie di stragi, conosciute come i massacri di Gran Ravine contro innocenti simpatizzanti di Aristide e semplici cittadini, da parte della polizia haitiana comandata da Carlo Lochard e dai gruppi paramilitari noti come Lame Timanchet (“l’armata del piccolo machete”).
Questi gruppi potevano agire relativamente indisturbati grazie alla connivenza delle autorità al potere dopo il golpe del 2004 e, secondo alcuni media, anche grazie all’indifferenza e alle scarse capacità operative iniziali della MINUSTAH. Il 20 agosto 2005 ben cinquanta persone sospettate di essere attivisti del partito Fanmi Lavalas furono massacrate nello stadio Martissant di Porto Principe durante uno spettacolo cui presenziavano circa cinquemila spettatori. Molte vittime sono state freddate solo perché cercavano di mettersi in salvo e non per aver difeso con le armi una determinata fede politica o essersi ribellate alla polizia: si trattava chiaramente di un avvertimento generico ma tragicamente efficace rivolto dalle autorità alla popolazione del quartiere. Il giorno seguente cinque persone della zona di Gran Ravine vennero bruciate nelle loro case (LINK reportage)
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In seguito alle segnalazioni e ai contatti diretti presi coi vertici della MINUSTAH da parte di organizzazioni autonome fortemente presenti sul territorio come l’haitiana Aumohd (Associazione di Unità Motivate da un’Haiti dei Diritti) e la sua partner statunitense Hurah-Inc (Accompagnamento per i Diritti dell’Uomo ad Haiti), un distaccamento di caschi blu cominciò a presidiare il quartiere e le case di alcuni militanti reputati ad alto rischio di aggressione mentre gli avvocati di Aumohd organizzavano incontri nel quartiere tra gruppi armati di fazioni rivali per proporre un dialogo pacifico e una riconciliazione (http://aumohddwamoun.blogspot.com/e http://hurah.org/). Tutto ciò evitò nuove stragi per qualche mese, ma il 7 luglio 2006 i membri di Lame Timanchet ruppero la tregua con la terza grande mattanza che lasciò un saldo di ventisei vittime, trecento abitazioni bruciate e duemila sfollati. L’Aumohd è stata l’unica associazione che ha difeso le vittime di queste stragi ed è riuscita a far incarcerare quindici poliziotti colpevoli di quei fatti.

MINUSTAH a Citè Soleil ed eserciti stranieri ad Haiti. I caschi blu hanno avuto sin dall’inizio un ruolo contraddittorio e sono stati accusati di numerosi omicidi e violazioni dei diritti umani che furono, in buona parte, ammessi dal comandante brasiliano dimissionario, il generale Augusto Heleno Ribeiro Pereira, nel 2005 quando dichiarò che la MINUSTAH riceveva pressioni da paesi come la Francia, gli USA e il Canada per fare maggior uso della violenza contro alcune presunte gang di criminali che, secondo le loro informazioni e gli appelli del governo, dominavano completamente le periferie della capitale come il famoso slum di Citè Soleil.
Di fatto, alla fine del 2006, il presidente Renè Preval concesse espressamente ai militari delle Nazioni Unite di svolgere compiti repressivi e d’intelligence nei quartieri poveri, specialmente a Citè Soleil, uno dei bastioni politici di Aristide, contro delle presunte bande di delinquenti non meglio identificate. Il risultato fu che si diede il via libera a una delle peggiori repressioni indiscriminate vissute dal paese negli ultimi anni e si commisero molti errori e confusioni tra criminali comuni, militanti politici e normali cittadini nella compilazione delle liste che servivano da guida per le operazioni.

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Una parte di queste “bande” o presunte mafie veniva in realtà identificata con dei gruppi di cittadini auto organizzati legati all’ex presidente esiliato e, sebbene fosse certa anche la presenza di gruppi di criminali “veri” in quei quartieri, i metodi repressivi utilizzati dalla MINUSTAH, consistenti in bombardamenti con cannoni e sfondamenti con carri armati come in vere e proprie operazioni di guerra, fecero numerose vittime innocenti, sconvolsero brutalmente tutta la popolazione, annichilendone ogni capacità d’organizzazione civile, e contribuirono ad alimentare il falso mito di una città e di un popolo violenti e selvaggi che hanno bisogno degli eserciti stranieri per sopravvivere.
Questo mito è stato rielaborato e di nuovo diffuso dopo il terremoto dai media e dai vertici militari stranieri, soprattutto americani, per giustificare l’invio massiccio di uomini armati e mezzi pesanti quando in realtà Porto Principe non è più pericolosa di altre megalopoli latino americane e, invece, ha saputo vivere e gestire in modo relativamente pacifico e ordinato l’immenso dramma che l’ha colpita.
Alla luce di tutto ciò gli haitiani si sono chiesti legittimamente per mesi e mesi come mai gli aiuti umanitari venissero accompagnati da un gran numero di marines e dall’esercito USA (ventiduemila soldati inviati in gennaio, poi ridotti a tredicimila unità nell’aprile 2010), dalla gendarmeria francese e addirittura dai carabinieri e dai soldati italiani quando già esiste una forza internazionale come la MINUSTAH. Di nuovo i caschi blu sono stati al centro delle accuse della gente e dei media quando alcuni ricercatori hanno confermato il sospetto che fosse stato il contingente nepalese a reintrodurre sull’isola il colera che ad oggi ha provocato quasi 6000 vittime e centinaia di migliaia di contagi in tutto il paese dopo l’epidemia scoppiata nell’ottobre del 2010.
Nel momento in cui si devono prendere decisioni economiche e politiche veramente rilevanti per il destino del paese e si devono affrontare scelte strategiche sull’uso delle risorse fornite da governi terzi coinvolti nello scacchiere haitiano, oltre che da agenzie internazionali influenzate da questi, entrano in gioco altre logiche di potere e di controllo che esulano dalla presenza, dal comando e dalle funzioni assegnate agli organi multilaterali come l’ONU e il suo “braccio militare”, la MINUSTAH, per allargare, invece, la sfera decisionale agli interlocutori più influenti e con maggiori elementi di hard power (potere duro di tipo militare ed economico) presenti sul campo.
Nota. Una versione più vecchia e rivista di questo articolo è stata pubblicata sul numero speciale dedicato ad Haiti della rivista Il Tolomeo di Ca’ Foscari, Università di Venezia (link)
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>Fabrizio Lorusso

mercoledì 29 giugno 2011

QUANTO COSTA VERAMENTE L’ORO CHE INDOSSIAMO?

Un documentario svela la tragica situazione nelle quale lavorano i minori per l’estrazione del metallo più prezioso


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No place for a child: Massire Sijnate, 16, descends into a shaft at a gold mine near the village of Tenkoto, Senegal

Quanto costa veramente l’oro che indossiamo? E’ il tema di un documentario di Channel 4, rete televisiva britannica, che ha indagato sulla produzione industriale dell’oro. La scoperta non è certo piacevole, perchè nella lavorazione del metallo più preziosol’impiego di bambini è comune, e i poveri minori scavano in condizioni molto pericolose per la loro salute.

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Bleak future: A boy aged about five pans for gold

GIOIELLI CON LE SOFFERENZE DEI BIMBI -Le miniere d’oro dove vengono assunti i piccoli si trovano in Sud America ed in Africa. Tra di loro si trovano casi drammatici, di ragazzini costretti a subire costanti mal di testa, dolori fisici e altri malori provocati dalle condizioni di lavoro che non rispettano gli standard minimi di tutela della salute. “Quando vado alla miniera devo arrampicarmi verso il basso, e iniziare a scavare. E’ tutto caldissimo giù là, e rompere le rocce è molto difficile, e il più grande pericolo è il crollo dei muri, che sono molto instabili”. Secondo il documentario di Channel 4 miniere come quelle del Senegal dove lavora il piccolo Djimba Sidibe producono tra il 10 e il 30% dell’oro che circola a livello mondiale.

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Paying the price: Tenen Sacko, 11, pauses while panning for gold, at the Kansogolenfa mine in the Fatoya region of Guinea

PERICOLI PER LA SALUTE – Durante il processo di estrazione e lavorazione vengono impiegate sostanze tossiche come il mercurio o il piombo, che poi si riscontrano nel sangue dei minatori in quantità molto pericolose. Circostanze che spesso vengono negate dai produttori, che non vogliono far sapere ai consumatori occidentali in che condizioni vengono prodotti i gioielli che si indossano tanto nella quotidianità quanto nei giorni di festa. Il documentario mostra comunque come quantomeno nel Regno Unito esistano dei processi di verifica sulla provenienza dell’oro, che servono a scoraggiare il commercio di metallo prezioso prodotto in condizioni inumane. Anche in Italia bisognerebbe chiedersi da dove proviene il nostro oro, visto quello che sono costretti a subire gli innocenti che lavorano per produrlo
Fonte

martedì 28 giugno 2011

VOI SIETE TRISTI E NON SAPETE PERCHÉ

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"Voi siete tristi e non sapete perché. Se non è gioconda la giovinezza, quale altra età della vita potrà esser gioconda? La vostra giovinezza è come una pianta cui siano contrarii il clima e il suolo. Voi siete tristi della tristezza di questa nostra civiltà cupa e feroce, non meno infesta ai giovani che ai vecchi. Ai vecchi, cui già natura scema il vigore, essa, la civiltà, col tumulto della sua foga incalzante, con l'asprezza de' suoi congegni, con l'oppressione della sua congerie, nega il riposo, mozza il respiro, affretta la morte. Ai giovani ruba la giovinezza, scerpa il fior della vita. Voi sentite di morire alla giovinezza prima ancora d'averla assaporata. L'anima vostra si oscura e si sfredda, non avete più né tempo, né voglia, di sognare e d'amare. Prima coloro che vi misero al mondo, poi coloro che vi ammaestrano, non vi sanno parlare d'altro che della necessità di tirare al guadagno, di assicurarsi un posto, di buttar via le illusioni, e di far presto. Prendete in avversione la casa e la scuola. Chiedete una parola di vita, e non l'udite da nessuna parte. Le religioni, con voci di oracoli spenti, con richiami di miti morti, vi parlano un linguaggio che voi non potete più intendere. La filosofia discute alla vostra presenza un numero stragrande di cose che non vi giovano e non v'importano, e si scorda di dirvi come e perché dovete vivere, quale sia il senso e il valor della vita. La scienza vi ammonisce che mondo fisico e mondo morale soggiacciono a una stessa necessità, eterna e ineluttabile, che tutto si riduce a meccanismo, che voi medesimi non siete se non automi, e che non vi sono valori nel mondo, ma soltanto fatti e leggi. L'arte, da ultimo, vi dichiara che essa ha da attendere a sé e non a voi; che nulla essa ha da spartire con gli altri interessi umani. Se volete, senza che altri vi soccorra, misurare le vostre forze, penetrare in voi stessi, conoscervi, il tempo vi manca, o l'inquietezza vi turba, o il frastuono v'assorda.
Vi affacciate a questa scena del mondo, e quale spettacolo vi si offre? Uno spettacolo voi non sapete se più doloroso, o più laido, o più grottesco. Cercate di darvi ragione di ciò che vedete, e non ci riuscite. Chiedete a voi stessi se la civiltà abbia per iscopo di esaltare l'umana natura ovvero di deprimerla. Imparate a conoscere la terribile schiavitù del libero cittadino, l'atroce miseria del popolo sovrano. Vi sentite avvinghiati, premuti, travolti; e in quella che date tutte le vostre forze alla comune opera interminabile, che, pure essendo comune, è tutta tramata di rivalità e di conflitti; e mentre vi logorate nella cotidiana fatica del fare, disfare, rifare; vi avvelena l'anima un dubbio amaro, se non pure la disperata certezza, della inutilità dell'opera vostra e dell'altrui e di ogni possibile opera. Sentite che la macchina immane che abbiam costruita ci stritola; che le cose prodotte a giovamento delle persone affogano le persone: e nella età in cui più dovrebbe parer lieta la vita, molti di voi desiderano di non essere nati."
Arturo Graf

lunedì 27 giugno 2011

I PAESI CHE ODIANO LE DONNE

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(Sulla carta collegati dalla linea rossa i paesi con la maggiore violenza sulle donne. La base della carta è tratta da Limes 2/2010. Vai alla carta originale)

È un arco di violenza che si inserisce in un arco di crisi più ampio. Afghanistan, RD Congo, Pakistan, India e Somalia sono i paesi più pericolosi per le donne, secondo la Fondazione TrustLaw. Assassinii (a volte per motivi “d’onore”), violenze – sessuali e non – sono tra i crimini più frequenti contro le donne.
L’Afghanistan è il posto al mondo più pericoloso per le donne. Ovviamente la guerra in corso (e i trent’anni precedenti di guerra civile e altri conflitti) sono una delle ragioni, cui si aggiungono tradizioni e usi locali spesso connessi con vere o presunte motivazioni religiose.
Bibi Aisha aveva 12 anni quando si è sposata e il marito l’ha picchiata sin dal primo giorno. Quando ha provato a fuggire il marito taliban, assieme ad altri uomini, l’ha portata sulle montagne e le ha tagliato il naso, le orecchie e i capelli. Vedi il reportage su National Geographic Ribellione velata in Afghanistan (attenzione immagini forti).
Ma non è solo questioni di taliban. In tutto l’Afghanistan le donne non se la passano bene. Nella Kabul “liberata” e sotto “controllo” occidentale da quasi dieci anni è normalissimo vedere uomini che fanno viaggiare le donne nel portabagaglio dell’auto.
Secondo il rapporto in Afghanistan l’87% delle donne sono analfabete e il 70-80% per cento sono costrette a matrimoni forzati. Una su 11 poi non sopravvive alla nascita.
In Congo si è saputo l’altro giorno di 100 donne violentate una decina di giorni fa a Fizi nel Kivu meridionale, nel corso di un assalto da parte di un gruppo di ribelli. Leggi anche su repubblica.it Congo, stupri di massa, violenze e razzie.
Le stime sono difficili da calcolare e lasciano il tempo che trovano ma l’American Journal of Public Health ha stimato in oltre mille le donne che giorno subiscono gravi violenze in Congo.
Nella Repubblica democratica del Congo sono stati milioni i morti della cosiddetta guerra civile, in realtà “la prima guerra mondiale africana” che ha visto il coinvolgimento di quasi tutti i vicini, combattuta dal 1998 al 2003. In verità, nonostante gli accordi, si combatte ancora nel Congo orientale dove non si riesce a controllare gruppi ribelli, bande criminali, disertori, in parte reduci del genocidio ruandese, e che vivono di saccheggi e di sfruttamento delle risorse minerali congolesi.
In Pakistan pratiche tribali/culturali/religiose segnano irrimediabilmente la vita delle donne: violenze di tutti i tipi, anche con acidi, matrimoni forzati. Secondo la commissione dei diritti umani in Pakistan sono oltre mille le donne pachistane vittime di omicidi d’onore. Il 90% delle donne subirebbe poi violenze domestiche.
I matrimoni forzati sono purtroppo ancora molto diffusi non solo in Pakistan e India, ma anche in tutta la regione. Vedi il reportage Spose bambine su National Geographic.
In India per certi versi la situazione ricorda quella del Pakistan, forse la situazione è migliore, ma comunque colpisce che il problema riguarda quella che è considerata la più grande democrazia del mondo e il paese che si appresta a diventare quello più popoloso, visto che tallona la Cina. Molte bambine vengono addirittura uccise alla nascita o si procede all’aborto quando si scopre che non sarà un maschio. Secondo la Reuters in base alle statistiche in India “mancano” circa 50 milioni di donne rispetto a quelle che dovrebbero esserci senza la “correzione” statistica apportata da queste uccisioni e aborti.
Al quinto posto la Somalia non è una sorpresa. Anzi lo è solo perché è così in basso in classifica, considerato che lo stato fallito per eccellenza somma l’endemica situazione di guerra a pratiche culturali/tribali/religiose. Qui è molto alta la mortalità delle donne durante il parto ed è molto diffusa la pratica delle mutilazioni genitali alle donne.
La classifica è stata stilata sulla base dei pareri di 213 esperti che hanno espresso delle valutazioni su sei fattori considerati fondamentali. Per i dettagli leggi Reuters/alernet oppure Bbc.
Certo – anticipo delle possibili obiezioni – è vero anche da noi fino a pochi decenni fa le donne erano discriminate e spesso maltrattate (in parte lo sono ancora oggi) e i diritti delle donne sono state una conquista recente e “occidentale”. Quindi forse siamo noi l’eccezione e la regola è invece un mondo anche legato a pratiche medioevali, ma qui c’è qualcosa di più.
Colpisce che quattro dei cinque primi paesi di questa triste classifica gravitino sull’area dell’Oceano Indiano (4 vi si affacciano), un’area geopolitica che noi stentiamo a considerare come tale (nel nostro immaginario il corno d’Africa è in Africa, la penisola arabica in Medio Oriente e il subcontinente indiano in Asia) e spesso dimentichiamo che invece numerosi sono i collegamenti storici, culturali, economici e commerciali lungo queste coste. Qui ci sono gran parte delle riserve di greggio e gas, su queste rotte viaggia il petrolio necessario a tanti paesi (Cina e Giappone prima di tutti), Pakistan e India sono potenze nucleari. Insomma è un’area già fondamentale e che sarà sempre più importante nel futuro (e purtroppo piena di conflitti). E purtroppo è una regione di violenze sulle donne.
Per approfondire vedi anche i volumi di Limes: Pianeta India e Cindia, la sfida del secolo
Fonte

giovedì 23 giugno 2011

TRE MESI DOPO IN GIAPPONE…

Japan continues to deal with the enormous task of cleaning up and moving forward three months after the 9.0 earthquake and tsunami that devastated the northeast coast. Local authorities are still dealing with the damaged Fukushima Daiichi Nuclear Power Plant, and now the rainy season, which could increase the risk of disease as workers clear away the debris, is approaching. Collected here are images from this past weekend marking the three-month point, as well then-and-now images of the destruction shot by Kyodo News via the Associated Press. -- Lloyd Young


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Vehicles drive through the tsunami-hit area, three months and two days after the magnitude 9.0 earthquake and subsequent tsunami on June 13, 2011 in Natori, Miyagi, Japan. Japanese government has been struggling to deal in the aftermath of the disaster and the problems affecting the damaged Fukushima Daiichi Nuclear Power Plant. Authorities are preparing for an increased risk of viral and infectious disease as delays in the clearing the debris combine with the arrival of Japan's humid, rainy season. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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Kaisei Kubota and his grandmother Yae pray for victims in an area devastated by a tsunami in Miyako, Iwate prefecture, northeastern Japan, on Saturday June 11. Kaisei's father, a voluntary firefighter manning a water gate of a coastal levee, was killed after being swept away by a tsunami on March 11. (Kyodo News/Associated Press)

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A man walks through the debris as the Japanese national flag flies on June 12, 2011 in Otsuchi, Iwate, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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Debris is scattered on June 12, 2011 in Otsuchi, Iwate, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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A resident, evacuated from Namie town, right, undergoes a screening test for possible nuclear radiation after a brief visit to her home in the 20-kilometer exclusion zone around Tokyo Electric Power Co.'s Fukushima Dai-Ichi nuclear power station, in Minami Soma, Fukushima prefecture, Japan, on Saturday, June 11, 2011. Minami Soma was among the worst-affected when a tsunami that followed a magnitude-9 earthquake knocked out power at Tokyo Electric Power Co.'s Fukushima Dai-Ichi nuclear plant, sending three reactors into meltdown and causing radiation to leak ever since. About 80 percent of the city is within a 30-kilometer restriction zone around the plant, while 4,100 households lived in a full evacuation zone set up by the government within 20 kilometers of the plant. (Tomohiro Ohsumi/Bloomberg)

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A broken picture frame is left in the tsunami-hit Arahama area, three months and two days after the magnitude 9.0 earthquake and subsequent tsunami on June 13, 2011 in Sendai, Miyagi, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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People sit on the ground amongst the debris on June 11, 2011 in Minamisanriku, Miyagi, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

clip_image008The remaining destroyed buildings stand in the tsunami-hit area on June 12, 2011 in Otsuchi, Iwate, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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Japan's Prime Minister Naoto Kan attends the Lower House special committee on reconstruction from the March 11 earthquake and tsunami in Tokyo June 14, 2011. Japan's cabinet approved a draft law to help Tokyo Electric Power pay billions of dollars in compensation to its radiation refugees, kicking off lawmaker wrangling that may take weeks to decide the fate of Asia's largest utility. However, Kan's track record in winning lawmaker approval for his post-quake policies suggest a bitter parliamentary battle will ensue. (Kim Kyung-Hoon/Reuters)

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Debris is scattered, three months and two days after the magnitude 9.0 earthquake and subsequent tsunami on June 13, 2011 in Sendai, Miyagi, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

Japan Earthquake
Anti-nuclear demonstrators shout slogans during a march in Tokyo, Saturday, June 11, 2011. The protesters held mass demonstrations against the use of nuclear power, as Japan marked the three-month anniversary of the powerful earthquake and tsunami that killed tens of thousands and triggered one of the world's worst nuclear disasters. (Koji Sasahara/Associated Press)

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A local fisherman clear debris on June 11, 2011 in Minamisanriku, Miyagi, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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Heavy machinery is used to clear the debris, three months and two days after the Magnitude 9.0 Earthquake And Tsunami on June 13, 2011 in Natori, Miyagi, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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Miyuki Saito, 47, who lost her mother and older brother in the earthquake and tsunami, digs to collect plants from what remains of her parents' garden, three months and two days after the disaster, on June 13, 2011 in Natori, Miyagi, Japan

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Children pick up donated stationery during an event organized by volunteers on June 12, 2011 in Otsuchi, Iwate, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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A construction worker works on temporary houses for evacuees who suffered from March 11th earthquake and tsunami, on June 12, 2011 in Otsuchi, Iwate, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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Sakiko Yamaguchi (left), 47, takes shelter with her son Maya Yamaguchi, at the back of her car in a parking area at Ando Elementary School used as an evacuation center on June 12, 2011 in Otsuchi, Iwate, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

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A man looks at the remaining frame of the destroyed Minamisanriku City Hall Disaster Prevention Center on June 11, 2011 in Minamisanriku, Miyagi, Japan. (Kiyoshi Ota/Getty Images)

NUCLEAR REACTOR CITY JAPAN
Residents, evacuated from the 20-kilometer exclusion zone around Tokyo Electric Power Co.'s Fukushima Dai-Ichi nuclear power station, including Nao Yoshida, center, lit candles during an event marking three months since the March 11 earthquake and tsunami, in Minami Soma, Fukushima prefecture, Japan, on Saturday, June 11, 2011. Minami Soma was among the worst-affected when a tsunami that followed a magnitude-9 earthquake knocked out power at Tokyo Electric Power Co.'s Fukushima Dai-Ichi nuclear plant, sending three reactors into meltdown and causing radiation to leak ever since. (Tomohiro Ohsumi/Bloomberg)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, a ship swept away by tsunami sits amid debris-covered residential area March 12, 2011, left, while the ship stays in the same position in the area getting cleaned up June 3, 2011 in Kesennuma, Miyagi Prefecture, northeastern Japan. Japan marks three month since the March 11 earthquake and tsunami Saturday, June 11. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, a sea coast is filled with destroyed houses and debris at Ishinomaki, Miyagi prefecture, northeastern Japan, on March 12, 2011, one day after the devastating earthquake and tsunami hit the area, top, and the same area, bottom, with the houses and debris cleared as photographed on June 3. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, a shinto torii, or gateway, leading to Kozuchi shrine stands among the debris in Otsuchi, Iwate prefecture, northeastern Japan, on March 14, 2011, days after the devastating earthquake and tsunami hit the area, top, and the same area, bottom, with the debris almost cleared as photographed on June 3. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, damaged cars are submerged in flooded residential area with other debris swept away by tsunami March 12, 2011, left, while a car goes by a cleared street in the same area June 3, 2011 in Kesennuma, Miyagi Prefecture, northeastern Japan. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, damaged houses stand amid debris swept away by tsunami March 23, 2011, top, while those debris are almost cleared in the same area June 3, 2011 in Miyako, Iwate Prefecture, northeastern Japan. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, a ship swept away by tsunami lies among other debris March 12, 2011, left, while a man on a bicycle pedals past a pedestrian on the same road June 4, 2011 in Miyako, Iwate Prefecture, northeastern Japan. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, a sightseeing boat sits on a building in Otsuchi, Iwate prefecture, northeastern Japan, on April 6, 2011, after the devastating earthquake and tsunami hit the area, top, and the same area, bottom, with the boat gone as photographed on June 3. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, tsunami survivors walk with plastic containers and kettles to carry drinking water through a street blocked by a fallen tank and other debris March 14, 2011, top, and only one damaged house, center, stands along the same street June 3, 2011 in Kesennuma, Miyagi Prefecture, northeastern Japan. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, destroyed houses and debris fill a parking lot of a shopping center in Otsuchi, Iwate prefecture, northeastern Japan, on March 13, 2011, two days after the devastating earthquake and tsunami hit the area, top, and the same area, bottom, with the houses and debris cleared as photographed on June 3. (Kyodo News/Associated Press)

Japan Earthquake
In this combo of two photos, tsunami waves surge over a residential area March 11, 2011, top, and power shovels are in reconstruction work in the same area June 3, 2011 in Natori, Miyagi Prefecture, northeastern Japan. Japan marks three month since the March 11 earthquake and tsunami Saturday, June 11. (Kyodo News/Associated Press)

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mercoledì 22 giugno 2011

LA SAGGEZZA DEI POPOLI INDIGENI

I popoli indigeni hanno gestito le loro foreste per secoli, e ce le hanno consegnate come eredità. Ma noi le stiamo abbattendo. E con la foreste muoiono i popoli che le abitano, come gli Indios amazzonici, i Pigmei in Africa, i Penan in Malesia...


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Queste genti hanno sviluppato nei secoli conoscenze profonde e hanno imparato a convivere con la foresta senza distruggerla.
Sono le prime vittime dell'assalto alla foresta. L'arrivo dell'industria porta con se' la distruzione degli alberi che forniscono loro frutti o medicinali, ma anche punti di riferimento nei loro spostamenti. Le bande di bracconieri arrivate assieme all'industria ripuliscono la foresta di tutta la selvaggina. Le successive ondate di insediamenti tolgono loro la terra, la cultura ed il diritto a vivere.
Le foreste danno da vivere anche a numerose popolazioni di raccoglitori, come i seringueros in Amazzonia, che vivono estraendo gomma o raccogliendo noce brasiliana.
I profitti finiscono nei conti delle aziende multinazionali e di prestanomi locali, oltre a fluire nelle tasche di amministratori corrotti: il prezzo delle tasse per le concessioni di taglio è irrisorio se rapportato al valore del prodotto finito. Al paese esportatore restano solo i danni lasciati da uno sfruttamento predatorio: distruzione dell'ambiente e delle risorse. Il prelievo industriale del legno tropicale africano non genera ricchezza né sviluppo. Almeno non per le genti del luogo. I paesi africani esportatori di legno sono tra i 50 paesi più poveri del mondo, sono tra i paesi a più basso indice di sviluppo umano, e il loro reddito pro capite è tra i più miserabili. Questi paesi compaiono nella lista dei Paesi poveri altamente indebitati. Mentre immense quantità di legno prezioso venivano incamminate verso l'Europa e l'Asia, debito estero dell'Africa sub-sahariana cresceva del 225%.
Le aree di sfruttamento forestale, sono caratterizzate dalle problematiche sociali tipiche dell'inurbamento improvviso: alcolismo, prostituzione, AIDS. Intanto scompare un patrimonio di ricchezza biologica ma anche economica. Per gli abitanti dei villaggi le conseguenze negative delle operazioni forestali, superano di gran lunga quelle positive.
Quando cominciano le operazioni di taglio, la popolazione del villaggio si moltiplica, spesso i villaggi si trasformano in piccole città. Con l'arrivo dell'industria, arrivano la prostituzione, l'AIDS, l'alcolismo, e la struttura sociale e culturale del villaggio collassa. Intanto l'improvvisa domanda di cibo aumenta i prezzi. Contemporaneamente, le stesse operazioni forestali riducono la disponibilità di prodotti selvatici, raccolti tradizionalmente dalla gente dei villaggi (frutta, semi da olio, piante medicinali ecc). È abbastanza frequente che gli impiegati delle compagnie rubino verdure dagli orti locali o portino via la cassava dalle piantagioni. L'invasione di cacciatori di frodo su larga scala, per vendere la carne alle compagnie del legno o trasportarla verso i mercati della città, minaccia ulteriormente le loro risorse alimentari locali, mentre le compagnie si rifiutano di pagare qualsiasi risarcimento.

La distruzione delle foreste non è un male necessario allo sviluppo dei paesi poveri. Anzi, decenni di industria del legno e la monocoltura hanno aumentato la povertà e la miseria

Fonte

martedì 21 giugno 2011

PERÙ: GLI INDIGENI AYMARA ANNUNCIANO LA RIPRESA DELLE PROTESTE A PUNO

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Contadini Aymara. Puno, Peru. (Foto di Enrique Molina)


Dopo la tregua temporanea concessa per permettere lo svolgimento delle elezioni presidenziali nella regione di Puno, gli Aymara  hanno annunciato che riprenderanno lo sciopero a oltranza con il quale pretendono la revoca delle concessioni minerarie nella regione di Puno, per prevenire i danni che causano all'ecosistema e l'inquinamento dei fiumi e del lago Titicaca.
Va ricordato che, recentemente, circa 15.000 Aymara hanno manifestato nella città di Puno e in quell'occasione si sono verificati numerosi incidenti che hanno paralizzato la capitale per molti giorni, impedendo a molti turisti di muoversi.
La regione di Puno si trova a più di 1000 chilometri da Lima, al confine con il Brasile, ed è la seconda regione peruviana per quantità di ettari sfruttati da progetti minerari, secondo lo studioso Jose de Echave.
Il governo ha rifiutato la cancellazione [delle concessioni], ma ha raggiunto un accordo con le comunità Aymara che prevede la sospensione delle concessioni di sfruttamento minerario e petrolifero nella regione di Puno per il periodo di 14 mesi in quattro province (Yunguyo, Chucuito, Callao, e Juli). Le comunità indigene chiedono anche la deroga del Decreto Supremo 082-2007-EM, secondo quanto afferma Walter Adurviri, Presidente delFrente de Defensa de los Recursos Naturales de la zona sur de Puno.
Aduviri ha dichiarato al giornale di Puno Los Andes che, anche se anche se considera in modo positivo la vittoria di Ollanta Humala , gli Aymara non si accontenteranno di promesse ma esigeranno degli accordi scritti. Nel frattempo il presidente del Governo regionale di Puno, Mauricio Rodriguez, ha richiesto che il presidente neo eletto intervenga in merito.
Gli Aymara ed i Quechua, ai quali presto si aggiungeranno le comunità di altre zone di Puno, esigono che sia rispettato il loro diritto a essere consultati preventivamente in caso di concessioni di estrazione mineraria e petrolifera, sostenendo che questo tipo di attività economiche inquinano l'ambiente e distruggono le loro tradizioni. Questa denuncia è stata riportata dal blogger Peruanista:
“Le comunità Quechua e Aymara della regione di Puno non rifiutano le miniere in toto, ma vogliono partecipare al processo di concessione delle licenze per indicare quali sono le zone più appropriate per estrarre materiali senza inquinare i bacini dei fiumi e il lago Titicaca in cui confluiscono. Il Titicaca, oltre a essere il secondo lago di acqua dolce più grande del Sudamerica, è anche un simbolo sacro della cosmovisione andina. Il problema è che il governo centrale agisce in modo razzista concendendo autorizzazioni a compagnie minerarie, per la maggior parte straniere, senza consultare gli abitanti originari che vivono nella regione in cui i minerali vengono estratti.”
La popolazione indigena di Puno, una delle regioni del Perù a più alto tasso di analfabetismo, malnutrizione e povertà, vive principalmente di agricoltura, uno dei settori trascurati dai vari governi. Nonostante ciò nella zona vengono coltivate più di un migliaio di tipi di patate native e la regione può vantare il primo posto nella produzione nazionale di questo tubero.
Walter Aduviri, un leader seguito dalle comunità nonostante le autorità mettano in dubbio il suo ruolo, ha annunciato che lo sciopero riprende, anche se non sa dire quante comunità vi prenderanno parte nel complesso.
Fonte
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lunedì 20 giugno 2011

DUE ANNI DOPO LA MORTE DI NEDA AGHA SOLTAN

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(Credits: Ansa)

“Ogni movimento di protesta ha il suo simbolo. Della Tunisia ci è rimasto impresso il corpo di Mohammed Bouazizi, ustionato, avvolto nelle bende in un letto di ospedale. L’Egitto è la folla in piazza Tahrir. In Siria, ci sono i ragazzini che hanno osato sfidare il regime degli Assad scrivendo slogan sui muri della scuola. Dello Yemen, ci sono rimaste impresse con il velo nero e il viso dipinto con i colori della bandiera, stranamente in strada dopo aver infranto la secolare segregazione.
Le proteste arabe non devono però farci dimenticare il movimento verde in Iran e la sua icona, Neda Agha Soltan, la ragazza di 26 anni colpita a morte il 20 giugno di due anni fa. Era in auto con il suo maestro di musica. Bloccati in un ingorgo, durante le manifestazioni di protesta per la rielezione di Ahmadinejad, Neda è scesa dall’auto ed è stata colpita da un cecchino, un miliziano. Le immagini della sua morte sono state riprese in un video, che finisce in rete e viene rilanciato su YouTube.




L’anno scorso avevamo piantato un albero per Neda, a Milano, nel giardino dei giusti. E’ passato un altro anno e i leader del movimento verde Moussavi e Karrubi subiscono gravi restrizioni alla loro libertà di movimento.
L’avvocata Nasrin Sotoudeh, collaboratrice di Shirin Ebadi (la giurista che nel 2003 si era aggiudicata il Nobel per la pace) è in carcere e il regista Jafar Panahi (autore del Cerchio e di Offside) è stato condannato a sei anni di carcere e per i prossimi vent’anni non potrà fare film né uscire dal Paese né parlare con i giornalisti.
Nei giorni scorsi sono morti gli attivisti Haleh Sahabi e Reza Hoda Saber: la prima al funerale del padre ottantenne (anche lui un noto esponente dell’opposizione), il secondo durante lo sciopero della fame in carcere. In segno di protesta, i prigionieri politici hanno deciso anche loro di astenersi dal cibo.
Tra tanti decisi a sfidare i regimi del Medio Oriente, alcuni diventano un simbolo. Ma tanti altri hanno nomi che non ci dicono niente, e su di loro non viene acceso alcun riflettore.
Per non dimenticarli, oggi lunedì 20 giugno nasce a Roma Iran Human Rights Italia, una costola dell’organizzazione fondata a Oslo nel 2007. La nuova associazione verrà presentata al pubblico alle ore 20.30, presso il Caffè Freud, in via Poliziano 78/a a Roma.”

Farian Sabahi, docente presso l’Università di Torino e giornalista specializzata, è autrice dei saggi “Storia dell’Iran” e “Storia dello Yemen”, pubblicati entrambi da Bruno Mondadori. Scrive per il Sole24ore, Io Donna e Vanity Fair. Collabora con alcune radio locali e straniere
Fonte

IMMAGINI DELLA MIGRAZIONE MONDIALE

Their homelands are torn by war, economic distress, political strife, or environmental collapse. They choose to leave, or have no choice. They're called migrants, refugees, or internally displaced people. The labels are inadequate as often circumstances could allow all three descriptions, or some combination of them. Once in their new countries, they face difficult transitions, discrimination, or outright hostility. Host countries are burdened with the economic and political repercussions of the arrivals, while home nations are sometimes saddled with a "brain drain" of their most important human resources. Immigration is a hot-button issue in the American presidential race, and a wave of new arrivals from Libya to Italy has left the European Union struggling with decisions over the Schengen policy of borderless travel between member nations. Gathered here are images of some of the estimated 214 million people worldwide in the process of redefining what "home" means to them. --Lane Turner


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Rescuers help people in the sea after a boat carrying some 250 migrants crashed into rocks as they tried to enter the port of Pantelleria, an island off the southern coast of Italy, on April 13. Italy is struggling to cope with a mass influx of immigrants from north Africa, many of whom risk their lives by sailing across the often stormy Meditteranean in makeshift vessels. (Francesco Malavolta/AFP/Getty Images

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Immigrants from Latin America and Asia show up inside a truck bound for the US and detected by Mexican police X-ray equipment in Chiapas State, Mexico on May 18. The Police detected more than 500 hundred immigrants inside two trucks at a check point. (AFP/Getty Images)

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Refugees of the Guere ethnic group sit with their belongings inside a temporary camp set up at a Catholic church in Duekoue, Ivory Coast on May 18. The refugees in this crowded church ground were chased out of their homes by soldiers or ethnic militias during a violent post-poll power struggle between former president Laurent Gbagbo and his rival Alassane Ouattara. Some 27,000 are still too terrified to return home. (Luc Gnago/Reuter)

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Fire engulfs a building at Sydney's Villawood Detention Centre on April 21. Buildings were set ablaze as asylum seekers also protested on a rooftop within the facility against their failed applications for asylum. (Greg Wood/AFP/Getty Images)

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Asylum seekers sit on top of a building at Sydney's Villawood Detention Centre during an April 21 protest against their failed applications for asylum. (Greg Wood/AFP/Getty Images)

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Tunisian would-be immigrants who were evacuated from the Italian island of Lampedusa to a reception center in Manduria, jump over a fence to escape from the camp on April 1. The Italian government has prepared a plan to accommodate 10,000 migrants on a temporary basis, before repatriating them to Tunisia. (Carlo Hermann/AFP/Getty Images)

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Syrian soldiers prepare to hand over an elderly Syrian woman to Lebanese army troops as she was found trying to cross the border into northern Lebanon on foot on the Syrian side of the border village of Arida on May 19. The family of the woman had already fled their homes for fear of fresh violence as a result of anti-regime protests in their country, leaving her behind. (Joseph Eid/AFP/Getty Images)

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Afghan asylum seekers, who were caught by a marine police patrol boat off Java while on their way to Australia, walk to a temporary shelter upon arrival at Tanjung Perak port in Surabaya, Indonesia on May 2. Indonesia is a major launching post for Afghans, Iranian and Iraqis seeking refuge in Australia. (Trisnadi/AP)

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A pregnant woman would-be immigrant arrives at the hospital in Lampedusa on March 26. As a stricken boat carrying some 350 African migrants from Libya neared Italian shores, an Ethiopian woman also gave birth on the boat and was rescued with her newborn baby and the child's father by an Italian navy helicopter. (Alberto Pizzoli/AFP/Getty Images)

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A police officer instructs Georgina Perez and fellow illegal immigrants to move or face arrest during a protest for rights for higher education for illegal immigrants that blocked traffic in Atlanta. (David Goldman/AP)

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A boat of Tunisian would-be immigrants arrives in Lampedusa on March 26. A large influx of migrants have arrived on the Italian island from Tunisia since the ouster of president Zine El Abidine Ben Ali in mid-January. (Alberto Pizzoli/AFP/Getty Images)

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An Italian soldier helps a Tunisian migrant who injured himself trying to escape from the immigrant shelter in Lampedusa, the tiny Italian island close to North Africa where thousands of migrants have arrived in the past weeks on April 11. (Giorgos Moutafis/AP)

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Ethiopian immigrants fleeing violence in Libya wait at the Lyster Detention Centre in Hal Far, Malta on April 19. (Darrin Zammit Lupi/Reuters)

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An Ethiopian immigrant holds her two-week old child at the Lyster Detention Centre in Hal Far, Malta April 19. (Darrin Zammit Lupi/Reuters)

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Julie Ngor serves food as locals enjoy a meal at the Red Rose Restaurant, which specializes in Cambodian, Thai, Chinese and Vietnamese cuisine, at the Palin Plaza in Lowell, Mass. on February 5, 2010. Lowell is working with MIT to explore the possibility of mimicking the successes of ethnic neighborhoods like Boston's North End and Chinatown by "branding" its expansive district of Cambodian immigrants, now the second-largest concentration of Cambodians in the United States. Officials hope it could become a tourist draw and economic engine, while also helping the old mill city update its identity. (Cheryl Senter for the Boston Globe)

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A Customs and Border Patrol agent patrols along the international border in Nogales, Ariz. (Matt York/AP)

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More than 1000 mainly African migrants queue at the port in Misrata, Libya waiting to board an International Organisation of Migration ship on May 4 as the city suffered through bombardment. (Christophe Simon/AFP/Getty Images)

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Some 250 migrants wait in a boat approaching the tiny Italian island of Lampedusa on May 6. (Francesco Malavolta/AP)

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Youths check a boat on May 10 on a beach in Kram, Tunisia. (Fethi Belaid/AFP/Getty Images)

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Honduran citizens wait to fill out immigration papers upon arriving at the airport in Tegucigalpa on April 6 after they were deported and flown in by a plane chartered by the U.S. Immigration and Naturalization Service. 45,907 Hondurans were deported after being declared illegal immigrants in the U.S in 2010 and as of the date of this photograph, 9,143 have been deported this year, according to the Honduran Attention Center to Returnee Migrants. (Edgard Garrido/Reuters)

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Two Greek Roma scavenge for metals among the ruins of an Albanian Roma shantytown at the outskirts of Athens April 9. Greek police say two men have been shot dead and three injured in a fight between scavengers at a rubbish dump on the outskirts of Athens. Police say the victims are believed to be Asian immigrants who clashed with Albanian Roma following a dispute over garbage salvaged from the site for recycling. (Kostas Tsironis/AP)

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Jewish immigrants from Ethiopia attend a demonstration of a ceremonial seder Passover holiday dinner at an immigrants' center in Mevasseret Zion, Israel April 14. It would be the first "seder" the immigrants would be celebrating in Israel. (Ronen Zvulun/Reuters)

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Illegal immigrants appear on a night vision monitor screen of the Hungarian border police on the country's southern border with Serbia near Roeszke, Hungary June 25, 2008. British and Hungarian police said on April 19, 2011 they have cracked down on a people smuggling network that brought thousands of Vietnamese into Europe. Ninety-eight smugglers and other members of the network have been arrested since the project began in 2009. (Bela Szandelszky/AP)

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An alleged illegal immigrant is heavily escorted after attending an habeas corpus hearing at the Justice Palace in Quito on April 19. An Ecuadorean judge analyzed an habeas corpus petition for 21 Sri Lankan and three Pakistani citizens arrested for alleged migratory irregularities. (Rodrigo Buendia/AFP/Getty Images)

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An Iranian illegal migrant who was detained with dozens of others after their boat landed on a beach on Java island holds his children at an immigration detention center in Cilacap, Indonesia on April 26. Indonesia is a major launching post for Afghans, Iranians, and Iraqis seeking refuge in Australia. (Wagino/AP)

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A woman shouts during a protest called by immigrants from El Salvador, Guatemala and Honduras against Mexico's immigration law, in front of the Mexican Congress in Mexico City on April 26. (Alfredo Estrella/AFP/Getty Images)

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Demonstrators march during a May Day protest on May 1 in Los Angeles. Thousands of people marched for immigration reform, among other issues. (Eric Thayer/Getty Images)

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Julio Cesar, an immigrant from Guatemala, sits on his bunk at the only shelter for immigrants in Mexico City on May 4. A group of 35 immigrants from Central America await in the shelter for the visa promised by Mexican lawmakers. (Omar Torres/AFP/Getty Images)

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A Romanian border police officer inspects a train car at the border with Moldova. As Romania fights to convince EU partners that it deserves to enter Europe's visa-free zone in 2011, it hopes not to fall victim to growing Schengen skepticism among European states. (Daniel Mihailescu/AFP/Getty Images)

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People clamber on the rocky shore on Christmas Island, Australia, during a rescue attempt as a boat breaks up in the background December 15, 2010. Australian police charged a man with people smuggling on May 12 in connection with the deadly boat crash that killed 48 asylum seekers. (ABC/AP)

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A woman stands at the site of a fatal mugging in central Athens May 12. Far-right groups have launched a series of anti-migrant attacks since the mugging, which caused outrage as the victim was apparently killed for his camera as he was about to drive his pregnant wife to a maternity hospital. There is no evidence immigrants were involved in the killing. Police are also investigating the fatal stabbing of a Bangladeshi immigrant in a neighboring area. (Thanassis Stavrakis/AP)

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A member of the Red Cross holds a child at the southern Spanish port of Motril May 15. Some 65 would-be immigrants, including 25 men, 30 women and 10 children, aboard a fishing boat were intercepted off the southern Spanish coast as they were heading to European soil from Africa. (Jon Nazca/Reuters)

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A Palestinian refugee plays in front of homes rebuilt by UNRWA, the U.N. agency for Palestinian refugees, which were destroyed in fighting in 2007, in Nahr al-Bared Palestinian refugee camp in northern Lebanon April 19. (Omar Ibrahim/Reuters)

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Adar Gul, 80, an elderly Afghan refugee, arranges bricks during his daily work at a brick factory on the outskirts of Islamabad May 16. (Muhammed Muheisen/AP)

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Palestinian demonstrators throw stones toward Israeli border police during clashes in the Shuafat refugee camp on the outskirts of Jerusalem on May 15 as Palestinians marked the "Nakba" or "Catastrophe" of the 1948 creation of Israel. (Ahmad Gharabli/AFP/Getty Images)

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Israeli border policemen detain a Palestinian protester during clashes in Shuafat refugee camp, in the West Bank near Jerusalem May 15. (Ammar Awad/AP)

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An internally-displaced Somali woman stands with children outside their makeshift house after floods destroyed their home in southern Mogadishu's Hamarweyne district May 19. (Farah Abdi Warsameh/AP)

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Tens of thousands of Internally Displaced Persons who fled their village following clashes between the Government of Sudan and rebel movements sought protection at the Zamzam IDP camp in North Darfur March 15. More than 70,000 people have fled fighting in Sudan's western Darfur region in the last three months, swelling numbers at a major refugee camp by more than third, U.N. humanitarian officials said. (Olivier Chassot/Handout/UNAMID)

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A refugee from Somalia watches through her veil as she protests against the United Nations High Commissioner for Refugees in New Delhi May 16. The refugees demanded either integration with the local community, voluntary repatriation, or resettlement in a third country. (Gurinder Osan/AP)

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Fieldworker Felix Sanchez takes a drink of water while working on a Vidalia onion farm in Lyons, Ga. Concern is being raised that new legislation, meant to bar illegal immigrants from the workforce, and to give local police increased enforcement powers, will scare away Mexican laborers. (David Goldman/AP)

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Fieldworkers load a bucket of onions to a waiting truck on a Vidalia onion farm in Lyons, Ga. (David Goldman/AP)

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Myanmar migrants illegally cross the Thai-Myanmar border on an inner tube, in Mae Sot, Thailand. Refugees who have fled war-torn eastern Myanmar fear for their future after Thailand said it wants to close camps strung out along its border that are home to more than 140,000 people. Among them lives a majority of ethnic Karen who fled their country in the 1990s following a major offensive by the Myanmar government army against the Karen National Union. (Christophe Archambault/AFP/Getty Images)

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Muslim refugees attend school at the Mae La refugee camp in Thailand near the Thai-Myanmar border. (Christophe Archambault/AFP/Getty Images)

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An injured Libyan rebel is evacuated aboard an International Organization of Migration ship, which managed to evacuate about 800 people, including stranded migrants and the wounded on May 4 from the port city of Misrata. (Christophe Simon/AFP/Getty Images)

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Okpara, a 36-year-old immigrant, holds a hand-drawn Israeli flag during a lesson for children of illegal immigrants and foreign workers at a kindergarten in Tel Aviv on May 11. Okpara runs a "pirate" nursery, one of dozens in Tel Aviv offering cut-price daycare to illegal immigrants as figures show that some 100,000 of Israel's 220,000 foreign workers are in the country without permits. (Jack Guez/AFP/Getty Images)

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Myanmar refugees share a bed in their room in a suburb of Kuala Lumpur, Malaysia. Refugees in Malaysia, mostly from Myanmar, may get the chance to move to Australia following the recent announcement that an agreement would enable 4,000 refugees in Malaysia to move to Australia over a four-year period. (Mark Baker/AP)

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A Syrian refugee child stands in the new refugee tent compound in Boynuyogun, Turkey, near the Syrian border June 12. Syrian forces launched a crackdown on the Syrian town of Jisr al-Shughour, fueling fears that the clashes could spark a further influx of refugees toward bordering Turkey. (Vadim Ghirda/AP)
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