martedì 5 luglio 2011

CORPI DI DONNE NEL COLONIALISMO ITALIANO

Introduzione. Immagini e dominio coloniale

clip_image001fig. 12 Ufficio postale

La rappresentazione delle donne africane tanto nella fotografia quanto nel cinema, nella letteratura e nelle canzoni, ha svolto un contributo fondamentale nella costruzione dell’immaginario collettivo italiano sull’Africa, fornendo un impianto culturale importantissimo per la legittimazione della conquista e il rafforzamento del consenso popolare sull’impresa coloniale. L’importanza della rappresentazione dell’Altro come inferiore nel discorso coloniale è stata ampiamente messa in luce negli ultimi trent’anni daipostcolonial studies – a partire sopratutto dal pionieristico Orientalism di Edward Said che, per primo, ha dimostrato quanto le scienze sociali, l’arte e la letteratura costituiscano strumenti indispensabili per la costruzione e giustificazione del dominio coloniale. Uno sforzo di definizione dell’alterità che non ha determinato solamente l’immaginario europeo sulle colonie ma ha contribuito, specularmente, anche al rafforzamento di una certa idea dell’identità occidentale[1]. La costruzione di quest’immaginario collettivo – tramite l’appropriazione visuale delle terre conquistate grazie alle nuove tecnologie del tempo come la macchina fotografica[2] e la cinepresa – rappresenta pertanto un elemento decisivo per definire le caratteristiche della conquista e del dominio. Svariate ricerche in ambito internazionale[3] hanno oltretutto dimostrato quanto siano presenti, in questo tipo di discorso, riferimenti alle gerarchie di genere molto significativi. Anche in Italia negli ultimi anni l’occupazione dell’Africa orientale è stata riletta secondo quest’approccio d’analisi[4].
Le donne dell’Africa orientale furono infatti il soggetto più fotografato[5] dai colonizzatori italiani, tanto da generare un mercato estremamente fiorente di cartoline e fotografie. Una delle immagini più ricorrenti fu quella della donna somala[6] che, grazie anche alla diffusione di un’importante letteratura esotica, divenne il simbolo di un’Africa “paradiso dei sensi”. Un territorio in cui il maschio italiano riscopriva una primordiale virilità, conquistando quelle terre naturalmente selvagge le cui donne erano considerate parti integranti del paesaggio. Come chiariscono Campassi e Sega la donna africana diventa perciò il simbolo della conquista e l’azione colonizzatrice e civilizzatrice viene rappresentata anche come il giusto dominio dell’uomo bianco europeo sulla donna nera, secondo una precisa gerarchia di razza e di genere:
La donna nera diventa il simbolo dell’Africa…e il rapporto uomo bianco-donna nera è simbolico del rapporto nazione imperialista-colonia: l’uomo è colui che dà la sua virilità fecondatrice e vivificante, la donna è colei che riceve da ciò un arricchimento nella realizzazione di sé come completamento dell’espandersi dell’io maschile[7].
L’immaginario popolare italiano sull’Africa si colloca pertanto in linea con quella che Anne McClintock ha definito porno-tropics traditions[8], ossia quella tradizione culturale che, fin dalle prime espansioni geografiche del XVI secolo, erotizzava lo spazio coloniale attraverso la femminilizzazione delle nuove terre, rappresentate appunto come donne fertili, disponibili e passive alla conquista. È utile quindi ricordare quanto l’accostamento colonia/donna sia un’immagine di lunghissimo periodo che ha attraversato e condizionato, anche se in forme molto differenti, la costruzione dei rapporti di dominio in tutte le esperienze coloniali. Una fonte molto interessante a riguardo è la seguente: (fig. 1).
clip_image001[5]fig. 1 A. Vespucci e l’America (1589)

Si tratta di un’incisione di Theodor Galle del 1589 e rappresenta Amerigo Vespucci sulle spiagge del nuovo continente, dove incontra una donna seminuda distesa su un’amaca che lo invita ad avvicinarsi. Quest’immagine, oltre a dimostrare quanto appena detto in merito alle considerazioni di McClintock, introduce un secondo problema. Sullo sfondo infatti sono raffigurate donne che si danno alla pratica del cannibalismo. L’ambivalenza dell’immaginario sulle colonie risiede proprio nell’accostamento tra l’attrazione sessuale delle donne indigene e il pericolo di essere travolti da queste terre selvagge così lontane dalla civiltà. Un tema molto presente anche nel colonialismo italiano, sopratutto quando inizieranno ad aumentare le condanne all’eccessiva promiscuità in quanto causa del meticciato. Un quadro quindi che testimonia una sorta di atteggiamento schizofrenico, in bilico tra l’immagine di un Africa ricca d’avventure erotiche, che promettono una riscoperta della virilità e una rigenerazione dello spirito[9] e il timore di perdere la propria superiore identità europea, mischiando il proprio sangue con le africane e rimanendo insabbiati[10] nel territorio della colonia.
Le fonti visive (fotografie, cartoline e vignette) rappresentano una testimonianza fondamentale per comprendere come si è formato quest’immaginario e, successivamente, quali novità sono intervenute con la proclamazione dell’impero (1936) e la successiva promulgazione delle leggi razziali (1937)[11].

1. Il mito della Venere nera nelle fotografie di Luigi Naretti


clip_image005fig. 2 (1) Donna abissina (tigrina) residente in Aden

Per meglio indagare il fenomeno dell’erotizzazione dello spazio coloniale ho scelto quindi di analizzare alcune fotografie di Luigi Naretti[12], primo vero “fotografo colono” che, grazie al cugino Giacomo Naretti[13], si trasferì in Eritrea già nel 1885[14] e accompagnò perciò da subito l’impresa coloniale italiana con un’importante produzione fotografica[15].

clip_image007fig. 2 (2) Donna Galla residente in Aden

Osservando le fotografie di Naretti si ritrovano immediatamente tutti gli stereotipi e i temi essenziali dell’esotismo e dell’erotismo tipici dell’immaginario coloniale di metà Ottocento. I soggetti rappresentati sono infatti spesso trasformati in icone, “tipi”: una produzione stereotipata che trasmette un’immagine dell’Africa che «è in se stessa uno strumento di controllo e di appropriazione»[16]. Per poter creare immagini che rappresentino l’Africa secondo i parametri con i quali gli europei guardavano al continente, le fotografie sono spesso scattate in studio, ricostruendo artificialmente l’ambiente naturale degli indigeni con pellicce, foglie di palme, fiori e vestiti particolari[17]. Per quanto riguarda la rappresentazione delle donne si sono riscontrate due tipologie. Da un lato fotografie antopologico-documentaristiche che cercano di fissare le caratteristiche fisiologiche dei soggetti al fine di classificarne l’appartenenza etnica. Dall’altro una serie consistente di nudi femminili, realizzati con l’evidente scopo di trasmettere il mito della Venere nera.

clip_image009fig. 2 (3) Donna abissina (amarica) residente in Aden

Per il primo gruppo si sono presi in considerazioni quattro scatti (fig. 2) che ritraggono “tipi di donna abissina”: la tigrina, la galla e l’amarica (o amhara). Si tratta d’immagini di donne agiate, riccamente vestite, ingioiellate e comodamente sedute in un ambiente benestante. Si nota in particolare l’artificiosità di questi scatti, gli sguardi assenti delle donne ritratte e sopratutto il fatto che, malgrado l’intento di fissare degli stereotipi, le donne siano sostanzialmente uguali: gli sfondi e pure gli indumenti non differiscono di molto, e anche i tratti fisionomici non presentano in realtà grandi differenze.

clip_image011fig. 2 (4) Donna abissina (tigrina) residente in Aden

Un’altra fotografia interessante è Donna abissina portatrice d’acqua (fig. 3), che vuole appunto raffigurare lo stereotipo della miseria africana: un donna piegata dalla fatica, costretta a dover trasportare sulle sue spalle un pesante recipiente pieno d’acqua. Secondo l’interpretazione di Palma la fotografia è sicuramente sceneggiata[18], per il modo in cui l’azione è stereotipata e, sopratutto, per il seno scoperto della donna, con buone probabilità volutamente mostrato al fine di sollecitare – oltre che un sentimento di pietà e, secondariamente, di superiorità di fronte alla situazione di miseria – le fantasie erotiche dello spettatore maschio. La rappresentazione dell’alterità africana in Naretti sottintende perciò, e si vedrà sopratutto con il secondo gruppo di immagini, pratiche di gerarchizzazione razziale e di genere che tramite l’accostamento alterità/inferiorità legittimano il dominio coloniale e la sua opera di “civilizzazione”.

clip_image013fig. 3 Donna abissina portatrice d’acqua

La seconda tipologia di fotografie rientra nella diffusa commercializzazione di immagini pornografiche, prodotte per alimentare lo stereotipo della colonia come miraggio sessuale. Malgrado fin dal 1861 erano previste sanzioni per chi produceva fotografie pornografiche, l’Italia – insieme alla Francia e all’Austria – rappresentava uno dei mercati più importanti per questo prodotto[19].

clip_image001[1]fig. 4 L. Naretti?, Sifilicomio di Asmara?, (albumina, cm 28×20,5), 1887-1900.


Le fotografie di tipo pornografico venivano generalmente realizzate nei postriboli e sifilicomi, appositamente creati per la clientela italiana, ma anche negli studi fotografici. Lo stesso Naretti produsse una quantità considerevole di questo tipo di scatti. La fotografia Sifilicomio di Massaua (fig. 4) che ritrae ben undici donne nude, di cui quattro accovacciate in pose invitanti, sembra proprio esser stata realizzata per “pubblicizzare” quel luogo di prostituzione. D’altro tipo sono invece i tre nudi femminili realizzati in studio (figg. 5, 6, 7) che rappresentano appunto il classico stereotipo della Venere nera: ragazze completamente nude, abbellite con collane, bracciali, e altri accessori, e ritratte in pose sensuali.

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fig. 5 Venere Nera

Tutte queste immagini sono oltretutto prive di caratteri di definizione individuale: non c’è mai il nome della donna rappresentata o comunque un riferimento alla sua identità.

clip_image001[3]fig. 6 L. Naretti?, Nudo femminile, (albumina, cm 16×21,5), 1887-1900

Spogliate e private di ogni individualità le donne sono rappresentate esclusivamente come oggetti sessuali e l’attenzione è sempre incentrata sul corpo: a volte stereotipato per classificarne l’etnia, a volte abbruttito dal lavoro domestico (o deformato, come si vedrà successivamente, per mostrarne l’inferiorità razziale) e infine, nella maggior parte dei casi, rappresentato come corpo sessualmente disponibile alla conquista.

clip_image017fig. 7 Nudo femminile

A livello estetico queste immagini riprendono oltretutto alcuni temi tipici dell’orientalismo e dell’esotismo già sviluppati in ambito artistico nel XIX secolo (si pensi a Dominique Ingres[20]). Sopratutto Araba d’Archico-Venere Nera (fig. 5) riprendendo la classica posa dell’Odalisca, rimanda a un classico tema estetico dell’esotismo[21], ribadendo quanto esposto all’inizio in merito all’ampia diffusione di questi dispositivi culturali che non possono essere circoscritti esclusivamente alle singole esperienze coloniali. L’analisi di queste fonti non può però essere completa senza alcune osservazioni sui soggetti fotografati. La fotografia, infatti, a differenza di altri mezzi di comunicazione visiva come la pubblicità, i manifesti ecc., sebbene sia realizzata con gli occhi del conquistatore presuppone un incontro con l’indigeno e la realtà che viene raffigurata ci permette quindi di notare le differenti reazioni dei soggetti sottoposti a questi scatti. Si possono constatare due tipi di risposte nelle donne africane. Da un lato si può notare (dai visi di alcune fotografie come ad esempio nella fig. 7) quanto i soggetti siano turbati dall’invasività di queste fotografie. Spaventate dalla macchina fotografica, oltre che turbate dallo sguardo coloniale e, in alcuni casi, dalle vere e proprie violenze fisiche alle quali erano sottoposte, molte donne tentavano di fuggire o chiedevano in cambio somme di denaro[22]. Dall’altro lato, in molte fotografie, le donne africane assumono un atteggiamento di partecipazione e quasi di complicità con il fotografo. Sempre ritratte in pose sensuali rispondono con sguardi ammiccanti, non distolgono lo sguardo dall’obiettivo ma lo fissano sorridendo. Si tratta spesso di fotografie realizzate nei postriboli dove, evidentemente, i soggetti fotografati erano prostitute, abituate ormai all’invadenza e alle richieste dei colonizzatori[23]. Oppure sono immagini scattate negli studi fotografici con modelle anch’esse in parte consapevoli di ciò che le aspettava. Bisogna poi sottolineare le differenze cronologiche. Le fotografie che Naretti scatta negli ultimi decenni dell’Ottocento rappresentano ancora un fenomeno nuovo agli occhi delle donne africane, mentre per le immagini degli anni ‘20 e ’30 (si osservi per esempio la fig. 8) è necessario valutare quanto era ormai quotidiano il rapporto tra italiani e indigeni dopo anni di presenza sul territorio.

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fig. 8 Nudo femminile, anni '30.

È bene infine ricordare che il mito della disponibilità delle donne africane non rappresenta esclusivamente uno strumento per la costruzione del consenso al colonialismo e per l’affermazione delle gerarchie di genere e di razza, ma favorisce anche una giustificazione all’aggressività e alle violenze commesse dalle truppe italiane[24]. Grazie anche a varie interpretazioni, in termini di maggior licenziosità, degli usi, dei costumi e della morale locali verranno legittimati moltissimi soprusi[25].
Il mito della Venere nera costituisce dunque una delle metafore più potenti della conquista africana che, penetrando profondamente nella cultura popolare italiana, influenzerà fortemente le aspettative dei soldati all’alba dell’impresa fascista in Etiopia. Significativo è il fatto che molte fotografie di questo genere furono trovate tra gli oggetti personali di alcuni volontari fascisti caduti durante la guerra civile spagnolae, sopratutto, che il regime distribuiva direttamente ai soldati in partenza per l’Etiopia varie fotografie di donne nere nude[26]. Quindi, ancor più delle promesse di prosperità economica e possibilità lavorative, uno degli argomenti decisivi che vennero utilizzati per spingere molti uomini a combattere per quella virgin land of virgins[27], fu certamente l’idea di poter a pieno titolo pretendere delle donne come compenso per la sicura vittoria.

2. Le donne africane durante il fascismo: tra fantasie erotiche e difesa della razza


clip_image020fig. 9 Nudo femminile, anni ’30.

Malgrado l’intenzione del regime di dimostrare già dai primi anni la netta superiorità degli italiani sugli africani e di scongiurare perciò il persistere dei temi dell’esotismo più romantico, lo stereotipo dell’Africa, formatosi come si è visto nel corso del XIX secolo, era ancora fortemente presente nell’Italia fascista, non solo nell’immaginario collettivo popolare ma anche nella letteratura [28], nella pubblicità[29] e nei mezzi di comunicazione visiva. La contraddittorietà nella rappresentazione delle colonie raggiungerà con il fascismo, e con l’approdo finale di quest’ultimo al razzismo biologico, il momento più eclatante. Se infatti l’immagine dell’Africa come paradiso dei sensi verrà ancora alimentata dal regime – sia per spronare i soldati, sia per attrarre forza lavoro maschile necessaria per il progetto di colonizzazione demografica – si svilupperanno parallelamente le tendenze più specificatamente razziste che modificheranno la rappresentazione delle donne africane. È importante però ricordare da subito che, seppur il periodo che va dalla proclamazione dell’impero (9 maggio 1936) alle prime misure legislative per la difesa della razza rappresenti certamente un momento di svolta, esso non costituisce una radicale rottura con il passato bensì l’esito di un approccio razzista posto in essere già nel periodo liberale[30]. È perciò necessario sciogliere questa apparente contraddizione: la rappresentazione delle donne africane come prede sessuali era funzionale al dominio coloniale fintanto che, giunti alla fondazione dell’impero, si decise di affermare la netta superiorità degli italiani tramite un sistema di segregazione razziale che necessitava di una disciplina e un’autodisciplina che coinvolgessero tutti gli aspetti della vita quotidiana [31]. La contraddizione tra il periodo coloniale e il fascismo è perciò soltanto apparente: il nesso tra politiche razziali e politiche sessuali è decisivo e la rappresentazione della donna cambia proprio in relazione alla trasformazione del colonialismo in un più ampio progetto di dominio imperiale di cui il razzismo è una parte fondamentale[32].
Le cartoline, spesso fornite direttamente dall’Ufficio Storico della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale[33] furono uno degli strumenti più utilizzati dal regime per diffondere il mito della Venere nera tra le truppe, specialmente nella fase di preparazione e nei primi mesi della campagna di Etiopia. Si tratta in genere di raffigurazioni di fotografie (fig. 9), oppure di disegni e vignette.

clip_image022fig. 10 Visioni abissine, 1935-1936

La cartolina Visioni abissine (fig. 10), pubblicata tra il 1935 e il 1936, sintetizzata con estrema chiarezza l’idea che la maggior parte degli italiani possedevano dell’Africa: un luogo in cui le donne non aspettano altro che consegnarsi ai colonizzatori (le ragazze disegnate sono infatti sorridenti a seno scoperto e con sguardi invitanti) come prede della facile vittoria conseguita contro i loro uomini che, come vigliacchi, si fanno massacrare dalle bombe degli italiani.

clip_image024fig. 11 Terra … Vergine!...

Un’altra immagine interessante è la vignetta pubblicata sulla rivista «Il “420”» di Firenze il 19 gennaio 1936 (quindi cronologicamente molto vicina alla proclamazione dell’impero) che ci dimostra quanto ancora venisse sfruttato lo stereotipo della disponibilità sessuale delle donne nere. Il titolo della vignetta, Terra … Vergine!…, gioca appunto sul fatto che il primario motivo di interesse degli italiani per l’Abissina dovevano essere le vaste aree di terreno fertile promesse da Mussolini. Ma, nella vignetta, anziché una “terra vergine” viene rappresentato l’incontro tra una donna nera e un colonizzatore, che si scambiano una battuta chiaramente provocante (fig. 11). È evidente l’accostamento tra conquista della terra e conquista delle donne.
Altra fonte interessante è la serie disegnata da Enrico De Seta prodotta anch’essa a cavallo tra il ’35 e il ‘36. Queste cartoline ricalcano tutti gli stereotipi più razzisti e sessisti. È chiaro sopratutto in Ufficio postale e Al mercato (figg. 12, 13), la mercificazione della donna africana che queste immagini vogliono trasmettere, raffigurata esclusivamente come oggetto sessuale.

clip_image001[5]fig. 14clip_image002fig. 15
Mentre in La moretta innamorata ed Esercito abissino (figg. 14, 15) si ripropone ancora una volta l’idea della naturale disponibilità delle donne africane. Ciò che però è più interessante evidenziare per queste vignette, e che ci consente di segnare l’inizio di una svolta

clip_image002[9]fig. 13 Al mercato

nella rappresentazione delle donne, è che le autorità non gradirono l’incoraggiamento alle unioni miste cosicché la serie, originariamente destinata alle truppe in partenza per l’A.O.I., venne rifiutata dagli alti comandi[34]. Ma l’indicatore sicuramente più significativo, è la messa al bando della canzone faccetta nera[35] – uno dei motivi più diffusi tra la popolazione italiana e tra i soldati che, con frasi allusive[36], incoraggiava contatti promiscui tra italiani e africani – nei giorni appena successivi alla proclamazione dell’impero. L’adesione alle direttive del regime fu immediata: già a metà maggio le cartoline delle giovani donne africane iniziano a scomparire dalle vetrine dei negozi[37] e il 13 giugno 1936, sulla prima pagina della Gazzetta del Popolo, viene pubblicato un articolo di Paolo Monelli contro faccetta nera, intitolato Moglie e buoi dei paesi tuoi, che così descrive le donne:
[...] sempre fetide del burro rancido che cola a goccioline sul collo; sfatte a vent’anni; per secolare servaggio amoroso fatte fredde ed inerti tra le braccia dell’uomo; e per una bella dal viso nobile e composto, cento ce ne sono dagli occhi cipriosi, dai tratti duri e maschili, dalla pelle butterata. [...] Le parole faccetta nera sono peggio che idiote. Sono indice di una mentalità che vorremmo trapassata[38].
clip_image028fig. 16 cartolina "artistica"

Anche la vignetta di Domenici Le parole … e i fatti (al burro rancido), pubblicata su «Il “420”» il 5 luglio 1936, quindi appena sei mesi dopo Terra … Vergine!…, si scaglia contro faccetta nera (fig. 16). Anche qui, come nell’articolo di Monelli, si propone in senso dispregiativo la tradizionale acconciatura delle donne fatta con il burro rancido. Le donne non sono quindi più belle vergini disponibili ma sono brutte e maleodoranti. A partire da questo momento le donne africane vengono quindi rappresentate sempre più come deformi, di cattivo odore, portatrici di malattie e sempre più disumanizzate:
Nelle razze negre, l’inferiorità mentale della donna confina spesso con una vera e propria deficienza; anzi, almeno in Africa, certi contegni femminili vengono a perdere molto dell’umano, per portarsi assai prossimi a quelli degli animali[39].
Per combattere quindi in modo deciso la promiscuità tra italiani e africani e imporre così una «naturalizzazione dei rapporti di dominio»[40], il razzismo già ampiamente diffuso diviene, grazie a una capillare azione di propaganda voluta dal governo e sostenuta dal supporto “scientifico” di antropologi e medici, un razzismo biologico che, sommato a un’escalation legislativa, porterà al razzismo di Stato[41].

clip_image030fig. 17 Acconciatura di donna abissina

Le immagini di donne africane che iniziano ora a circolare per l’Italia sono sopratutto quelle diffuse dal periodico «La difesa della razza», in cui la donna viene ora rappresentata esclusivamente sotto un punto di vista antropologico, per descriverne l’inferiorità razziale. Si riportano quindi tre esempi significativi. Il primo esempio è una fotografia (fig. 17) pubblicata in un articolo di Lidio Cipriani sui riti e le superstizioni africane[42]. In quest’articolo Cipriani elenca una serie di riti nonché di pratiche estetiche al fine di sottolineare l’inciviltà degli indigeni. Si propone per l’ennesima volta il tema già visto in Le parole … e i fatti e nell’articolo di Monelli dell’usanza delle donne abissine, naturalmente disgustosa agli occhi di Cipriani, di acconciarsi i capelli con il burro rancido.

clip_image002[5]fig. 18

Il secondo è l’immagine della Venere ottentotta (fig. 18), nella riproposizione dell’articolo di Fischer I bastardi di Rehboth, sul numero di «La difesa della razza» interamente dedicato al meticciato[43]. Si tratta di Sarah Bartmann, donna africana che veniva esposta in alcuni zoo umani europei nel XIX secolo[44]. L’articolo ripropone appunto quest’immagine per sostenere la deformità delle donne africane, sottolineandone l’adiposità dei glutei e i seni grossi e cadenti.

clip_image002[7]fig. 19

Infine, il terzo esempio, è la fotografia di una donna pigmea (fig. 19), anch’essa pubblicata su «La difesa della razza»[45]. Sempre secondo uno studio antropologico di stampo razzista viene in quest’articolo mostrata la bruttezza dei pigmei, deformi e biologicamente inferiori rispetto alla razza europea.
È evidente, osservate queste immagini, quanto l’approccio sia diverso rispetto alle cartoline pornografiche di cui si è parlato in precedenza anche se, è importante ricordarlo, entrambe le serie di fotografie condividono uno sguardo coloniale che presuppone una superiorità dell’uomo occidentale sulla donna africana.

3. Conclusioni
In questo articolo ho cercato di ripercorrere alcune modalità attraverso le quali l’Africa e gli africani sono stati rappresentati agli occhi della popolazione italiana. Inizialmente, ho provato a evidenziare dell’utilizzo delle donne nella costruzione dell’immaginario coloniale e l’importanza centrale che questa rappresentazione ha avuto in tutte le politiche di colonizzazione tanto da costituire una dinamica di lungo periodo che attraversa molte storie nazionali europee a partire dall’epoca moderna.
Ho cercato successivamente di mostrare quanto gli stereotipi costruiti sui corpi delle donne, prima sessualmente caricati e poi imbruttiti, deformati e disumanizzati, siano stati funzionali al dominio coloniale italiano in Africa orientale. Una prospettiva che mette in luce i caratteri fondamentalmente razzisti dell’impresa coloniale fascista. È infatti centrale, a mio avviso, inquadrare anche la vicenda coloniale italiana nella storia del razzismo europeo. Troppo spesso, infatti, la valutazione sul razzismo fascista – specialmente fuori dalla ricerca storica, nell’opinione pubblica italiana – si concentra esclusivamente sulle leggi razziali del 1938 applica nel territorio italiano e sulle politiche antisemite del regime. Questa tendenza, che dimentica appunto il razzismo coloniale, non coglie l’essenza del razzismo di Stato a cui il fascismo arrivò e considera le leggi razziali come una deriva del regime costretto a seguire le politiche dell’alleato tedesco. Il famoso «sovrano disprezzo per talune dottrine d’oltralpe» con cui Mussolini apostrofò il razzismo nazista nel 1934 durante un pubblico discorso a Bari, voleva esclusivamente ribadire il primato dei latini nella gerarchia delle civiltà europee e rispetto alla purezza ariana germanica – oltre che a mantenere un certo distacco politico dal nazismo in un periodo in cui Mussolini era ancora interessato a non compromettere l’amicizia con l’Inghilterra e la Francia. Leggere il razzismo fascista come una deriva del regime per ingraziarsi Hitler non coglie quindi, a mio avviso, l’essenza del colonialismo fascista e contribuisce ad alimentare il mito degli “italiani brava gente”.
Malgrado ciò, è importante sottolineare che la svolta razzista del 1936 e tutti i tentativi compiuti per separare italiani e africani (si provò addirittura, con scarso successo, a sostituire le moltissime prostitute nere reclutate precedentemente per i soldati con donne bianche[46]) incontrarono innumerevoli ostacoli nell’affermarsi. Tuttavia, la penetrazione del pregiudizio razzista fu considerevole nella popolazione italiana[47], provocando un inasprimento decisivo nel comportamento delle truppe in A.O.I. (dimostrato dal drastico aumento degli stupri e delle violenze su donne e uomini indigeni)[48] e rafforzando molti stereotipi che tutt’oggi emergono in determinate occasioni[49].

clip_image031Etica coloniale

Note
[1] Sul rapporto tra alterità e identità si segnala: Michael Taussig, Mimesis and alterity: a particular history of the senses, New York, Routledge, London 1993.
[2] Si pensi alla Kodak, prima fotocamera commerciale diffusa dal 1888, che non richiedendo una particolare preparazione professionale, permetteva a chiunque di diffondere immagini delle nuove terre conquistate.
[3] Tra le tante si ricordano: R. Hyann, Empire and sexuality, Manchester University Press, Manchester 1990, M. Sinha,Colonial masculinity: the manly Englishman and the effeminate Bengali in the late nineteenth century, Manchester University Press, Manchester 1995; McClintock,Imperial leather: race, gender and sexuality in the colonial contest, Routledge, New York 1995
[4] Se ne citano alcune: G. Campassi, M. T. Sega, Uomo bianco e donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale, in «Rivista di storia e critica fotografica», IV, 5, giugno-ottobre, 1983; B. Sòrgoni,Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998; A. Alessandro, Faccetta nera. Le donne, la razza e la politica coloniale fascista nell’Africa Orientale Italiana, in «Calendario del popolo», 57, 660, gennaio 2002, pp. 8-15; G. Stefani, Colonia per maschi: italiani in Africa orientale: una storia di genere, Ombre corte, Verona 2007; N. Poidimani, Difendere la ‘razza’. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Sensibili alle Foglie, 2009.
[5] S. Palma, L’Italia coloniale, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 44.
[6] A Mogadiscio esisteva addirittura la ditta Edizioni Artistiche Fotocine specializzata in nudi femminili. Fonte: L. Goglia,Colonialismo e fotografia. Il caso italiano, (1885-1940), Sicania, Messina 1989.
[7] G. Campassi, M. T. Sega, Uomo bianco e donna nera…, op. cit., p. 55
[8] A. McClintock, Imperial leather…, op. cit., p. 22.
[9] Rispetto al tema dell’avventura coloniale come rigenerazione della virilità di segnalano i romanzi: L. Bricchetti, Nell’Harar, Galli, Milano 1896; G. D’Annunzio,Più che l’amore (1906), F. T. Marinetti, Mafarka il futurista(1909).
[10] Era il termine utilizzato per descrivere coloro che rimanevano “intrappolati” nel continente perdendo la propria identità. Ci cita come esempio un romanzo scritto dall’ex colonnello Ernesto Quadrone, Madundu. Cacciatori d’ombre all’Equatore (1935), dove il protagonista subisce appunto l’insabbiamento, perde la sua identità e si “indigenisce”.
[11] In questo caso ci si riferisce alle prime misure legislative contro il meticciato limitate all’A.O.I. che inaugurano l’escalation legislativa che porterà alle leggi razziali del 1938. Si tratta, nello specifico, del R.D.L. 19 aprile 1937, n. 880, che stabilisce sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi coloniali, mettendo definitivamente fuori legge il madamato. Vedi: G. Stefani, op. cit., p. 67.
[12] Per affrontare questo personaggio e analizzarne parte della produzione fotografica si è utilizzata la ricerca di Silvana Palma, Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885/1910), in «Quaderni storici», 37 (1), 2002, pp. 83-147.
[13] Personaggio importantissimo del primo colonialismo italiano, per maggiori informazioni si veda: Alberto Sbacchi-Gino Vernetto (cur.), Giacomo Naretti alla corte del negus Johannes IV d’Etiopia (Diari 1856-1881), Associazione di storia e arte canavesana, Ivrea 2004.
[14] Viste le scarsissime informazioni sul personaggio il suo arrivo in Africa è stato dedotto dalla data recata su due fotografie da lui scattare. Fonte: S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 85.
[15] Le fotografie a noi pervenute sono 256, di cui 33 rappresentano donne africane. Fonte: S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 87. La maggior parte erano di proprietà della Società africana d’Italia di Napoli. Si segnala in proposito: S. Palma (cur.), Raccolte fotografiche e cartografiche, in «Archivio storico della Società africana d’Italia», Istituto universitario orientale, Dipartimento di studi e ricerche su Africa e paesi arabi, Napoli 1996.
[16] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 98.
[17] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 97.
[18] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 99.
[19] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., 100. Si ricorda sopratutto l’importanza della cartolina, inventata in Austria nel 1869, che divenne ben presto il mezzo più semplice per una diffusione di massa dell’immagine delle colonie a un pubblico in gran parte ancora analfabeta. Vedi: L. Goglia,Le cartoline illustrate italiane della guerra 1935-1936: il negro nemico selvaggio e il trionfo della civilta di Roma, inLa menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Grafis, Bologna 1994, p. 37, n. 2.
[20] Si ricordano i dipinti più famosi dai temi esotici e orientali:La grande Odalisca 1814, Odalisca con una schiava 1842,La sorgente 1856, Il bagno turco 1862, etc.
[21] S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., p. 106.
[22] E. Bini, Fonti fotografiche e storia delle donne: la rappresentazione delle donne nere nelle fotografie coloniali italiane, Convegno SISSCO Cantieri di Storia II, Lecce (Settembre) 2003, p. 7.
[23] Si riporta in proposito un commento del medico italiano Ambrogetti: “Quanto sono restie le prostitute abissine a farsi fotografare nude!”. Fonte: P. Ambrogetti, La vita sessuale nell’Eritrea, F.lli Capaccini, Roma 1900, p. 18.
[24] C. Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane, in «DEP rivista telematica di studi sulla memoria femminile», n. 10, maggio 2009.
[25] Si segnala, per esempio, quanto questi pregiudizi abbiano influenzato anche l’applicazione della legge. A un uomo italiano accusato di stupro su una ragazzina di nove anni gli vennero garantite tutte le attenuanti proprio in considerazione «della facilità di costumi […] e della diversità del concetto morale locali»: S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit., pp. 104-105
[26] G. Campassi, M.T. Sega, Uomo bianco. Donna nera, op. cit., pp. 61-62
[27] G. Barrera, Dangerous Liaisons: Colonial Concubinage in Eritrea (1890-1941), «Program of African Studies Working Papers» n.1, North-Western University, Evanston 1996, p. 22.
[28] Mario dei Gaslini, Piccolo amore beduino (1926); G. Zucca,Il paese di madreperla. Sette mesi in Somalia (1926); Mario Appelius, Il cimitero degli elefanti (1928); Gino Mitrano Sani, La reclusa di Sarabub (1931) e Femina somala (1933); Tedesco Zammarano, Azanagò non pianse (1934). Sono alcuni dei molti romanzi usciti durante il fascismo nei quali temi come la riscoperta della sessualità più primitiva e del contatto con la natura costituiscono le ragioni per le quali i protagonisti dei racconti si trasferiscono nelle colonie. Vedi: G. Stefani, Colonia per maschi, op. cit., p. 95.
[29] Come ad esempio i cioccolatini faccetta nera. Vedi: K. Pinkus, Bodily Regimes: Italian Advertising under Fascism, University of Minnesota Press, pp. 52-57.
[30] E. Bini, Fonti fotografiche e storia delle donne, op. cit., p. 2. Per un apporfondimento sul razzismo italiano tra XIX e XX secolo si veda: A. Burgio (cur.), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 1999.
[31] La preparazione alla vita coloniale avvenne anche attraverso importanti apparati organizzativi e di propaganda come: la fondazione dell’Istituto Luce nel 1924, l’istituzione nel 1926 della “giornata coloniale”, la trasformazione dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio in Ministero per la Stampa e la propaganda nel 1935, la diffusione della “coscienza coloniale” nelle aule scolastiche, etc. N. Poidimani, Difendere la ‘razza’…, op. cit., pp. 77-80.
[32] N. Poidimani, Faccetta nera: i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, in L. Borgomaneri (cur.), Crimini di guerra. Il mito del bravo italiano tra repressione del ribellismo e guerra ai civili nei territori occupati, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 3.
[33] L. Goglia, Le cartoline illustrate italiane della guerra etiopica 1935-1936, in La menzogna della razza, op. cit., p. 28.
[34] La menzogna della razza, op. cit., pp. 175-176.
[35] La canzone fu lanciata nel 1935 da Carlo Buti. Autore delle musiche era Mario Ruccione mentre le parole, originariamente in dialetto romano, erano di Renati Micheli.
[36] Come l’inizio della seconda strofa: «La legge nostra è schiavitù d’amore». Fonte: A. V. Savona-M. L. Straniero,Canti dell’Italia fascista (1919-1945), Garzanti, Milano 1979, p. 215.
[37] N. Poidimani, Difendere la ‘razza’, op. cit., p. 126.
[38] Paolo Monelli, Moglie e buoi dei paesi tuoi, in «Gazzetta del popolo», 13 giugno 1936.
[39] L. Cipriani, Un assurdo etnico: l’impero etiopico, R. Bemporand & Figlio Editori, Firenze 1935, p. 181.
[40] N. Poidimani, Difendere la ‘razza’, op. cit., p. 76.
[41] Le leggi razziali promulgate con il 15 novembre 1938 sono infatti il risultato definitivo di una serie di leggi già sperimentate in Africa: l’eliminazione delle misure di acquisizione della cittadinanza italiana per i meticci nel R.D.L. 1 giugno 1936, n. 1019, la già citata legge sui rapporti coniugali tra africani e italiani (R.D.L.19 aprile 1937, n. 880), il sistema di segregazione previsto dalle Direttive d’azione per l’organizzazione e l’avvaloramento in A.O.I., ecc.
[42] L. Cipriani, Riti e superstizioni, in «La difesa della razza», anno IV, n. 10, pp. 18-21.
[43] E. Fischer, I bastardi di Rehboth, in «La difesa della razza», anno III, n. 10, pp. 12-17.
[44] N. Poidimani, Oltre le monoculture del genere, Mimesis, Milano 2006, p. 65.
[45] C. Colosso, I pigmei africani, in «La difesa della razza», anno IV, n. 14, pp. 6-9.
[46] G. Stefani, Colonia per maschi, op. cit., pp. 132-135.
[47] Si riporta per esempio la protesta fatta da un comune cittadino, Ugo Celano, su «La difesa della razza», anno III, n. 5, p. 45, in merito a una sentenza della corte d’appello di Torino che aveva assolto una donna italiana già condannata in primo grado per rapporti coniugali con un tripolino. Celano, scandalizzato dalla notizia, ritiene inaccettabile che un simile attacco al prestigio della razza italiana sia permesso da un tribunale dello Stato.
[48] G. Stefani, Colonia per maschi, op. cit., p. 136.
[49] N. Poidimani, Difendere la ‘razza’, pp. 80-81, pp. 167-168; Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?: un mito duro a morire, N. Pozza, Vicenza 2005
Bibliografia
Letteratura principale:
1. A. Alessandro, Faccetta nera. Le donne, la razza e la politica coloniale fascista nell’Africa Orientale Italiana, in «Calendario del popolo», n. 57, 660, gennaio 2002, pp. 8-15.
2. G. Barrera, Dangerous Liaisons: Colonial Concubinage in Eritrea (1890-1941), in «Program of African Studies Working Papers» n.1, North-Western University, Evanston 1996.
3. E. Bini, Fonti fotografiche e storia delle donne: La rappresentazione delle donne nere nelle fotografie coloniali italiane, Convegno SISSCO Cantieri di Storia II, Lecce (settembre) 2003.
4. A. Del Boca-N. Labanca, L’impero africano del fascismo nelle fotografie dell’Istituto Luce, Editori riuniti, Istituto Luce, Roma 2002.
5. A. Burgio (cur.), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, il Mulino, Bologna 1999.
6. G. Campassi-M. T. Sega, Uomo bianco e donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale, in «Rivista di storia e critica fotografica», n. IV (5), giugno-ottobre, 1983, pp. 54-62.
7. L. Goglia, Storia fotografica dell’impero fascista 1935-1941, Laterza, Roma-Bari 1986.
8. L. Goglia, Colonialismo e fotografia. Il caso italiano, (1885-1940), Sicania, Messina 1989.
9. A. McClintock, Imperial leather: race, gender and sexuality in the colonial contest, Routledge, New York 1995.
10. La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Bologna Grafis, 1994.
11. S. Palma, Fotografia di una colonia: l’Eritrea di Luigi Naretti (1885/1910), in «Quaderni storici», n. 37 (1), 2002, pp. 83-147.
12. N. Poidimani, Difendere la ‘razza’. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Sensibili alle Foglie, 2009.
13. N. Poidimani, Faccetta nera: i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, in L. Borgomaneri (cur.), Crimini di guerra. Il mito del bravo italiano tra repressione del ribellismo e guerra ai civili nei territori occupati, Guerini e Associati, Milano 2006.
14. N. Poidimani, Oltre le monoculture del genere, Mimesis, Milano 2006.
15. G. Stefani, Colonia per maschi: italiani in Africa orientale: una storia di genere, Ombre corte, Verona 2007.
16. C. Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane, in «DEP rivista telematica di studi sulla memoria femminile», n. 10, maggio 2009.
Fonti letterarie:
1. B. Imbasciati, Razze e malaria, in «La difesa della razza», anno III, n. 2, pp. 4-7.
2. L. Cipriani, Un assurdo etnico: l’impero etiopico, R. Bemporand & Figlio Editori, Firenze 1935.
3. L. Cipriani, I Boscimani, in «La difesa della razza», anno IV, n. 21, pp. 12-15.
4. L. Cipriani, Riti e superstizioni, in «La difesa della razza», anno IV, n. 10, pp. 18-21.
5. Faccetta nera in A. V. Savona, M. L. Straniero, Canti dell’Italia fascista (1919-1945), Garzanti, Milano 1979, p. 215.
6. Lettera di Ugo Celano da Torino, in «La difesa della razza», anno III, n. 3, p. 45.
7. G. Pensabene, Il meticciato, in «La difesa della razza», anno IV, n. 8, pp. 6-9.
Fonti visive, tratte da:
1. http://www.wmich.edu/dialogues/sitepages/vespucci.html
2. S. Palma (cur.), Raccolte fotografiche e cartografiche, in «Archivio storico della Società africana d’Italia», Istituto universitario orientale, Dipartimento di studi e ricerche su Africa e paesi arabi, Napoli 1996;
3. S. Palma, Fotografia di una colonia, op. cit.
4. Come siamo diventati colonialisti, in «GEO», n. 3, marzo 2006, p. 125 (immagini prese dal Laboratorio di Ricerca e Documentazione Storica Audiovisiva dell’Università di Roma Tre).
5. Goglia L., Storia fotografica dell’impero fascista 1935-1941, Laterza, Roma-Bari 1986, foto. 485.
6. Cipriani L., Riti e superstizioni, in «La difesa della razza», anno IV, n. 10, p. 19.
7. Fischer E., I bastardi di Rehboth, in «La difesa della razza», anno III, n. 10, p. 12.
8. Colosso C., I pigmei africani, in «La difesa della razza», anno IV, n. 14, p. 6.

Fonte

3 commenti:

Il Caso S ha detto...

Grazie per il re-post

Il Caso S.

Anonimo ha detto...

Complimenti! Ho visto recentemente una vecchissima intervista in cui Montanelli, volontario in Abissinia, raccontava di aver comprato una moglie (chiamata Milena) di 12 anni (lui ne aveva 27) che ogni 15 giorni lo raggiungeva nei diversi accampamenti militari. Non sono riuscito a trovare il flmato, ma solo questa citazione: http://it.answers.yahoo.com/question/index?qid=20090528172202AAxCt5y

Marco

Anonimo ha detto...

grazie davvero!

lucky

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