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venerdì 13 luglio 2012

IN COLOMBIA GLI INDIOS SCACCIANO LE FARC

Gli indigeni hanno intimato ai guerriglieri di abbandonare il territorio

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BOGOTÀ - Indios della regione montuosa di Cauca, nel sud-ovest della Colombia, in un faccia a faccia con esponenti delle Forze armate rivoluzionarie (Farc), hanno chiesto loro di abbandonare la zona. Lo rende noto la stampa locale, sottolineando che gli indigeni si sono detti stanchi per i continui episodi di violenza causati dagli scontri a fuoco tra militari dell'esercito e guerriglieri.
Proprio nelle ultime ore, un bambino di 7 anni è rimasto ucciso e altri 4 feriti nell'esplosione di una bomba avvenuta nella provincia di Cauca, dove vive una popolazione di maggioranza indigena.
L'appello per un cessate il fuoco è stato rivolto da alcuni capi indios direttamente nel rifugio delle Farc, raggiunto a piedi o a bordo di camion e motociclette.
Più tardi, gli indigeni hanno contestato a fischi anche il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos, arrivato in città per un Consiglio dei ministri, e al quale hanno reiterato il desiderio di pace.
Il leader colombiano a sua volta ha commentato che le forze dell'ordine sono lì «per proteggerli». «Non arretreremo dal territorio di un solo centimetro», ha aggiunto Santos.
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mercoledì 16 maggio 2012

IMPARARE DAGLI INDIGENI

Il mio primo incontro con il movimento indigeno risale al dicembre 2007, quando mi recai in Colombia sulle montagne del Cauca e prima ancora partecipai, con gli amici di A Sud, al congresso dell’Organizzazione indigena di Colombia (Onic), che si tenne ad Ibagué, capitale del Tolima.

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L’organizzazione indigena del Cauca, il Cric  (Consejo regional indígena del Cauca), costituisce la più antica organizzazione indigena dell’America Latina e probabilmente del mondo. Il Cric organizza in modo capillare decine di migliaia di indigeni che vivono in una zona montagnosa, alle prese con le multinazionali, l’esercito, la polizia, i paramilitari, i narcotrafficanti e in alcuni casi anche la guerriglia delle Farc. L’autodifesa è garantita dalla guardia indigena che raccoglie tutti gli appartenenti alla comunità e si basa non sugli armamenti ma sull’autorevolezza sociale simboleggiata dai bastoni del comando. Gli indigeni sono organizzati su base territoriale con i cabildos, strutture di autogoverno che elaborano i piani di vita e amministrano la giustizia.

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Feliciano Valencia, líder del Consejo Regional Indígena del Cauca (Cric)

Dal mio incontro con gli indigeni colombiani è scaturito un lavoro scientifico, I diritti dei popoli indigeni, pubblicato nel 2009 e  poi anche in spagnolo in Colombia. Abbiamo celebrato a Roma, un anno fa, il quarantesimo anniversario del Cric, con la partecipazione della Regione Lazio grazie all’interessamento del consigliere della Federazione della sinistra Fabio Nobile, e contiamo di portare avanti la cooperazione con questa ed altre organizzazioni indigene e in particolare con l’Università indigena autonoma e interculturale.
Vari sono gli insegnamenti che si possono trarre dall’esperienza millenaria dei popoli indigeni. Insegnamenti che riguardano anche e soprattutto noi uomini e donne più o meno “civili”. Innanzitutto, la capacità di portare avanti una resistenza che dura ormai da vari secoli. Poi ilprofondo rispetto nei confronti della natura (Pachamama). Quindi il senso della collettività. Basti ricordare che nella lingua degli indigeni Nasa, la più grande etnia del Cauca, non esiste alcuna parola per indicare “io”. O la medicina indigena, basata su di una considerazione olistica dell’essere vivente. O infine la giustizia, che vede come principale sanzione la disapprovazione da parte della comunità, anche attraverso sistemi per noi discutibili, come la gogna o le nerbate in pubblico, che tuttavia potrebbero essere utilmente applicate a politici e amministratori corrotti.

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La Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, approvata nel settembre 2007 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con il voto contrario solo di Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, rappresenta un netto avanzamento nella tutela dei diritti degli indigeni ma viene disapplicata sistematicamente da parte di molti Stati.
Portati in molti casi sull’orlo dell’estinzione da parte di politiche statuali di vero e proprio genocidio, gli indigeni continuano la loro lotta per la sopravvivenza e a offrirci un contributo, in termini di diversità culturale, che andrebbe attentamente meditato ed elaborato.
L’importanza di tale contributo viene giustamente sottolineata da un significativo articolo di Carlo Petrini, presidente di Slow Food, pubblicato oggi su “La repubblica”.
I principi fondamentali del Cric sono unità, terra, cultura e autonomia, e non c’è chi non veda che si tratti di principi pregnanti anche per una società fortemente diversa come la nostra, in preda a una grave crisi, dalla quale si può uscire sulla base di nuove idee regolatrici come il buen vivir indigeno, oggetto fra l’altro di un interessante libro di Giuseppe De Marzo, e dell’affermazione della sovranità ambientale, energetica e finanziaria dei territori, come propone Guido Viale.
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mercoledì 22 febbraio 2012

DEVASTAZIONE DEL TERRITORIO: È LA VOLTA DI ENEL

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L'America Latina ancora protagonista nelle lotte per la tutela dei beni comuni. Dopo il drammatico conflitto di Cochabamba (Bolivia) di 12-13 anni fa, in cui i cittadini insorsero contro la privatizzazione dell'acqua, ora in Colombia si sta consumando un'altra battaglia per la tutela di almeno due beni comuni (acqua e territorio) che speriamo non degeneri in episodi di violenza contro la popolazione, che sta solamente facendo valere i propri diritti.
In questi giorni nel dipartimento di Huila, è in corso l'epilogo di una lotta che va avanti da 4 anni contro la costruzione della grande diga, il Quimbo, un megaprogetto idroelettrico proposto da Enel-Endesa, dal valore di oltre 800 milioni di dollari. La diga inonderà 8.500 ettari di terre agricole, abitate da 3000 persone (6 i comuni coinvolti), situate in una valle riserva di protezione dell'Amazzonia. I comitati locali di cittadini riuniti nell'associazione Assoquimbo, presidiano da tempo il territorio per bloccare i lavori compreso lo scavo di un tunnel di 400 metri (i lavori dovrebbero iniziare il 20 febbraio) che servirà a deviare il fiume Magdalena, il più grande corso d'acqua del paese.
Il meccanismo si ripete in maniera simile in molte parti del mondo: grandi concessioni idroelettriche, elargite con troppa facilità da governi compiacenti a multinazionali di enorme influenza, territori devastati con messa a rischio della biodiversità, della sicurezza alimentare, delle risorse naturali e perfino culturali. L'energia è certo necessaria e le fonti rinnovabili devono essere incrementate, ma non a scapito della sostenibilità ambientale, sociale ed economica perché dubitiamo che sul territorio sacrificato vi sia qualche ricaduta di tipo monetario per l'interesse generale.
I costi di queste operazioni sono di gran lunga superiori ai benefici se le analizziamo con le lenti della sostenibilità e dispiace che un'impresa italiana sia protagonista di questo tipo di progetti. Anche perché pare che le multinazionali Enel-Endesa si siano già rivolte all'esercito e agli squadroni antisommossa (dai metodi poco ortodossi) per reprimere ogni accenno di dissenso e sgomberare il territorio.
Per appoggiare la lotta dei cittadini colombiani e per informare su questa battaglia per la tutela dei beni comuni che si sta combattendo in un'altra parte del pianeta, è stato convocato per giovedì 16 febbraio a Roma un presidio, dalle ore 14 fino alle 17, davanti la sede nazionale Enel Spa (viale R.Margherita/angolo via Savoia) a cui hanno aderito molti movimenti italiani tra cui il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
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giovedì 21 aprile 2011

COLOMBIA: L'OLIO DI PALMA IL BIOLOGICO CHE NON CONVINCE

L'espansione delle piantagioni di olio di palma si è rivelata una vera e propria piaga del decennio.


clip_image001Foreste incontaminate vengono abbattute mettendo a rischio specie come l'orango e la tigre, immensi pozzi di carbonio come le torbiere vengono distrutti, mentre alle comunità contadine vengono sottratte le terre di cui vivono. Dall'Indonesia al Congo, dalla Malesia alla Colombia, le ruspe della monocoltura avanzano. Dietro di loro, l'industria alimentare, quella dei cosmetici e il nuovo business del cosiddetto biodiesel. Non stupisce che imprese senza scrupoli abbiano dato il via a una vera e propria corsa ai terreni, per accaparrarsi una delle risorse strategiche dei prossimi decenni. Ma tra queste figurino marchi del biologico, è davvero una brutta sorpresa.
Il caso della comunità di contadini Las Pavas è emblematico. "Alla fine degli anni Novanta, un centinaio di famiglie tornarono alla tenuta di Las Pavas, dove i loro antenati avevano vissuto per diverse generazioni. Questa terra era stata occupata da un narcotrafficante, presunto parente del noto signore della droga Pablo Escobar. Inutile resistere ai narcotrafficanti, ma quando questi l'anno abbandonata, i contadini sono subito tornati e hanno iniziato a coltivare con cacao, mais, zucca e altri prodotti agricoli, e inoltrarono allo Stato una richiesta di riconoscimento dei loro diritti di proprietà -  ha raccontato Stephan Suhner, della coordinazione delle ONG svizzere, a Swissinfo.ch. - A nulla valsero però le loro rivendicazioni. Qualche mese più tardi i paramilitari si ripresentarono e, usando violenze e minacce, li cacciarono per poi vendere la terra al consorzio El Labrador, legato alla Daabon Organic".
Il consorzio El Labrador associa due imprese, la Aportes San Isidro e la Ci Tequendama, di proprietà della Daabon Organic, una multinazionale che esporta  prodotti certificati bio in Europa. Questi terreni, sottratti alle comunità contadine, sono ora coltivati a palma da olio per la produzione di agrocarburanti.
I contadini hanno invano tentato di far valere i propri diritti sulle loro terre ancestrali. Durante il processo di attribuzione della terra, un documento rimase senza firma e tutta la procedura fu quindi poi dichiarata nulla. Secondo il rapporto indipendente, inoltre, le autorità competenti hanno gestito in modo contraddittorio il caso, lasciando crescere le speranze dei contadini, mentre al tempo stesso favorivano  gli interessi della multinazionale.
Malgrado le stesse autorità abbiano riconosciuto l'illegalità dello sfratto, dal luglio del 2009 le famiglie di Las Pavas vivono in una situazione di emergenza umanitaria, resa ancora più difficile dalle recenti inondazioni che hanno distrutto i campi e allagato le loro abitazioni. I contadini di Las Pavas, hanno annunciato di voler tornare al loro villaggio, malgrado abbiano ricevuto minacce. Il processo di rivendicazione del loro diritto alla terra è stato sostenuto, tra gli altri, anche dal Programma di sviluppo e pace (finanziato in parte dall'UE), e da SUIPPCOL, il Programma svizzero per la promozione della pace in Colombia di cui fanno parte una decina di ONG, tra cui la stessa Peace Watch e SWISSAID.
Interpellata da swissinfo.ch, la sezione tedesca della Daabon Organic ha precisato di aver abbandonato ogni attività a Las Pavas un mese più tardi, in seguito al fallimento dei negoziati con la comunità di contadini. Una notizia contestata però da ASOCAB e dalle stesse ONG svizzere. "La Daabon Organic continua probabilmente a far parte del consorzio, sotto mentite spoglie - ha spiegato Stephan Suhner  a a Swissinfo.ch.- Non solo il suo nome figura tuttora sui documenti ufficiali, ma la multinazionale è anche accusata di far pressione sui membri della comunità, con minacce e tentativi di corruzione".
La vicenda dei contadini di Las Pavas era emersa lo scorso anno, quando Christian Aid e il Body Shop - che importava olio di palma dalla Daabon Organic - incaricarono una commissione indipendente di indagare sul caso. La commissione ha stabilito l'impossibilità di stabilire con certezza la regolarità delle fattoria della Daabon Organic. Nel settembre del 2010 il Body Shop decise di interrompere ogni relazione commerciale con la Daabon Organic.
Preoccupate per l'incolumità dei contadini, le ONG svizzere hanno invitato il Dipartimento degli affari esteri, che finanzia in parte il programma SUIPPCOL, ad intervenire presso le autorità colombiane affinché garantiscano una maggior sicurezza alla popolazione e accelerino il processo di attribuzione della tenuta Las Pavas.
La vicenda di Las Pavas ha gettato qualche ombra anche sull'operato di Bio Suisse che da diversi anni certifica con la propria gemma bio le attività della Daabon Organic. Una scelta che le associazioni svizzere hanno biasimato più volte, chiedendo una presa di posizione più netta all'associazione.
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lunedì 27 settembre 2010

LA GIUSTIZIA MEDIATICA

Teresa Lewis è stata giustiziata stanotte. La stampa mondiale non se n’è data cura. Quella italiana è giustificata, troppo impegnata con la cucina monegasca perfino per parlare del femminicidio di Teresa Buonocore.
Invece ha fatto breccia la morte di Jorge Briceño, il Mono Jojoy, uno dei capi militari storici delle FARC colombiane, ucciso in un’azione di guerra smisurata, 32 aerei, 27 elicotteri, centinaia di uomini, un bombardamento massiccio e indiscriminato del quale ci racconta Guido Piccoli.

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L’ottimo Simone Bruno, ai microfoni di SkyTg24, ha ben descritto come si sia messa per l’ennesima volta in scena una “demonizzazione del nemico” perfettamente orchestrata e inoculata dai media. Simbolo di ciò è sempre più El País di Madrid (immagine) che definisce direttamente il corpo di Briceño come il corpo “del narco” (narcotrafficante) e parla di lui e degli altri guerriglieri come dei “narcos abbattuti”.
Diventa a questo punto superfluo perfino lo storico dibattito sull’uso antitetico di termini quale “guerriglia” e “terrorismo”. Perfino terrorista è poco per Briceño e per quella ventina di ragazzi che sono morti con lui. L’odio, va da sé, non serve a spiegare, ma solo a schierare e a rafforzare la negazione dei motivi di 40 anni di guerra civile colombiana nella costruzione di un presente edulcorato fatto di buoni, il governo, e cattivi, i narcoterroristicomunisti.
Come abbiamo già scritto in queste pagine, stiamo assistendo ad un rafforzamento dei monopoli dell’informazione e dell’imposizione del pensiero unico. E’ un rafforzamento che sembra un indurimento ed una rinnovata capacità di posizionamento rispetto al ruolo svolto da Internet e dal giornalismo partecipativo. Fino a qualche anno fa esecuzioni particolarmente repellenti come quelle di Teresa Lewis bucavano lo schermo ed erano rintuzzate solo in quanto “antiamericanismo”. Oggi Teresa può morire nel sostanziale silenzio. La sola valvola di sfogo di Internet non basta a commemorarne la vita disgraziata e la morte sempre ingiusta. Quindi lo spot “United States”, l’odio antiamericano, non serve più a fare pubblicità, nonostante Pierluigi Battista sul Corriere abbia riciclato per la trentesima volta lo stesso articolo scritto vent’anni fa e rispolverato ogni volta cambiando solo i nomi.
Al contrario è divenuto facile solidarizzare con una Sakineh scelta non a caso tra le mille Sakineh di questo triste tropico planetario. L’uso delle gigantografie al quale i nostri comuni si prestano docilmente è una catarsi che ci fa sentire molto “we are the world”. A pensar male si fa peccato (e ribadisco la solidarietà a Sakineh) ma se Sakineh avesse avuto i lineamenti grossolani di Teresa Lewis, se non avesse avuto quel volto dolce, avrebbe avuto la stessa solidarietà? Se invece che iraniana fosse stata saudita?
Non smettono nello stesso contesto di essere scandalosi, in un continente dove i prigionieri politici restano migliaia, i milioni di parole dedicate a una ventina di presunti prigionieri politici cubani che, stando ad Amnistia Internazionale, che pure ne stigmatizza a buon diritto la carcerazione, non rischiano né tortura né morte e sicuramente non prefigurano quel “gulag tropicale” dal quale Yoani Sánchez è libera da anni di raccontarci minuziosamente. Conosciamo perfino la pressione arteriosa del dissidente cubano Guillermo Fariñas in sciopero della fame e abbiamo letto ovunque della morte di Franklin Brito in Venezuela, ma non una riga passa, in una virtuale orwelliana censura mondiale, delle centinaia di prigionieri politici mapuche in Cile processati e condannati ancora secondo le leggi dettate da Augusto Pinochet.
L’agenda setting mondiale per l’America latina ricorda molto quello di un paese incartato come l’Italia, impegnato da mesi a parlare del cognatissimo di Fini, della sua Ferrari e della sua casa di Montecarlo, una pagliuzza in confronto ai mille travi che si occultano, la fedina penale di mezzo parlamento, la fine della Repubblica fondata sul lavoro, il femminicidio di Teresa Buonocore, mentre cade il velo e la farsa della monnezza nascosta sotto il tappeto riemerge.
C’è qualcosa di vertiginosamente, intollerabilmente scandaloso in questo agenda setting imposto con grande malizia che stravolge completamente dimensioni e gravità delle cose. Torniamo alla Colombia, paese importante del quale si parla solo in limitatissimi casi. Ogni tanto passano numeri che al grande pubblico non possono non risultare incomprensibili. Com’è possibile spiegare con la presenza di 20 o 30.000 guerriglieri (comunisti, terroristi, narco, sanguinari…) il fatto che in Colombia ci siano 3 o 4 milioni di “desplazados”, profughi, e che altrettante persone si sono nel frattempo stabilite in Venezuela, aggravando di molto i problemi di quel paese? A leggere i giornali le FARC esistono perché sono narcoterroristi e perché il negraccio dell’Orinoco, Hugo Chávez, li “foraggia”. Ammettiamo per un attimo che sia vero e che sia tutta la spiegazione, anche se ciò vorrebbe dire che le FARC siano dei marziani piovuti dal pianeta Candanga senza alcun radicamento nella storia colombiana.
Ma non avranno ragione studiosi come il nostro Guido Piccoli quando sostengono in maniera documentata che non più del 3% della violenza, dei profughi e del narcotraffico siano attribuibili alla guerriglia e che il resto vada attribuito all’esercito, ai paramilitari, ai narco veri che fanno affari con la parapolitica, all’agroindustria esportatrice che ha sottratto in questi anni milioni di ettari ai contadini che perciò hanno ingrossato le file dei profughi? Se Piccoli ha ragione, e ha ragione, non si vergognano i grandi media a presentare una realtà virtuale nella quale la guerriglia è descritta come “il problema”?
E’ una realtà virtuale, altro che realismo magico, per la quale Álvaro Uribe e perfino Felipe Calderón sono degli angeli. Hugo Chávez e perfino Pepe Mujica invece sono dei demoni. Angeli e demoni. Malizia e ignoranza. Ieri “La Stampa” di Torino presentava come l’ennesima stravaganza di Chávez il divieto di vendita di alcolici nel giorno delle elezioni. Personalmente faccio fatica (se esiste) a trovare un solo paese latinoamericano dove sia permesso vendere alcolici il giorno delle elezioni. La verità è che non solo anche nelle precedenti elezioni venezuelane era vietato vendere alcolici, ma che è vietato vendere alcolici in tutte le elezioni di tutto il continente.
Ma che ne sa “La Stampa” e, soprattutto, cosa importa. Il buon giornalismo non è verificare, raccontare e contestualizzare quello che accade. Il buon giornalismo, quello che paga gli stipendi, è quello che a tavolino decidono di rappresentare secondo interessi terzi. Il fatto che non si peritino mai di verificare e considerino da anni El País di Madrid come la velina unica per raccontare l’America latina, facendolo passare come un osservatore neutrale e perfino progressista della realtà latinoamericana, è esemplificativo di questo mix di malafede e ignoranza.
Chi scrive è stato probabilmente l’unico in Italia a denunciare, qui e ai microfoni di Radio3 Rai, il caso delle povere donne del Guanajuato, indigene, contadine, analfabete, condannate da una mostruosità giuridica anche a 30 anni di carcere per avere abortito. Al mondo ci sono mille casi come quello delle povere donne di Guanajuato ma, guarda caso, difficilmente giunge agli onori della cronaca quanto è considerato scomodo per governi amici come quello messicano, colombiano, egiziano, saudita. Per non parlare del libico da noi.
Come per Teresa Lewis giustiziata stanotte (e della quale si è parlato solo per la strumentalizzazione di Ahmedinejad) e come per il femminicidio di Teresa Buonocore a Portici, era difficile che le povere donne di Guanajuato bucassero il monoscopio. La loro era solo una drammatica, scomoda notizia e, come diceva in “Fortapásc” il collega anziano e accomodante di Giancarlo Siani, il giovane cronista ammazzato dalla camorra giusto 25 anni fa: “Gianca’, ’e notizie so’ rotture ‘e cazzo”. Molto meglio le veline.
Gennaro Carotenuto

giovedì 29 luglio 2010

LA FOSSA COMUNE PIÙ GRANDE DELL'AMERICA LATINA È IN COLOMBIA

http://www.annalisasmelandri.it/ - Un immenso cimitero. Si tratta della  “fossa comune più grande d’America latina”, come viene definita da mesi, da quando cioè a principio di quest’  anno è stata scoperta nel municipio di La Macarena, regione del Meta, in Colombia.  Adesso finalmente la fossa comune è una fossa D.O.C., è stata certificata cioè da una visita di una delegazione internazionale formata da parlamentari europei e statunitensi che hanno  potuto testimoniare  che quanto andavano da tempo denunciando alle autorità colombiane i contadini del luogo e gli abitanti del circondario, era vero. 
In Colombia, la democratica e civile Colombia, (niente a che vedere con quel covo di dittatori e  brutta gente come il Venezuela e Cuba) succede infatti che  se per esempio gli abitanti di una comunità  denunciano la presenza di un gigantesco “cimitero clandestino” dove spuntano femori e costole dappertutto e dove i cani e gli avvoltoi vanno  a fare merenda,  ci sia  bisogno poi  di un’intera delegazione di osservatori internazionali che lo confermino.
Succede  anche che  dopo la visita di tali osservatori, il ministero degli Esteri colombiano dichiari che  non esistono fosse comuni nella zona e succede perfino che il più importante  quotidiano del paese, El Tiempo, i  cui maggiori azionisti sono sia il  neo eletto presidente Juan Manuel Santos nonché ex ministro della Difesa, sia   suo cugino Francisco Santos attuale vicepresidente,   ignori completamente la notizia.
In Colombia accade anche che  da una parte e dall’altra del “cimitero clandestino” ci siano,  guarda caso,  rispettivamente una base militare e un  piccolo aeroporto. E nemmeno a farlo apposta erano proprio quegli inetti contadini locali che  invece di zappare la terra,   pare abbiano visto decine e decine di corpi venire  gettati da piccoli aerei  proprio nei pressi della  fossa comune.
Tutto ciò non era sufficiente in Colombia perché il paese avesse diritto ad un’indagine seria volta alla ricerca della verità,  sono stati necessari decine di osservatori internazionali a dar voce alla denuncia sporta a gennaio dai contadini di La Macarena. Si pensa che vi siano  duemila corpi in quel cimitero. O almeno ciò che ne  resta.  “Nessun problema” dichiarò a suo tempo il governo,  non si tratta di persone, “sono guerriglieri morti in combattimento”.
Troppa  fatica identificarli e dargli degna sepoltura e poi non sono così tanti,  “soltanto” 400, hanno dichiarato i militari del posto e il governo.  Roba piccola, sono anche stati già fatti a pezzi, non sono nemmeno tutti interi,  perché da quelle parti si usa smembrare  i cadaveri come pratica dell’ addestramento militare o paramilitare, che poi fa lo stesso. Dettagli.
Come un dettaglio insignificante pare essere il fatto che si sia veramente trattato di guerriglieri morti in combattimento. Si vocifera che si tratti di oppositori politici o contadini. Storia vecchia,  sempre la stessa, quella degli oppositori politici che vengono fatti sparire in Colombia.   Si  è scoperto invece  che in questo civilissimo paese,  i militari dell’esercito  usano ammazzare persone  innocenti, ragazzi adescati per strada con scuse banali come l’offerta di un lavoro,  dopo averli condotti varie centinaia di chilometri lontano da casa,  dopo avergli messo in mano un fucile e  addosso una divisa delle FARC facendoli passare  per guerriglieri.

ENGLISH: Flag of the Revolutionary Armed Force...

Un carnevale macabro  per ottenere promozioni e licenze premio, oltre a più soldi dal Plan Colombia.
Li hanno chiamati falsi positivi, e anche il nome è fuorviante perché anche se si tratta a tutti gli effetti di esecuzioni extragiudiziali o di sparizioni forzate, il termine falsi positivi non fa pensare immediatamente a questi delitti di Stato per cui un paese rischia la condanna per crimini contro l’umanità dai tribunali internazionali. 
Quella dei falsi positivi è un’invenzione di cui la Colombia detiene il brevetto,   allucinante e paradossale nella sua crudezza, degna di quel  realismo magico al quale proprio questo paese  ha dato grande contributo con le opere di Gabriel  García Márquéz.
Dice il grande scrittore colombiano che nel mondo che ha cercato di  rappresentare nei suoi romanzi, non esiste divisione tra ciò che sembra reale e ciò che sembra fantasia. In Colombia anche i peggiori crimini sembrano opere di fantasia tanto sono surreali.
Solo in Colombia si compiono massacri con le motoseghe,  o si gioca a pallone con le teste dei morti mentre in aria volteggiano gli elicotteri dell’esercito.  
La fossa di La Macarena potrebbe essere benissimo adesso quella  in cui il popolo colombiano dovrebbe  trovare la forza e il coraggio di  gettare finalmente,  insieme ai resti di quei duemila corpi senza nome né volto divorati dai vermi,  anche quello che resta di quella farsa che l’opinione pubblica internazionale si ostina a chiamare “democrazia colombiana”.
Qualche giorno fa si è celebrato in Colombia il Bicentenario del Grido d’Indipendenza. Hanno sfilato mossi da grande e nobile orgoglio nazionale,  più  di 400mila persone per le strade di Bogotá.
Io non amo le commemorazioni. Ancora meno quando si commemora un passato glorioso sotto il giogo di un presente nefasto e indegno.
Il Grido d’Indipendenza va dato adesso e subito! I colombiani adesso e subito devono scoprire l’orgoglio calpestato da qualche decina  di famiglie infami che continuano a sottometterli a ingiustizie  e violenze. Devono riscoprire l’orgoglio calpestato, nonostante quel  Grido di Libertà di duecento anni fa, da poteri stranieri che usano i  politicanti locali ancora oggi come burattini nelle loro strategie geopolitiche.
Quale Indipendenza si è celebrata  per le strade di Bogotà nei giorni scorsi? Quale Patria idealizzata si è riunita sotto il vessillo di Bolívar? La Marcia Patriottica si sarebbe dovuta dirigere verso Palacio Nariño, sede del governo e lì davanti scavare una grande fossa e gettarvi dentro  i narco paramilitari che lo abitano al grido di Colombia Libre!
Annalisa Melandri

lunedì 31 maggio 2010

IN COLOMBIA STRAVINCE SANTOS

Nei giorni scorsi si era paventata o attesa la possibilità che, alle elezioni presidenziali colombiane, Antanas Mockus (verdi) potesse superare Juan Manuel Santos (destra).Ma così non è stato.  Anzi.

“Così l’immagine dell’uomo forte, Álvaro Uribe ieri, Juan Manuel Santos oggi, vince ancora su quella dell’uomo civile. La paura vince sulla speranza, la corruzione sulla legalità, il SUV con i vetri polarizzati sulla bicicletta, l’indifferenza e l’ignoranza sull’impegno, il paramilitarismo sullo stato di diritto, la disinformazione del monoscopio informativo controllato dal berluschino Santos e dal Grupo Prisa spagnolo (quello di “El País”) sull’informazione, la destra, tutto quello che è destra, risulta meglio spendibile rispetto a tutto quello che destra non è.”
“Mentre la tensione tra Stati Uniti e Brasile (che si avvia a sostituire il Venezuela nel ruolo mediatico di “stato canaglia” regionale) sale, la Colombia di Santos continuerà ad essere quello che è stata con Uribe: un fucile puntato contro l’ordine e il progresso latinoamericano”.

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lunedì 11 gennaio 2010

L'ANGELO DELLA NOTTE

Distribuisce preservativi e sorrisi, facendo la spola fino a notte fonda fra quartieri malfamati e locali lussuosi, le due facce di una Cartagena de Indias che ogni settimana è presa d'assalto da turisti in cerca di divertimento estremo a basso costo.

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Fra strette di mano alternate a consigli sparati a muso duro alle prostitute che osano sdegnare il cappuccio salvavita, adocchia le bambine, anime fragili nascoste maldestramente dietro maschere di trucco e lustrini, che mal celano la tenera età. E con loro si trasforma: è la dolcezza carica di rispetto dell'educatrice che tenta di offrire ai minori di questa spietata quanto bella città colombiana una scelta, il biglietto per una nuova vita. Si chiama Leyla, ha trent'anni e tanti chilometri nelle gambe. Suo figlio, di dieci, vive con i nonni a Baranquilla, cittadina a un'ora di pullman verso nord, risalendo la costa caraibica. "Sono una mamma assente, lo so, vedo mio figlio solo il fine settimana, ma sento che un giorno capirà".

Dal lunedì al venerdì, ogni notte, Leyla è l'angelo della notte. Accompagnata dal suo fedele collega Donaldo, psicologo mite ed equilibrato, cammina per ore "fino a che il fisico regge" per seminare tra la gente nei vicoli zeppi di vite dimenticate da dio, il rispetto per i minori. "Che vengano risparmiati, almeno loro!", sussurra, sguardo al cielo. Lo sfruttamento sessuale minorile in questo angolo di mondo è oramai tradizione e a peggiorarlo è la sete di soldi facili portati dal business dei turisti in cerca di trasgressione. Se la bella Cartagena, a occhi distratti, sembra ben altro rispetto al resto della Colombia, dov'è guerra aperta da oltre quarant'anni fra gruppi rivoluzionari e potere costituito, a chi ha cuore e pazienza il quadro reale si mostra sotto altre tinte. La bellezza dei luoghi e il cordone di sicurezza creato intorno alla cittadina dalle grandi mura coloniali tengono lontani i kalashnikov della guerriglia, ma il conflitto si manifesta sotto altre sembianze: casupole stracolme di sfollati, morti ammazzati per un pezzo di pane, delinquenza, traffici illeciti e bande criminali che si contendono fette di territorio. In mezzo a tutto questo, il business della prostituzione, e poco importa se a esserne coinvolte sono bambine dai dieci anni in su.

"Il dolore e la violenza che ognuna di queste persone ha dovuto vedere e sopportare hanno corrotto le loro anime. Sono malati di morte", spiega fredda Leyla. Che fare, dunque, per salvare giovani vite da destini segnati? Cercare di gettare germogli di speranza nel letame, battere metro per metro gli slums più angusti e parlare con i più vulnerabili, giorno dopo giorno, per intaccare paure, ignoranza, corruzione, omertà, distintivi di una società per la quale violare una bambina è la norma. "Colpa sua, va in giro randagia. Colpa dei suoi, non la seguono. Queste le frasi più ricorrenti - riprende - in un mondo dove le ragazzine sfruttate non sono vittime, ma colpevoli più di chi ne abusa". Eccola Cartagena, orgoglio del turismo colombiano, gioiello architettonico corroso da una cultura machista incattivita da secoli di schiavismo (di cui ne era la porta di entrata), e incancrenita da decenni di guerra.

Il compito degli angeli della notte è duro e solitario. Giovani laureati che hanno scelto di sacrificare le proprie vite per un altro mondo possibile. Leyla, per poter continuare a tendere una mano a "tutte quelle piccole anime perse che ancora possono essere salvate", non solo ha rinunciato a vedere suo figlio, ma non ha una vita privata. "E' una condanna - sorride - ogni volta che scelgo di fidarmi di un uomo, prima o poi lo incontro nei locali erotici dove distribuisco preservativi. Qui, chi non cade in tentazione è perla rara". Ma lei non si abbatte. "Il mio scopo è offrire a queste future donne una possibilità". Una volta individuata fra le luci della notte, Leyla si avvicina alla bambina stretta in abitini sexy, la guarda con occhi abbaglianti e le parla per interminabili minuti. Solitamente esili, nere, occhi grandi, con loro sfodera istinto materno e pacata chiarezza. Ormai la conoscono, ma per vederle apparire al centro Renacer, il luogo dove vengono accolte, aiutate, istruite e accompagnate per mano verso una nuova vita, occorre tempo, pazienza. Quella ragazza piccola e riccia, con i capelli ribelli stretti in foulard colorati e appesa all'immancabile tracolla zeppa di condom è ormai punto di riferimento nella notte cartagenera. È la porta d'accesso, l'alternativa. Ma il coraggio di cambiare è diffidente e arriva raramente. "Finora sono una trentina gli ospiti del nostro dormitorio, quelli inseriti nei nostri corsi, un centinaio - spiega - ma questo losco affare coinvolge migliaia di vite, dobbiamo arricciarci le maniche e lavorare".

Con un pelo sullo stomaco inestirpabile, la donna si è fatta amica dei gestori dei night, dei capi gang degli slums e di qualche magnaccia. "Pur di arrivare alle bambine, questo e altro", ammette serena. Leyla offre strade concrete, non solo parole. Renacer, coordinata dalle Ong italiane Cisp e Coopi, ha messo a punto un programma che sta dando risultati straordinari, quindi poco importa se per strappare dalla strada anche un solo minore occorre essere gentili con il "bastardo di turno". Prevenzione, lotta e recupero dunque, con una priorità: garantire la libertà individuale. "Libertà dalla rabbia, dalla paura, dalla solitudine, dalla povertà - precisa Leya - La libertà di dire no all'assuefazione alla violenza, che piega vittime e carnefici".

Fonte

domenica 13 dicembre 2009

CECILIA, LA RIBELLE.

Santa Marta.
Cecilia ha quarant'anni ed è nata in un paese a poche ore da Nabusimake “donde nace el sol” in arhuaco, capitale della Sierra Nevada nei pressi di Valledupar a otto ore dalla città di Santa Marta in Colombia.

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La Sierra è la formazione montagnosa costiera più alta del mondo e la sua vetta maggiore è di 5775 metri.
Dalle sue cime si possono vedere i Caraibi.
Cecilia è un' india che ora vive al parco Tayrona, riserva colombiana di incantevole bellezza caratterizzata dallo spettacolo che offre l'incontro della selva, che arriva ad altezze di 900 metri, con le spiagge caraibiche.
Il Tayrona è parco nazionale di proprietà dello Stato dal 1969.

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Precedentemente tutta questa area, consistente in 15000 ettari dei quali 3000 marini, era di proprietà di differenti famiglie.
Il parco era e rimane un luogo sacro per gli indigeni Arhuacos, Kankuamos, Kogi e Wiwa e tuttora, al solstizio d'inverno e a quello estivo, i Mamos, gli sciamani delle comunità, si recano a Pueblito per cerimoniare la Madre Terra, la Pachamama, affinchè sia mantenuto l'equilibrio cosmico ancestrale.
Pueblito oggi è una meta turistica che conta d'alcune terrazze in rovina che in passato fungevano da centri agricoli.
Per arrivarci bisogna inerpicarsi per un sentiero di pietroni ben ripido e lungo due chilometri e mezzo che inizia nei pressi della spiaggia di Capo San Juan.

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Da Pueblito in tre giorni di camminata si può arrivare nel cuore della Sierra dove risiedono le comunità. Gli Indios scapparono per questa rotta all'arrivo degli spagnoli e lungo questo cammino costruirono la Città perduta.
Oggi a Pueblito vive solo una famiglia india che riceve i turisti e che bada al luogo.
Qui prima dell'arrivo dei conquistadores vivevano duemila persone.
Allora furono gli spagnoli a far da predoni; da quando il Parco è diventato riserva nazionale, il governo colombiano ha vietato ai nativi di viverci 'spostando' chi vi rimase sulla Sierra.

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Qui è nata Cecilia e qui ha vissuto fino ad otto anni fa.
Da allora vive vendendo artigianato precolombiano al Tayrona.
Qui conobbe molti turisti tra i quali antropologi e studiosi che le hanno chiesto di far loro da guida per la Sierra.
In quegli anni il monte era territorio controllato tra gli altri da una formazione guerrigliera alternativa alle Farc Ep.
Questa organizzazione era belligerante nei confronti delle comunità indigene; minacce ed estorsioni erano all'ordine del giorno.
Quando Cecilia accompagnò un'amica svizzera, Micaela, sulla sierra fu inevitabile incrociare uno delle numerose brigate delle Farc che controllavano la zona.
Il comandante accompagnato da psicologi interrogò Cecilia sul perchè fosse venuta accompagnata da una straniera.
Spiegando che il fine era semplicemente culturale passarono senza problemi e continuarono lungo il cammino.
Cecilia conobbe il comandante del frente 59 delle Farc, Higuen Martínez Arias, El Indio, guerrigliero nelle cui vene scorreva sangue indigeno, noto per la sua astuzia militare e per la sua disciplina.
Fu contenta di conoscerlo perchè con le Farc che controllavano l'area finalmente potette tornare alla sua finca senza rischiare di essere vittima di saccheggi e minacce.
Cecilia non era delle Farc ma semplicemente non negava loro aiuto quando queste le domandavano cibo o piccoli favori.
In quei mesi divenne amica del Comandante.
Guerriglia e indigeni erano vicini e vivevano nello stesso territorio.
Nel 2007 el Indio fu tradito dalla guardia del corpo più fidata; gli spararono in fronte mentra stava dormendo e, come prova della sua morte da consegnare all'esercito in cambio della ricompensa, gli tagliarono la mano destra.
Nello stesso periodo i militari sferrarono un'offensiva sulla Sierra.
Cecilia passa da una narrazione all'altra e parla delle Auc, le autodefensas:
..Violentavano, sventravano e svisceravano le madri indigene di fronte agli occhi di figli e mariti che se piangevano venivano ammazzati. Costringevano i familiari a mangiare il cuore cucinato alla piastra dei loro cari.
''Bastardi indigeni non avete fame? mangiate! Abbiamo un sacco di carne per voi''..
Cecilia durante il suo racconto a tratti ride e a tratti piange.
Siamo seduti ad un tavolo di un campeggio di una spiaggia di Arrecife.
Quando ammazzarono l'Indio tra tutto ciò che teneva con sè trovarono un'agenda con distinti numeri di telefono.
Tra questi c'era il numero di Cecilia, lo stesso che tiene tuttora.
Andarono a prenderla al suo piccolo negozio e le dissero di accompagnarli in commissariato per un controllo.
Vi andò incosciente che la stessero arrestando.
Alla stampa i militari dissero che la catturarono tra i monti durante l'operazione Sierra Nevada. Falso.
L'accusarono di ribellione e la imprigionarono per cinque mesi.
Mentre era in carcere non sapeva quanto lunga sarebbe stata la sua prigionia.
Il marito l'abbandonò nel momento in cui lei aveva più necessità.
Sua madre morì mentre lei era in cella, fatto che le portò la solidarietà di tutte le carcerate.
L'accusarono di reclutare stranieri nelle Farc.
In carcere gli indigeni la nominarono lider.
Ha visto assassini, paramilitari, narcos e anche guerriglieri uscire di prigione grazie a bustarelle di qualche millione di pesos.
L'indio, l'unico che avrebbe potuto aiutarla, era morto. Aveva sulla testa una taglia di 800 millioni di pesos.
Ci descrive il carcere nei minimi particolari.
Racconta la storia delle due paramilitari lesbiche che si sono innamorate in cella.
Racconta di com'era vivere nel carcere misto di Valledupar.
Racconta del secondino che si innamorò di lei.
Di come tutti in carcere siano innocenti; di come chi ci resti sia sempre di una classe bassa e marginale.
Di come solo e sempre i poveri paghino.
Ci racconta di una delle brutalità e della perversioni peggiori che l'uomo ha crato; il carcere. Il non poter vedere il cielo.
Racconta anche di quando aiutò un guerrigliero ad abbandonare le Forze armate rivoluzionare colombiane e la Sierra recuperando una macchina e aiutandolo con essa a superare un posto di blocco militare insieme ad altri familiari e amici indigeni incoscienti di tutto.
E ride. Ride Cecilia.
Era un comandante che abbandonò la guerra per amore di un'indigena, da cui ebbe un figlio, che finirà col tradirlo e col farlo ammazzare per diventare poi la donna di un paramilitare.
Storie di sotterfugi e tradimenti.
Ci dice che chiunque abbia un'arma è malato.
Di quanto il governo sia corrotto e di quanto il tradimento regni in Colombia, ad ogni lato.
Narra di come da giovane si oppose all'autorità indigena che era colpevole di discriminare i nativi evangelici da quelli tradizionali.
Leader dei tradizionali era suo fratello maggiore Vicente.
Anche allora fu imprigionata in un carcere della comunità indigena per ribellione.
Per tutto questo ancora adesso la chiamano Cecilia la revolucionaria.
Non è più cristiana ma crede solo nella Madre Terra.
Ora è agli arresti domiciliari che sta evadendo.
C'è un nuovo processo in ballo e potrebbe tornare in cella.
Tornerà sulla Sierra solo quando i Mamos, gli sciamani che puntualmente consulta, le diranno che non rischierà nulla e che sarà sicuro.
Gli stessi sciamani che le dissero di avvisare l'Indio, il comandante, che presto avrebbe subito un tradimento.
L'Indio non l'ascoltò e disse che se fosse morto sarebbe morto lì sui monti da comandante.
Intanto Cecilia sta là a vendere artigianato, borse precolombiane e bracciali, a lato della spiaggia con la selva che le fa da aurea protettiva.
Non ha più un marito, i due figli sono entrambi lontani e uno di essi è diventato un ladrone e s'è affiliato ad una banda di strada mentre lei era in cella.
Ha tanta indignazione e tanta sete di giustizia. Lo si legge nei suoi occhi.
E sta scrivendo un libro grazie alle pagine del diario che riempì durante le disperate e interminabili giornate di prigionia.
Sulla Sierra Nevada non ci sono più le Farc se non laboratori di cocaina e paramilitari.
Quelli che Alvaro Uribe dice di aver smantellato.

Fonte: http://vaccamagra.blogspot.com/

giovedì 18 giugno 2009

A VOLTE RITORNANO

I paramilitari colombiani continuano a uccidere la gente comune come e più di prima, smentendo Uribe. Parola di Amnesty International. I paramilitari colombiani - sì proprio coloro i quali avrebbero dovuto smobilitarsi grazie alla legge Giustizia e Pace di Uribe - continuano a uccidere la gente comune come e più di prima. Usando minacce, torture, violenza senza scrupoli, seminando il terrore nell'intero paese, spesso con il consenso delle forze di sicurezza, con le quali continua una pericolosa connivenza. Eppure, il governo continua a ripetere a non finire che tutti i combattenti degli squadroni della morte hanno detto addio alle armi. A denunciarlo, nella sezione dedicata alla Colombia del suo lungo e accurato report annuale sui diritti umani nelmondo pubblicato ieri, è Amnesty International.

paramilitari colombiani



Niente è cambiato. Nei dodici mesi prima del luglio 2008 sono stati attribuiti ai paramilitari di ultradestra 461 omicidi, il doppio del medesimo periodo nel 2007 (233). "I gruppi di paracos continuano ad agire, nonostante le dichiarazioni ufficiali secondo le quali si sarebbero smobilitati nell'ambito del processo patrocinato dal governo e lanciato nel 2003 - specifica il documento della Ong - Continuano a uccidere civili e a perpetrare altre violazioni dei diritti umani, e spesso con la complicità e l'accondiscendenza delle forze dell'ordine". Eppure, il governo del presidente Alvaro Uribe continua imperterrito a sostenere che il paramilitarismo non c'è più, che il processo di pace inaugurato nel 2003 è andato a gonfie vele, smantellando squadroni per un totale di 31mila combattenti. Ma i fatti dicono tutt'altro: il 90 percento hanno continuato come e peggio di prima, concentrando minacce e omicidi contro le vittime che avrebbero dovuto testimoniare in tribunale contro di loro.

Le Aquile nere. Magari non esiste più l'Autodifesa unita della Colombia (Auc), il gruppo paramilitare nato negli anni Ottanta e morto con la legge di Uribe, ma dalle Auc sono nate tante altre sigle, come le Aguilas Negras, che continuano sulla medesima scia di morte e soprusi, come se niente fosse. Anzi, secondo Amnesty, le nuove sigle si dedicherebbero ancor più agilmente al narcotraffico, con la connivenza del governo, visto che Uribe ha estradato ben 15 capi paracos negli Usa lasciando liberi posti chiave presto occupati da altri loschi figuri, e assicurandosi il loro silenzio mettendo tra lui e loro migliaia di chilometri di distanza. Secondo la Ong, infatti, questa decisione ha colpito le indagini sulle violazioni dei diritti umani commesse da questi gruppi e i loro nessi con politici o altri funzionari pubblici.



donna disperata per l'uccisione di un familiare da parte dell'esercito colombiano



Sindacalismo alla colombiana.

Amnesty ha anche denunciato l'impennata di sindacalisti assassinati e delle minacce contri i difensori dei diritti umani, perlopiù per mano paramilitare. "Sono almeno 46 i sindacalisti morti in modo violento nel 2008. Mentre nel 2007 se ne sono contati 39. E che dire dei 12 difensori dei diritti umani uccisi sia nel 2007 che nel 2008. Un'escalation che non accenna la sua folle corsa, a spese dei più deboli, dei più emarginati e di coloro che lottano per i diritti di tutti.

La guerriglia e l'esercito. Nel report di Amnesty non mancano nemmeno denuncie contro i due gruppi guerriglieri, Forze armate rivoluzionarie della Colombia, ed Esercito di liberazione nazionale. Le accuse sono: uso di mine anti-uomo, minacce indiscriminate, sequestro e uccisione di civili. Sarebbero da attribuire, secondo la Ong, 166 omicidi ai gruppi guerriglieri, contro i 214 del periodo precedente.
Ma non viene risparmiato nemmeno l'Esercito. Il riferimento è alle esecuzioni estragiudiziali di giovani civili spacciati per guerriglieri (i cosiddetti Falsos positivos): nell'anno preso in esame sono state almeno 296, mentre nei 12 mesi precedenti 287.
Preoccupazione anche per gli sfollati, che crescono senza soluzione di continuità, arrivando a toccare numeri astronomici: oltre quattro milioni, cifra che fa della Colombia il secondo paese al mondo per numero di desplazados, seconda solo al Sudan. Si tratta di persone che vengono ignorate dalla società, sono discriminate e senza accesso ai servizi di base, come la salute e l'educazione.
Continua anche l'arruolamento e il coinvolgimento dei bambini nella guerra. Sia la guerriglia che i paramilitari ingaggiano giovanissimi, e le forze dell'ordine gli reclutano come informatori, agendo contro quanto stabilito nel 2007 dal Ministero della Difesa, che impone il divieto di chiedere informazioni ai minori di 18 anni.





Parapolitica.

Amnesty descrive una Colombia in ginocchio. Dopo otto anni di governo Uribe, si registrano drammi e scandali. Uno su tutti quello della parapolitica. Sono settanta i membri del Congresso indagati per presunti vincoli con i paracos. Molti hanno preferito dimettersi, in modo da far passare il proprio caso dalla Corte suprema di Giustizia alle delegazioni locali della Fiscalia general de la NAcion, aumentando il rischio di manipolazione politica. Alcuni parlamentari hanno visto, infatti, archiviare i loro procedimenti, ma la Corte Suprema è intervenuta con severi giudizi di colpevolezza. Questo ha creato un conflitto con il Governo, dato che la maggioranza dei politici coinvolti è parte della maggioranza e uno dei magistrati della Corte più impegnati nel caso, Ivan Velasquez, è stato minacciato di morte.
Il rapporto assicura, comunque, che la più colpita dalla guerra interna - la cui esistenza è addirittura negata dal presidente della repubblica - è la popolazione civile: comunità contadine, indigene e di afrodiscendenti, tra le quali si contano 1492 vittime e 182 sparizioni forzate.

Stella Spinelli



martedì 21 aprile 2009

HANNO PRESO DON MARIO

Era coperto da foglie di palma e da lenzuola. Così lo hanno trovato e ammanettato. Era a Manuel Cuello, una frazione di Turbo, Antioquia, culla di innumerevoli stragi di civili per mano paramilitare in nome della lotta alla guerriglia. Si tratta di Daniel Rendón, alias Don Mario, il narcotrafficante più ricercato della Colombia, ex capo proprio di quei paracos che tanto sangue innocente hanno versato nella regione.

Conflict in Colombia, Putumayo

Il valzer della smobilitazione. Fino a meno di tre anni fa, infatti, comandava assieme a suo fratello Freddy Rendón, detto El Alemán, tra i blocchi più agguerriti dell'Autodifesa unita della Colombia (Auc), sanguinaria formazione che ha insidiato il paese per decenni. Gli uomini dei fratelli Rendón, però, si erano specializzati nell'atterrire comunità di pace, come quella di San José di Apartadó, o civili inermi in ogni dove tra il Chocó e l'Antioquia, dov'è stato appunto catturato don Mario.
Nonostante dal 2003, molti dei suoi uomini più fedeli, tra cui suo fratello, si fossero lasciati coinvolgere fino in fondo dall'invitante legge uribista Giustizia e Pace, lasciando ufficialmente le armi in cambio di una pena ridotta, Don Mario, dopo un primo avvicinamento al processo di pace, aveva preferito darsi alla clandestinità, continuando a giostrare narcotraffico e rinascente squadrismo reazionario (se mai è morto). Un'onta, questa, per il presidente Uribe che, pur in pieno scandalo della parapolitica (essendo accusato da più parti di avere rapporti privilegiati con il paramilitarismo che dice di voler combattere), aveva fatto di tutto per ripulire la fedina penale dei paracos facendoli rientrare dalla porta principale duri e puri.

Nel mirino. E così, Don Mario è diventato il principale obiettivo del Das, servizi segreti colombiani, e della Dea Usa, nelle braccia della quale sarà presto estradato, una maniera come un'altra per tappargli la bocca in vista di possibile rielezione.
La fase finale della sua cattura va avanti da due settimane, da quando la polizia lo ha individuato nell'accampamento dove pernottava custodito dal suo anello di sicurezza, cinque uomini armati e addestrati. Camuffati da medici, venditori ambulanti e volontari della chiesa, i poliziotti si sono infiltrati in tutta l'area. Dopo aver catturato Jaime Culma, detto El Puma, uno dei suoi luogotenenti, e Junith Márquez, impiegata nel municipio di San Pedro de Urabá dove si occupava di far avere contratti per favorire la rete di appoggio del narcotrafficante, il più era fatto.
Circondato da duecento uomini, è stato trovato "accucciato come un cane", per usare le parole del vicepresidente Santos, mentre mangiava del riso con le mani.



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La storia. Nato ad Amalfi (Antioquia) nel 1964, trascorse la sua infanzia in una piccola area rurale, con altri 15 fratelli. Qui, conobbe un'altra famiglia che cambiò il suo destino e per molti versi il destino della Colombia intera: i fratelli Fidel, Vicente e Carlos Castaño Gil, nativi di Amalfi e ben presto coinvolti nella spirale degli squadroni paramilitari delle Autodifesa, che prese forma nel nordest antioqueño e nella zona dell'Urabá con il fine di combattare l'avanzare della guerriglia. Alla fine degli anni Ottanta, suo fratello entrò nel gruppo de Los Guelengues a Necoclí, mentre Don Mario fu reclutato per la guerra a San Pedro de Urabá. Quando Fidel Castaño morì, i fratelli si divisero. El Alemán restò in Urabá con i Castaño e si converti nel puntale di penetrazione dell'inespugnabile dipartimento del Chocó, fondando il fronte Élmer Cárdenas, mentre Don Mario, convinto da Vicente Castaño e dai soldi del narcotraffico si trasferì nello Llanos Orientales, per appoggiare l'espansione del blocco Centauros, al comando di Miguel Arroyave, alisa El Arcangel.

La coppia. Insieme, e con la benedizione dei Castaño, fecero crescere in maniera esponenziale il blocco paramilitare, che arrivò a espandersi fino ai dipartimenti del Meta, Casanare, Guaviare e Arauca. Una nefasta alleanza che estese i suoi tentacoli fino a Bogotá, diventando la base per la creazione del cosiddetto bloque Capital. Poi successo l'irriparabile. Il duo Don Mario-Arroyave entrò in guerra con le Autodefensas Campesinas del Casanare, dirette da Héctor Buitrago, alias Martín Llanos. Fu una guerra alla morte che lasciò un numero altissimo di vittime e che incoronò Don Mario il re de Los Llanos.
Poi arrivò il 2003, e le Auc cominciarono a trattare con il governo. Don Mario fece un doppio gioco: organizzò i quadri per la smobilitazione, senza però disattivare il narcotraffico, e giostrò la lotta di potere che scoppiò nel blocco Centauros dopo che Arroyave venne assassinato dai suoi, nel settembre 2004.
Nell'agosto 2006, assieme al fratello, anche Don Mario decise di smobilitarsi. In pochi, però, lo seguirono e in Urabá le rotte mafiose restarono intatte. Per questo, quando entrò in crisi il processo di pace tra le Auc e il governo, Don Mario tornò alla clandestinità, coperto dalla rete di sempre. Scelse però di tornare alle origini, nascondendosi in Urabá, riorganizzando nuove squadre di paracos che si estesero dal Chocó a La Guajira, passando per Córdoba.

MASACRE SAN ONOFRE. FOSAS COMUNES. ENTREGA DE CUERPOS.
SAN ONOFRE-SUCRE. SEPTIEMBRE 7 DE 2006.
FOTO: JUAN CARLOS SIERRA-REVISTA SEMANA.

Parole di piombo. Solo negli ultimi 18 mesi, sembra abbia fatto uccidere tremila persone nella sua guerra per il potere. Le ultime si sono contate a Medellin, nella sua battaglia contro quel che rimane degli uomini dell'estradato Don Berna.
I tentacoli di Don Mario sono arrivati molto lontano, fino ad abbracciare il fratello del ministro degli Interni, Fabio Valencia, e oltre. Anche per questo sarà estradato quanto prima, nonostante sulla sua testa non penda nessuna causa per narcotraffico, solo cavillo che giustifichi l'estradizione negli Usa. Sarà che Don Mario è scrigno di così tanti segreti eccellenti, che sarà bene per la Presidenza tutta che venga allontanato prima che parli.


Stella Spinelli

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lunedì 9 febbraio 2009

IL CULTO DI ESCOBAR

Sono trascorsi 16 anni dalla morte di Pablo Emilio Escobar Gaviria (conosciuto anche come El Patrón, El Doctor o El Machico ), il più famigerato narcotrafficante colombiano praticamente una leggenda, quella del Cartello di Medellin, dello sfarzo e del lusso sfrenato abbinato al potere. All'apice della sua fortuna era l'uomo piu' potente della Colombia e forse dell'America Latina. Gestiva praticamente l'intero traffico di cocaina verso gli Stati Uniti, tanto che la rivista Fortune lo rubrico' come il settimo uomo piu' ricco del mondo. Ora i narcotrafficanti stanno lanciando una campagna di diffusione della cultura del narcotraffico e lo fanno attraverso i media.

Non solo, ma a Medellin questa lapide è diventata un affare turistico.


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Si organizzano tour di narcoturismo per visitare le coltivazione di coca e le residenze del Patrón, ben 19 nella sola Medellin. ( famosa al tempo era la fattoria 'Nápoles', il luogo di riposo prediletto da Escobar e forse il principale simbolo del suo potere, della sua ostentazione e della sua stravaganza. I suoi 492 ettari sono ricordati per avere ospitato uno degli zoo piu' impressionanti dell'America Latina, con giraffe, leoni, elefanti, rinoceronti, tigri, uccelli e ippopotami portati da Paesi come l'Etiopia e il Congo) .

Per la gioia dei turisti, pacifici agricoltori recitano la parte di spietati boss della droga, pollai e porcilaie vengono trasformate in improbabili laboratori per la lavorazione della cocaina, falsi parenti di Escobar e dei fratelli Ochoa raddoppiano le entrate delle guide turistiche di Cali e di Medellin. Negli hotel di Cartagena, bugiardissimi venditori di narcoreliquie assediano i turisti nordamericani.




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