sabato 30 ottobre 2010

CIAO, CLAUDIO

Oggi alle 14.30 a Busseto c’è il funerale di CLAUDIO CAROSINO, il “medico di campagna” ucciso dalla follia omicida di un anziano suo paziente.

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Non riesco a pronunciare inutili parole su Claudio e sul suo assurdo destino. Un altro bussetano, ben più bravo di me a scrivere, ha redatto quanto segue sul settimanale che dirige:

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28.10.10 - Ciao, medico angelo
Care lettrici, cari lettori, domenica sera hanno ucciso un mio amico. Si chiamava Claudio Carosino e faceva il medico di base al mio paese, Busseto. Aveva qualche anno più di me, non lo vedevo da un po’ di tempo ma ne conservavo il ricordo straordinario dell’epoca leggera dell’adolescenza e della giovinezza, quando cominciai a rendermi conto che lui era un modello di vita. Ma quasi irraggiungibile. Troppo aperto, dolce, generoso. Troppo buono, in una parola. Sembrava arrivasse da un altro pianeta, da una terra in cui ci si spende solo per gli altri e non per se stessi. Sempre con quel sorrisetto sotto i baffi, sempre con l’allegria e la levità di chi sa che la cura è anche conforto e consolazione, psicologia e buonumore. E l’hanno ammazzato.
Era stato chiamato da un anziano paziente, che aveva fatto il vaccino antinfluenzale e non si era sentito bene. Claudio ci era andato, perché lui visitava a domicilio anche la domenica, e rispondeva al telefono a ogni ora del giorno e della notte. Era già andato ad assisterlo altre volte, negli ultimi giorni. L’anziano paziente questa volta l’ha accolto con un colpo di fucile nel petto. Senza una ragione né un motivo, come canta Cocciante, senza niente. Un dramma della follia, della depressione, chi lo sa. Un dramma assurdo, incredibile.
Nel blog aperto sul sito della Gazzetta di Parma ora qualcuno si affanna a cercare spiegazioni («Le aspettative che una informazione e una società devianti creano circa la medicina hanno causato anche questa vittima», scrive Francesco), ma spiegazioni non ce ne sono. Chi ci segue sa che spesso in questa pagina tentiamo di riflettere sul sistema dell’informazione e sulle sue distorsioni. Eppure è arduo, in questa tragedia, attribuire colpe e indagare sulle cause, anche se non è affatto un discorso da bar il dire che viviamo in una società sempre più violenta. Il taxista milanese, la povera donna romena, l’ambulante di Bologna, perfino il barista pestato dal calciatore Mutu: le cronache non fanno altro che raccontarci di gente presa a pugni e calci per un nonnulla, con esiti spesso fatali e sanzioni a volte incomprensibilmente miti. È come se fossimo in presenza di un allentamento generale dei freni inibitori: dal linguaggio (a partire dai politici) sempre meno controllato fino alle espressioni di protesta popolare che perdono legittimità quando tracimano nella violenza. È un discorso lungo e complesso, ci torneremo.
Qui, ricordando il «medico angelo» ucciso senza un perché, vale forse la pena di fare una considerazione ex post. Su quanto sia difficile raccontare il bene. La morte di Carosino è stata «condita via» da qualche quotidiano così: «Lite sul vaccino, medico di base ucciso a fucilate», evocando (involontariamente) scenari criminali o di malasanità. Cioè quanto di più lontano da questa vicenda di innocenza e insondabili malattie mentali.
Io Claudio lo conoscevo, ed è solo per questo che ora ne parlo. Se mi avessero chiesto qual è l’uomo più buono del mondo avrei indicato lui. Ma non mi sarebbe mai venuto in mente di pubblicare un pezzo sulla sua «ordinaria» vita di persona dedicata agli altri, senza interessi e senza contropartite. Avrei pensato che non sarebbe stato interessante. Così mi trovo a parlare del bene soltanto quando il bene è stato sopraffatto dal male. Chiedo scusa a Claudio, e a tutti i Claudio d’Italia, che sono tanti. E invisibili.

Sarà forse una frase fatta, ma se ne vanno sempre i migliori.
 
Ciao Claudio

venerdì 29 ottobre 2010

DEPREDIAMO L’AFRICA COME FOSSE IL NOSTRO ORTO

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L’ultimo furto ai danni dell’Africa? La terra. Il continente nero sta diventando l’orto semi-gratuito degli speculatori: Occidente, nazioni emergenti e pirati economici internazionali stanno acquisendo a prezzi stracciati milioni di ettari, con la complicità dei governi locali corrotti. E’ l’allarme lanciato a Torino da “Terra Madre”, vertice mondiale delle “comunità del cibo”. Antonio Onorati, presidente della Ong “Crocevia”, chiede al più presto «una moratoria sugli acquisti di terreno in Africa da parte degli operatori stranieri». Obiettivo peraltro condiviso dalla Fao, che chiama le organizzazioni sociali e contadine ai negoziati coi governi di tutto il mondo per riscrivere le regole a tutela della sovranità alimentare.
Nel solo 2009, sottolinea la Banca Mondiale, in tutto il mondo circa 45 milioni di ettari di terreno coltivabile hanno cambiato di proprietà.

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Una cifra enorme, ricorda Onorati, pari a una volta e mezzo la superficie dell’Italia. Il fenomeno è conosciuto come “land grabbing”, “presa di possesso della terra”, ma la definizione rischia di cadere nell’eufemismo. In realtà, tuona il presidente di Slow Food Carlo Petrini, si tratta di una corsa senza freni all’accaparramento delle risorse. Una vera e propria “caccia alla terra”, che segue «una logica colonialista, imperialista e criminale: l’Africa non è il nostro orto, è l’orto degli africani», anche se i leader del G20 vedono le cose in modo molto diverso.
Secondo le stime Onu, l’Africa possiederebbe (o forse dovremmo dire “ospiterebbe”) almeno 700 milioni di ettari destinabili all’agricoltura. Di questi, tuttavia, appena il 7% riceve irrigazione e solo 4% è soggetto a una coltura di qualche genere. Il Continente, in altre parole, avrebbe a disposizione un potenziale agricolo spaventoso che, se da un lato stona clamorosamente con il persistente problema della fame, dall’altro alimenta i sogni di ricchezza dei Paesi importatori. Entro il 2050, la crescita demografica dovrebbe portare la popolazione mondiale a sfondare quota 9 miliardi: bel problema, visto che le risorse naturali, a cominciare da quelle alimentari, rischiano seriamente di non tenere il passo con questa espansione.

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I cinesi se ne sono già accorti, visto che dal 2008 hanno iniziato ad importare cibo per far fronte a una domanda che il mercato interno, da solo, non è più in grado di soddisfare. L’India e i Paesi del Golfo hanno seguito a ruota investendo massicciamente in Africa, dove la terra costa pochissimo: non più di 500 dollari per ettaro, venti molte meno che in Europa. Solo due anni fa, la multinazionale coreana Daewoo si è portata via 1,3 milioni di ettari del Madagascar. Dietro alla grande corsa, però, non ci sono solo i governi stranieri. Da almeno tre anni infatti quello del “land grabbing” è diventato uno degli affari prediletti della grande finanza: investimenti classici come i fondi pensione che ora si rifugiano nel business della terra, più stabile e sicuro, e autentiche operazioni di pirateria speculativa.
«Dopo aver guadagnato miliardi di dollari con l’impennata dei prezzi dei cereali tra il 2007 e il 2008», scrive “Il Fatto Quotidiano”, ora gli speculatori «contano di replicare ancora la scommessa vincente». Circa un anno e mezzo fa, il finanziere d’assalto Ian Watson aveva espresso il concetto in modo estremamente chiaro. «Quando guadagnano più soldi – aveva affermato – gli abitanti dei Paesi in via di sviluppo non acquistano un televisore con megaschermo; acquistano più cibo». “Agrifirma”, il fondo di Watson, controllava all’epoca già centomila acri di terra in Brasile. All’inizio del 2009, un gruppo di investitori guidato dalla famiglia Rothschild e dal finanziere Jim Slater ha immesso nel fondo oltre 150 milioni di dollari con un solo obiettivo dichiarato: comprare quanta più terra possibile.

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Nei Paesi africani, ovviamente, la complicità dei leader politici diventa essenziale. Il governo etiope, ricorda oggi Nyikaw Ochalla, direttore della londinese “Anuak Survival Organization”, difende la sua apertura agli investimenti stranieri dipingendola come una strategia utile per lo sviluppo dell’agricoltura locale e la riduzione della dipendenza dagli aiuti esteri. La realtà però è ben diversa, avverte il “Fatto”: «Il governo “vende la terra per niente, praticamente la regala”, e poco importa che i nuovi padroni scelgano di eliminare le colture alimentari per dedicarsi al business dei fiori e dei biocarburanti. Quanto al cibo prodotto, sottolinea ancora Ochalla, c’è poco da farsi illusioni. E’ tutto destinato all’export». Che ne sarà dei negoziati Fao sui diritti dei contadini poveri, che si concluderanno tra un anno?
Fonte: Libre

giovedì 28 ottobre 2010

L’AFRICA DELLE OPPORTUNITÀ

Quando l’uranio diventa un investimento

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Africa:  il continente del fascino e del terrore. Descritta dai viaggiatori europei con sentimenti contrastanti, è la terra dove la paura si fa seduzione: tutto è enorme, tutto è sconvolgente, tutto è paradossalmente affascinante.
La parola Africa viene spesso associata all’idea di povertà: le immagini del degrado più estremo, ad oggi, provengono da questa terra sconfinata. La terra che per i Paesi sviluppati è stata, ed è ancora, fonte di un’immensa ricchezza.
Parliamo di oro, parliamo di diamanti, parliamo di petrolio. Gran parte del continente può essere immaginato come un enorme magazzino di risorse naturali.
Negli ultimi anni, alcuni Paesi africani sono stati nuovamente spinti nell’occhio del ciclone, per via delle possibilità offerte dall’espansione del mercato di un’altra risorsa: l’uranio.
Per una serie di ragioni diverse (1), infatti, è iniziata un’espansione del settore elettronucleare a livello mondiale, che ha spinto in alto la domanda di questo minerale.

La spinta nucleare verso l’Africa
Bastano pochi dati per rendersi conto dell’ampiezza del fenomeno. Ad oggi, esistono al mondo 435 reattori; altri 53 sono stati commissionati, mentre è in discussione o in via di approvazione la costruzione di altri 136. La maggior parte dell’uranio prodotto nel mondo va a confluire in sei Paesi, e precisamente: Stati Uniti (30,21% del consumo mondiale), Francia (15,7%), Giappone (12,37%), Russia (6,39%), Sud Corea (5,88%), Cina (4,45%) (2). Riguardo a quest’ultimo Paese, le previsioni parlano di un aumento della produzione elettronucleare di dieci volte i livelli attuali entro il 2030. Uno sviluppo simile dovrebbe avvenire in India, che, nel 2020, avrà bisogno di una fornitura di uranio pari a dieci volte quella attuale.
Numerosi studi mostrano come le imprese produttrici non siano, per il momento, in grado di fronteggiare questa domanda crescente (3).
È facile immaginare quale sia stato il riflesso di questa situazione: da un lato diventa imperativo, per i Paesi fruitori, assicurarsi le forniture dei prossimi anni; dall’altro le imprese estrattive devono ampliare la propria capacità produttiva, soprattutto attraverso accordi commerciali con i governi dei Paesi produttori. Si tratta di una vera e propria “corsa all’uranio”, il cui buon esito impone la ricerca di nuovi siti e di nuove rotte commerciali.
Sulla scia di queste spinte, alcuni Stati africani sono stati oggetto di un imponente flusso di investimenti: le imprese minerarie stanno portando avanti nuove esplorazioni, nuove negoziazioni; stanno rivalutando depositi già scoperti e mai sfruttati; stanno persino convertendo all’estrazione di uranio alcuni impianti nati per scopi differenti. Oltre che ad un incremento della capacità produttiva, questa tendenza potrebbe essere interpretata come una strategia di minimizzazione dei rischi o anche come una ricerca di licenze a prezzi più bassi.
Qualunque sia la causa, tale strategia ha incontrato l’atteggiamento favorevole della gran parte dei governi locali, in alcuni casi interessati anche all’utilizzo interno del minerale a scopi energetici.
Una lista dei Paesi africani interessati è facilmente reperibile a partire dal sito della World Nuclear Association. Si tratta in tutto di diciassette Paesi, in cui le attività in corso vanno dalla semplice esplorazione all’estrazione vera e propria: i tre più promettenti sono Niger, Namibia e Sud Africa (4), cui si aggiungono Algeria, Botswana, Repubblica Centrafricana, Congo, Gabon, Guinea, Guinea Equatoriale, Malawi, Mali, Mauritania, Marocco, Nigeria, Tanzania, Zambia.
Tutti questi Stati, in un modo o nell’altro, sono stati investiti dall’interesse delle imprese minerarie. Gli investimenti sono provenuti in primo luogo dall’Australia, ed in misura minore dalla Francia, dal Canada, e in qualche caso dalla Cina.
Cerchiamo di capire le dimensioni del fenomeno con l’aiuto di qualche dato.

Tre piccoli giganti Africani
Anzitutto la Namibia: questo stato dell’Africa Meridionale è il quarto produttore mondiale di uranio, con una quota del 10% dell’output mondiale. Ad esempio, è qui che si trova il deposito di Rossing Uranium, il più esteso del mondo. Si tratta di una miniera situata poco lontano da Walvis Bay, importante, oltre che per la sua estensione, per la sua produzione annua, inferiore solo ai depositi di McArthur River in Canada e di Ranger in Australia. Di proprietà della Rio Tinto in compartecipazione con il governo locale (5), dovrebbe essere sfruttabile ancora per dodici anni (6). Si tratta di un deposito esistente dal 1976, le cui risorse accertate superano le 7000 tonnellate di uranio, mentre le risorse stimate superano le 50000 tonnellate. Recentemente ampliato, questo impianto minierario è stato affiancato da quello di Langer Heinrich, della Langer Heinrich Uranium, società facente parte del gruppo australiano Paladin Energy. Le dimensioni del giacimento si aggirano sulle 45000 tonnellate.
Secondo le previsioni, la produzione namibiana dovrebbe quadruplicare nei prossimi cinque anni con l’apertura di nuovi siti, di cui due dovrebbero essere pronti già dal 2011 (7). In effetti, si tratta di un Paese al centro di una lunga serie di progetti, il più importante dei quali è noto come piano Husab. Questo disegno riguarda un’area di 637 kmq, oggetto di esplorazioni a più livelli, in cui sono presenti più depositi. Il più importante di questi è il cosiddetto Rossing South, che si trova, appunto, poco a sud di Rossing, e sembra essere addirittura più promettente di quest’ultimo. L’esplorazione è portata avanti dalla Extract Resources, mentre la Rio Tinto ne detiene una quota minoritaria. Un altro piano che interessa la Namibia è il progetto Etango, della Bannerman Energy. Tutte e tre queste imprese sono australiane; il più grande investimento estero della storia di questo Paese, tuttavia, è stato effettuato nel 2008 da Areva, per la miniera di Trekkopje, vicino Swakopmund (8).
La società francese, però, è attiva soprattutto in Niger: è qua che è stata recentemente inaugurata la costruzione di una nuova, imponente miniera, nella località di Imouraren. L’impianto sarà per un terzo di proprietà del governo; nei progetti di Areva, l’estrazione dovrebbe iniziare nel 2012, raddoppiando la produzione nigerina e facendo del Paese saheliano il secondo produttore mondiale. Si tratta del quarto sito di proprietà della Areva: gli altri tre si trovano nei pressi di Arlit, capoluogo della regione di Agadez, nei pressi della stessa Imouraren.
Una regione calda non solo perché ai confini con il Sahara: anche la Cina ha vi ha intravisto una possibilità di azione. La Somina (Société des Mines d’Azelik), come lo stesso nome suggerisce, è nata per l’estrazione nella località di Azelik, ed è di proprietà della China Nuclear International Uranium Corporation per il 37%, del governo di Niamey per il 33%, della cinese ZXJOY per il 25%, della Korea Resources Corporation per il 5% (9).
Al contrario di quanto accade in Niger e Namibia, l’estrazione di uranio in Sud Africa è rimasta per lungo tempo un’attività collaterale all’estrazione di oro. Attualmente, sono in cantiere vari progetti per sfruttare l’uranio come sottoprodotto di quest’attività. La canadese First Uranium Corporation, ad esempio, lavora su entrambi i fronti: i luoghi di maggiore attività sono la miniera sotterranea di Ezulwini, sia uranifera che aurifera, e l’impianto Mine Waste Solutions in cui vengono trattati gli scarti per ricavarne uranio e oro a basso costo.
Il primo tentativo di costruire una vera e propria miniera di uranio è stato il progetto Dominion Reefs, portato avanti dalla canadese Uranium One e presto fallito (10). Il Sud Africa è attivo anche nella produzione di energia nucleare, con due reattori attivi sul territorio nazionale.

Un continente in fermento
Sebbene Namibia, Niger e Sud Africa rappresentino il luogo di estrazione della maggior parte dell’uranio africano, queste dinamiche svolgono un ruolo importante in tutto il continente, soprattutto in Africa Centrale.
Nel Botswana, ad esempio, è attiva l’australiana ACAP Resources, nel territorio di Letlhakane, in cui sono presenti tre giacimenti: Gorgon, Mokobaesi e Kraken (per un totale di circa 38,000 tonnellate di uranio). All’interno del Paese è attiva un’altra impresa australiana, la Impact Minerals.
Nella Repubblica Centrafricana, Areva ha rilevato la UraMin per sfruttare il giacimento di Bakouma, che dovrebbe contenere circa 38000 tonnellate di uranio. L’impianto è attualmente in fase di sperimentazione, e secondo l’impresa francese l’apertura dovrà attendere ancora quattro o cinque anni. Con l’accordo stipulato nel 2008, Areva ha accettato di cedere il 10% degli utili al governo, che ha ottenuto anche la stesura di un programma di aiuti finanziari.
La Repubblica Democratica del Congo ha alle spalle una storia di intenso sfruttamento, iniziato negli anni Quaranta, e tristemente legato allo sviluppo dei primi ordigni nucleari. Il sito più attivo è stato, fino all’indipendenza, la miniera di Shinkolobwe, nel Katanga. Nel 2009, il governo ha assegnato la licenza esplorativa della regione ad Areva.
Altri Stati stanno cercando di inserirsi nel mercato: il governo della Guinea Equatoriale, ad esempio, ha iniziato degli studi e introdotto un nuovo codice di regolamentazione del settore. In Gabon, pur non esistendo al momento miniere attive, sono attive delle campagne esplorative. L’attività estrattiva gabonese, nel passato, è rimasta legata al Commissariat à l’énergie atomique (CEA)  e, soprattutto, alla Cogema (oggi Areva). I depositi più attivi, oggi in gran parte chiusi, si trovavano nei pressi della città di Mounana.
Per nulla secondarie le attività in Africa Orientale, in particolare nello Zambia, dove, dal 2008, il governo locale ha iniziato la cessione delle licenze, aggiornando la legislazione del settore in consultazione con la IAEA. Da citare il progetto Mutanga, sviluppato dalla OmegaCorp e acquisito nel 2007 dalla  canadese Denison Mines: è senz’altro uno dei più imponenti, e dovrebbe giungere a compimento entro un paio di anni. Inoltre, mentre l’australiana Equinox Minerals sta mettendo a punto un impianto di estrazione di uranio dalla miniera di rame di Lumwana, una joint venture costituita dalla African Energy Resources e dalla Albidon (anch’esse australiane) sta eseguendo degli studi di fattibilità per i depositi di Njame e Gwabe (progetto Chirundu).
Anche la Tanzania è in fermento: dopo aver scoperto un deposito di circa 5000 tonnellate a Manyoni, l’australiana Uranex ha ottenuto l’approvazione di un progetto minerario a Bahi e ne ha steso un terzo per la zona di Mkuju e Songea. Svariati progetti sono inoltre portati avanti dalla Mantra Resources, anch’essa australiana. Il governo ha annunciato, per il 2010, una revisione della regolamentazione del settore, dimostrandosi inoltre interessato agli impieghi energetici dell’uranio.
In questa regione del continente occorre menzionare anche il Malawi. Nel nord di questo Stato, infatti, il deposito di Kayelekera, scoperto nel 1980 dalla Central Electricity Generating Board of Great Britain (CEGB), è stato gradualmente acquisito dalla Paladin Energy.
Dei tentativi sono portati avanti anche in Africa occidentale; nella Guinea, ad esempio, l’esplorazione è portata avanti dalle australiane Forte Energy (ex Murchison United) e Toro Energy, con risultati incoraggianti intorno a Firawa, nella prefettura di Kissidogou. La Forte Energy è attiva anche in Mauritania, proprietaria del deposito Bir En Nar.
Più di 8000 tonnellate di uranio (11) dovrebbero trovarsi anche in Mali, in cui si trova il deposito di Falea.
La Nigeria ha iniziato nel 2009 un rapporto di cooperazione con la Russia. Inizialmente limitata all’esplorazione e all’estrazione, la collaborazione dei due Stati si è successivamente estesa alla progettazione di un reattore.
Per completare il quadro, occorre citare due Stati del Nordafrica: Algeria e Marocco.
In Algeria esiste un unico deposito, Tahggart, risalente agli anni Settanta. Il governo, che stima la presenza di almeno 26.000 tonnellate di uranio, ha iniziato nel 2009 la cessione delle licenze di esplorazione.
Anche in Marocco, il governo sta cercando di valorizzare gli sforzi effettuati prima del 1982, esplorando le aree di Haute Moulouya, Wafagga e Sirwa. Allo stesso tempo, Areva sta portando avanti delle sperimentazioni sulle potenzialità uranifere dei fosfati, in accordo con l’ufficio governativo competente (Office Cherifien des Phosphates, OCP) (12).
Un sentiero di cambiamento, una lista di opportunità. Ma la storia insegna che non sempre le opportunità sono sufficienti. Occorre che ci sia una classe dirigente in grado di coglierle. Occorrono istituzioni funzionanti e infrastrutture. Occorrono interventi correttivi dei possibili effetti perversi di queste innovazioni.
Corruzione, spinta al ribasso dei salari, smembramento delle strutture sociali, mancanza di controlli sulla sicurezza, inquinamento, conflitti etnici: problemi quanto mai interconnessi, in questa enorme parte di mondo.
Una sola immensa terra, il giardino dell’Eden dove tutto ebbe inizio. Un immenso paradosso, senza fine e senza tempo, dove solo la bellezza sembra destinata a svanire.
Federica Nalli (dottoressa in Scienze Politiche all'Università degli Studi di Firenze)

Note:
  1. Vedi anche articolo su Eurasia, “Uranio: il minerale della discordia” di Federica Nalli (http://www.eurasia-rivista.org/6341/uranio-il-minerale-della-discordia )
(2) Elaborazione personale da dati World Nuclear Association
(3) Vedi anche articolo su Eurasia, “Uranio: il minerale della discordia” di Federica Nalli
(4) Vedi anche articolo su Eurasia, “Uranio: il minerale della discordia” di Federica Nalli
(5) La quota detenuta dal governo è del 3% mentre il 10% appartiene alla Industrial Development Corporation of South Africa (IDC), una società del governo Sudafricano.
(6) A. Ruffini, Uranium plays in Africa, Engineering & Mining Journal, Vol. 210, n 10, Dicembre 2009, Pagg. 76-78
(7) African Business, Feb2010
( 8 ) A. Ruffini, Uranium plays in Africa, Engineering & Mining Journal, Vol. 210, n 10, Dicembre 2009, Pagg. 76-78
(9) A. Ruffini, Uranium plays in Africa, Engineering & Mining Journal, Vol. 210, n 10, Dicembre 2009, Pagg. 76-78
(10) A. Ruffini, Uranium plays in Africa, Engineering & Mining Journal, Vol. 210, n 10, Dicembre 2009, Pagg. 76-78
(11) Etichettate come Inferred Resources, sottocategoria delle Risorse Identificate (IDR)
(12) Gran parte di queste informazioni è reperibile su www.world-nuclear.org
Fonte

mercoledì 27 ottobre 2010

IN PERÙ MIGLIAIA DI INDIOS BLOCCANO DUE FIUMI CONTRO L’INQUINAMENTO PETROLIFERO

Migliaia di indigeni della selva peruviana stanno bloccando il fiume Marañón, una delle principali vie di comunicazione nella regione di Loreto, nella parte amazzonica del Perù, per protestare contro la compagnia petrolifera Pluspetrol. Secondo fonti della polizia di Nauta, il blocco è stato realizzato alla confluenze del Marañón con il suo affluente Tigre, ed il traffico di merci e passeggeri è impossibile da ieri per la protesta alla quale partecipano almeno 5.000 indios. Il portavoce dei nativi, Dennis Pashanase, ha spiegato che «il  blocco del Marañón è iniziato in un primo momento con 1.200 persone, durante la giornata si sono uniti membri di altre comunità dei dintorni, ampliando il numero fino a 4.000 persone». Gli indios sono inferociti dopo un recente sversamento di 300 barili di petrolio nel bacino del Marañón e difficilmente molleranno. Tra i manifestanti ci sono indigeni delle etnie shawi, achuar e awajun che impediscono il transito con una "catena" di canoe e piccole imbarcazioni, fronteggiati da navi della Marina de Guerra peruviana.

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Il quotidiano peruviano El Comercio spiega che gli indigeni starebbero bloccando i fiumi per il pessimo comportamento dell'impresa petrolifera che è colpevole di continui sversamenti di petrolio e perché nessuno ha visto i finanziamenti per le scuole promessi da Puspetrol come indennizzo per l'ultimo inquinamento del fiume. La Pluspetrol è un'impresa con capitali argentini e aveva prospettato alle comunità indie grandi investimenti in educazione e salute, ma Pashanase ora dice: «Abbiamo offerto loro il nostro appoggio, ma alle fine erano semplici parole. Questo ha prodotto l'indignazione della popolazione che invece è stata colpita». Pashanase avverte il governo di Lima: «Si non ci sarà una soluzione, esigeremo che l'impresa fermi una volta per tutte il suo lavoro ed esca dal nostro territorio. Chiediamo solo che ci sia un dialogo in buona fede. «L'Amazzonia è come un leone mansueto, se non lo molestano si sdraia e dorme, però quando ci toccano ci mettiamo in allerta ed è proprio quello che sta succedendo ora».
Il blocco degli indios è più doloroso di quello che si potrebbe pensare per tutta l'economia regionale, nell'area mancano le strade e il fiume è l'unica via di comunicazione e per il trasporto di merci di prima necessità. Eppure dall'impresa argentina non arriva nessun segnale.
Il 28 settembre la Federación de comunidades nativas del río Corrientes (fecionaco) denunció un nuovo sversamento di petrolio della Pluspetrol nel fiume Corrientes che ha colpito 11 comunità di Villa Trompeteros; ma nonostante le proteste i petriolieri minimizzarono l'episodio dicendo che si trattava solo di 3 barili di greggio. Invece si era rotta una valvola delle Pluspetrol di Villa Trompeteros  e l'ondata nera era arrivata lungo i corsi d'acqua a 15 ed anche a 20 km dal luogo dell'incidente. Ma gli indios sono sempre più preoccupati per l'inquinamento diffuso che mette a rischio la loro salute. Per questo la Feconaco chiede al governo centrale e all'Organismo supervisor de la inversión en energía y minería (Osinermig) di indagare sugli sversamenti e di punire i responsabili dell'inquinamento dei fiumi.
Fonte

lunedì 25 ottobre 2010

NEMMENO UN EURO PER CHI MUORE DI FAME.

E' una politica di affari

Il missionario comboniano commenta la cancellazione del debito di Antigua. «E i paesi poveri? L’Italia non ha dato niente per Global Fund, e la gente muore».

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Una vergogna ma non una sorpresa. Perché la cancellazione del debito al “paradiso fiscale” di Antigua è l’ennesima riprova di quali siano il connotato fondante della politica estera italiana: una politica di affarismi.
A denunciarlo è Padre Alex Zanotelli, tra le figure più rappresentative del pacifismo italiano. «Se c’era un Paese a cui il debito doveva essere subito cancellato - rimarca Padre Zanotelli – quel Paese era Haiti. Invece abbiamo aspettato il terremoto per farlo». Quello di Zanotelli è un lucido, appassionato, argomentato j’accuse: «L’Italia - dice a l’Unità - disatteso gli impegni che si era assunto nell’ambito del Global Fund. Non abbiamo dato nulla, nulla...Ciò significa che abbiamo condannato a morte milioni di persone. Pensiamo solo all’Aids: solo in Africa ci sono 38 milioni di malati terminali. Per loro non abbiamo fatto nulla. Per Antigua invece...». Di fronte a questo scempio di diritti, di dignità, di vita, vale quanto Alex Zanotelli afferma nel suo libro «Inno alla vita» (EMI): «Dalle favelas del Brasile alle baraccopoli di Nairobi è il grido dei poveri che ci spinge a parlare. È la loro sete di vita che ci spinge a denunciare questo sistema di morte...È fondamentale il recupero della rabbia, dell’indignazione per l’assurdità in cui viviamo...». Il debito cancellato al paradiso fiscale caro al Cavaliere è parte di questa «assurdità».
L’Italia, maglia nera per le inadempienze in campo internazionale, nel 2004, ha cancellato la quasi totalità del debito estero del «paradiso fiscale» di Antigua ....
«Questa è una bruttissima storia, una vergogna...Ma è l’intera storia del debito ad essere gravissima. Nel 2000 il Parlamento, all’unanimità, decise la remissione del debito estero ai Paesi poveri. Dopo 10 anni di quel proposito se ne è realizzato nemmeno il 50%. Altro che Antigua: il debito andava rimesso soprattutto a quei Paesi su cui pesava maggiormente. A chi per pagare il debito non realizzava scuole, ospedali, infrastrutture, servizi sociali... Se c’era un Paese a cui il debito doveva essere subito cancellato, quel Paese era Haiti. Invece abbiamo aspettato il terremoto per farlo...»
Di cosa è paradigmatica la vicenda del debito che l’allora governo Berlusconi III decise di cancellare quasi al 90%?
«Questa brutta storia rivela quali siano le priorità della politica estera italiana. Noi non abbiamo più fondi per la cooperazione, l’Italia ha dato la priorità verso i Paesi impoveriti non alla cooperazione ma al business. L’imperativo è fare affari. È una politica estera di affarismi.... A proposito di scelte vergognose: quella di Antigua non è la sola...»
Quale altra vergogna andrebbe rimarcata?
«Penso al sostegno che l’Italia sta dando al regime eritreo, un regime ferocemente dittatoriale. Nonostante le denunce di tutte le più importanti associazioni umanitarie, l’Italia continua a fare affari con un Paese come l’Eritrea. In politica estera siamo andati di male in peggio. Non a caso si chiama ministero degli “Affari” esteri...»
Cos’altro denunciare?
«L’elenco sarebbe lunghissimo. Ma c’è una cosa che va gridata alta e forte. Su cui andrebbe praticato il diritto-dovere all’indignazione: l’Italia ha disatteso gli impegni che si era assunto nell’ambito del Global Fund. Non abbiamo dato nulla, nulla...Ciò significa che abbiamo condannato a morte milioni di persone. Pensiamo solo all’Aids: solo in Africa ci sono 38 milioni di malati terminali. Per loro non abbiamo fatto nulla. Per Antigua invece...»

Tratto da:
l'Unità

venerdì 22 ottobre 2010

E ORA COLERA…

PORT-AU-PRINCE, HAITI - JANUARY 25: A Haitian ...
Image by Getty Images via @daylife
E' COLERA L'EPIDEMIA CHE HA FATTO OLTRE 50 MORTI AD HAITI
AGI) - Port-Au-Prince, 21 ott. - E' colera l'epidemia di dissenteria che ha colpito i terremotati di Haiti uccidendo oltre 50 persone. Lo precisano fonti del ministero della Salute che chiedono l'anonimato. Il governo, finora, si era limitato a parlare di casi di diarrea per non scatenare il panico. "I primi risultati dei test di laboratorio mostrano che si tratta di colera. Non sappiamo ancora di quale tipo", ha detto l'anonimo.

Fonte

martedì 19 ottobre 2010

CARA MARINA CHE DIFENDI L’AMBIENTE, NON PUOI NON VOTARE E FARE IL GIOCO DELLA DESTRA

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A fine mese il Brasile saprà chi prende il posto di Lula alla presidenza. La sorpresa del primo turno sono i 20 milioni di voti raccolti da Marina Silva. Voti per lei non per il partito dei Verdi perché gli elettori hanno scelto una persona, non un partito. Il che pone tanti interrogativi. Buona parte di chi ha votato Marina si è messa d’accordo nella scelta attraverso le reti sociali di internet il quale funziona come gigantesco manifesto virtuale. Migliaia di persone ne hanno discusso nell’universo web e attraverso web hanno cercato le ragioni che suggerivano una candidata senza apparati e con pochi soldi. È curioso constatare che la militanza virtuale cresce nel dialogo tra persona e persona; militanti volontari nelle strade: pagavano di tasca propria manifesti e volantini, vendevano piccole cose dell’artigianato povero per raccogliere quanto bastava a nutrire il loro volontariato. La differenza è proprio questa: chi insegue un’idea senza badare ai sacrifici e chi fa le stesse cose per guadagnare un po’ di soldi senza conoscere i programmi del candidato del quale canta le lodi. Insomma, mercenari per bisogno.Marina ha scelto “la neutralità. I delegati verdi hanno votato a San Paolo il loro distacco: 84 delegati si sono decisi per il “no”. Solo quattro hanno proposto di appoggiare Dilma Rousseff.
Contrariamente alla distrazione che affligge sia il Pt di Lula e di Dilma Rousseff, sia il Psdb del candidato conservatoe José Serra, il tema della difesa dell’ambiente anima il proselitismo di Marina Silva. Non è solo un argomento “verde”. La società è molto preoccupata del degrado, del riscaldamento globale, della deforestazione dell’Amazzonia e della costruzione di giganteschi sbarramenti idroelettrici che snaturano immense regioni e umiliano la sopravvivenza di chi vive con i rutti della terra.
Marina Silva si è offerta politicamente quale portavoce delle richieste fondamentali della società, richieste mai davvero raccolte dal Pt e dai conservatori di Serra. Parafrasando Shakespeare, vi sono più cose tra la sinistra e la destra di quanto immaginano i cacicchi dei partiti. Marina ha inventato una griglia che rompe la polarizzazione paritaria sempre più lontana dalle esigenze delle persone. E 20 milioni di brasiliani hanno visto in lei una nuova speranza.
La candidatura di una donna cresciuta nell’analfabetismo delle foreste con la voglia di sapere per capire all’ombra di Chico Mendes; una donna che ha bloccato la deriva plebiscitaria prevista per Dilma Rousseff attorno alla quale si è stretto il Partito dei Lavoratori; questa donna impone alla vincitrice o all’improbabile vincitore Serra, l’obbligo di ascoltare le proteste e cambiare i programmi del governo che verrà. Chi va a votare vota per risolvere i problemi e acquietare l’angoscia della sopravvivenza. Non vuol sapere se il miglior presidente del Brasile è stato Hentique Cardoso, teologo dell conservazione, o Lula da Silva del partito che rappresenta la sinistra urbana. Vuol sapere quale futuro lo aspetta. Quale tipo di vita sarà concesso dallo sviluppo economico che i candidati promettono. Non è un problema brasiliano. In ogni parte del mondo il nodo non cambia: scuola, salute, lavoro. E come potrà respirare se l’Amazzonia sopravvive o verrà mangiata dalla soia e dagli speculatori.
Marina è una debuttante nel partito dei Verdi mentre l’immagine di Lula è più forte dell’immagine del suo partito. Come in ogni altro partito anche la storia dei Versi è segnata dalle contraddizioni. Hanno fatto parte del governo di Lula (Ministero della Cultura), hanno collaborato con Josè Serra, governatore di San Paolo (ministro per la difesa dell’Ambiente). I Verdi potranno scegliere di restare sulla cresta dell’onda sedotti dal canto delle sirene che hanno vinto, quindi accettare qualche ministero nel futuro governo. Marina no. La sua storia è di coerenza etica, testimone mai scesa a compromessi. Ma bisogna dire che non può restare neutrale nella lotta del ballottaggio. La politica della neutralità è peccato di omissione. Nessun momento della nostra vita – dal caffè della mattina al trasporto quotidiano – sfugge alla logica della politica. Marina non è arrivata da Marte. Viene dalle comunità dell’Acre, comunità ecclesiale di base, dalla scuola di Chico Mendes, dal Pt che l’ha portata in Senato e l’ha voluta Ministro federale dell’Ambiente nei due mandati di Lula. L’elettore chiede a Marina di schierarsi e di farlo in coerenza con la sua storia di militante dai principi etici e ideologici che non hanoo mai tremato. Sarebbe sconfortante vederla osservare senza decidere. Non è in buon fedele solo chi abbraccia una religione. Bisogna essere fedeli alla traiettoria che ha permesso a Marina di diventare una delle più ammirate e popolari leader del Brasile. È in gioco non il futuro elettorale della senatrice Silva e del suo immenso patrimonio politico, quei 20 milioni di persone aggrappate alle sue parole; è in gioco il futuro prossimo del paese. Nei quattro anni che ci aspettano, la sua influenza può cambiare carattere e decisioni del nuovo governo. Ecco perché è necessario che i Verdi e Marina scelgano fra due progetti così diversi nelle intenzioni, ma anche pericolosamente diversi nella considerazione della dignità del popolo.

Frei Betto
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lunedì 18 ottobre 2010

IL BRASILE CEDE L'AMAZZONIA ALLE COMPAGNIE DEL LEGNO

Il Brasile ha annunciato la messa all'asta ampi blocchi di foresta amazzonica, che saranno dati in gestione a imprese private e cooperative, allo scopo di ridurre il taglio illegale. Dopo anni di scontri legali e di opposizione politica, il governo riscopre le concessioni forestali e cederà ai privati le foreste nazionali. "Il futuro dell'Amazzonia, la lotta alla deforestazione e al cambiamento climatico, si devono basare sulla gestione forestale, non vedo altra soluzione - ha dichiarato alla Reuter Antonio Carlos Hummel, a capo del servizio forestale del Brasile.

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Secondo il governo, le concessioni contribuiscono a a stabilire un maggiore controllo statale nella regione amazzonica spesso senza legge, dove i latifondisti e gli speculatori si impossessano illegalmente di terreni pubblici. E cos', entro la fine dell'anno, il governo concederà a imprese forestali e compagnie del legno quasi 1 milione di ettari in concessione. Nel giro di 4 o 5 anni, quasi 11 milioni di ettari, le dimensioni di un terzo dell'Italia. Le concessioni esistenti si estendono ora su appena 150.000 ettari.
Secondo il governo brasiliano, a differenza del taglio illegale e della pratica del "slash and burn" (taglia e brucia)  che ha già distrutto quasi il 20 per cento della principale foresta pluviale del pianeta, il taglio selettivo consentirebbe alla foresta di rigenerarsi naturalmente. Ma uno studio del Carnegie Institute di Washington avverte che anche il taglio selettivo può causare seri danni alla biodiversità. Combinando l'osservazione sul campo allo studio delle immagini satellitari ad alta risoluzione il Carnegie Institution, ha determinato che i convenzionali metodi di analisi sottostimano del 50% circa del danno causato dal prelievo legnoso. Inoltre, il taglio selettivo provoca un ulteriore 25% di emissioni di gas serra nell'atmosfera. "L'impatto globale del taglio selettivo sulla biodiverstà è meno drammatico rispetto alla perdita causata dal taglio a raso,  ma può comunque alterare in profondità l'habitat forestale" ha spiegato Greg Asner, del Carnegie Institute di Washington. Un altro studio, pubblicato dalla rivista Science in nell'ottobre 2005 mostra che il taglio selettivo di due o tre specie di albero comporta un danno collaterale che può andare dal 60% al 123% della deforestazione fino ad oggi calcolata. All'attuale tasso di deforestazione, le foreste tropicali rischiano di scomparire nel giro di 20 anni.
Fonte

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Deforestation Figures for Brazil

Year
Deforestation
[sq mi]
Deforestation
[sq km]
Change
[%]
19888,12721,050
19896,86117,770-16%
19905,30113,730-23%
19914,25911,030-20%
19925,32313,78625%
19935,75114,8968%
19945,75114,8960%
199511,22029,05995%
19967,01218,161-38%
19975,10713,227-27%
19986,71217,38331%
19996,66417,259-1%
20007,03718,2266%
20017,01418,1650%
20028,26021,65117%
20039,80525,39619%
200410,72227,7729%
20057,34119,014-31%
20065,51514,285-49%
20074,49811,651-18%
20084,98412,91111%
20092,8897,484-42%

All figures derived from official National
Institute of Space Research (INPE) data
. Individual state figures.
*For the 1978-1988 period the figures represent
the average annual rates of deforestation

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Deforestation in Brazil: This image of the southern Amazon uses satellite data from the Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer (MODIS) on the Terra satellite collected in 2000 and 2001 to classify the terrain into three separate land surface categories: forest (red), herbaceous (non-woody) vegetation like grasses (green), and bare ground (blue). The Amazon's numerous rivers appear white.

mercoledì 13 ottobre 2010

LA RIPRESA È INIZIATA! PER I RICCHI!

Lo 0,17% della popolazione mondiale possiede più della metà del PIL mondiale !!!!
Di seguito l’articolo riportato pubblicato nel numero di luglio/agosto della rivista “Valori“, pubblicata dal Gruppo di Banca Etica. Come sempre, viene dimostrato che le crisi servono sopratutto a far si che i ricchissimi diventino ancora più ricchi….

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______________________________________

La crisi ha invertito rotta, almeno per alcuni.
In particolare per i più ricchi. Ogni anno la società di consulenza Cap Gemini realizza un’indagine, per conto di Merrill Lynch Global Wealth Management (la sezione della ex banca d’affari statunitense dedicata ai clienti danarosi), per verificare come si sta muovendo la ricchezza nel mondo. Risultato:
nel 2009 gli high net worth individual (HNWI, individui con un elevato valore netto) sono saliti a dieci milioni. Con questa definizione Cap Gemini si riferisce ai soggetti con un patrimonio di almeno un milione di dollari (esclusi la proprietà destinata alla residenza primaria, i beni esigibili, i beni di consumo e i beni di consumo durevoli). Questi ricchi, messi tutti insieme, possiedono 39 mila miliardi di dollari (più di metà del Pii mondiale), una cifra che nel 2009 è cresciuta del 18,9% rispetto all’anno prima. “Sono state quasi interamente recuperate le perdite subite nel 2008″, si legge nell’indagine. «A trainare la ripresa sono stati i mercati emergenti, in particolare India e Cina, oltre al Brasile, e saranno questi stessi Paesi a guidare la crescita anche in futuro», ha dichiarato durante la conferenza stampa di presentazione dell’indagine Ettorina Schiaffonati, Vice President, Financial Services, Capgemini Italia. «Nel 2009 l’Area asiatica del Pacifico è stata l’unica regione a registrare una forte espansione dei fattori macroeconomici e finanziari che influenzano la ricchezza».
Nonostante la crescita della ricchezza dei ricchi sia stata più marcata nei Paesi in via di sviluppo, la popolazione mondiale dei milionari e la ricchezza complessiva rimangono principalmente concentrate negli Stati Uniti, in Giappone e in Germania, dove nel 2009 vive complessivamente il 53,5% della popolazione mondiale di HNWI.
E in Italia? Alla fine del 2009 i milionari erano 178.800, il 9,2% in più rispetto ai 163.700 del 2008 dopo il calo del 20,8% dell’anno precedente.
A corollario, indovinate quali sono i dirigenti aziendali che guadagnano di più? ma che domande, quelli che licenziano di più. In questo articolo si riporta come i manager di 50 aziende americane, che hanno ridotto di più i dipendenti, hanno guadagnato in media 12 milioni di dollari…..ottimo no?
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martedì 12 ottobre 2010

LA SFIDA DELL’AFRICA: WANGARI MAATHAI

L’Africa è il continente dimenticato. L’Africa è una miniera di risorse. L’Africa è il buco nero della storia. L’Africa è la terra di conquista per i cinesi. L’Africa è un grande punto interrogativo o per dirla alla latina “hic sunt leones”. Libri scritti sull’Africa ce ne sono a centinaia, ma sempre a partire da uno sguardo esterno. Tra i tanti autori che hanno descritto quale sia “la loro Africa” quasi nessuno è africano. Chi è nato in questo straordinario continente si rivolge più spesso agli stranieri che agli altri africani. Nessun autore racconta agli africani una visione “africana” dell’Africa.

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Nel suo discorso di Accra, Barack Obama ha messo in chiaro un principio che dovrà valere da qui in futuro per tutti gli stati africani che hanno scelto la strada della democrazia. Il destino dell’Africa è in mano agli africani. Ecco la promessa. Ecco la sfida dell’Africa che ci racconta Wangari Maathai, donna leader del movimento ecologista keniota “La cintura verde” nato trent’anni fa per salvaguardare la biodiversità di una natura sempre più devastata e divenuto con il tempo una forma di aggregazione popolare per coltivare insieme agli alberi anche i diritti umani e quella società civile che in Africa manca.
Wangari Maathai è figlia di quel sogno kennediano che ha concesso a molti giovani africani di andare a studiare in America per costruire una nuova classe dirigente per l’avvenire della decolonizzazione. I sogni di quella generazione, che Obama narra nei “Sogni di mio Padre”, sono i semi del movimento di Wangari e di quell’etica della responsabilità che le ha valso il premio Nobel per la Pace nel 2004. La sfida dell’Africa è riconoscere di essere saliti sull’autobus sbagliato e cambiare direzione. Non si tratta di una sfida facile e Wangari Maathai ce lo spiega bene ricordando quanto siano profonde le eredità del colonialismo e quanto i leader africani abbiano fatto poco per disfarsene offrendo “una soluzione africana” ai problemi del continente.

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Un continente diviso in macro-stati dai confini fittizi e dalle molteplici identità culturali e linguistiche, dove centinaia di guerre civili negli ultimi cinquant’anni hanno radicato profonde divisioni non può garantire una risoluzione dei conflitti semplicemente con la democrazia. È necessario un passaggio obbligato verso la riconciliazione nazionale, come avvenne nel fortunato caso sudafricano. Se Kigali diventerà la Zurigo africana sarà possibile soltanto attraverso un modello democratico consensuale che accetti le diversità micro-nazionali come ricchezza piuttosto che accusarle di forme di tribalismo. Se nel futuro si vuole che il carisma della leadership femminile come quella di Ellen Johnson Sirleaf vinca anche in altri stati del continente, ricordando che in molte culture africane la parità tra i sessi è stata una cosa normale, allora bisogna continuare ad offrire alle donne l’opportunità di istruirsi ed emanciparsi. Se si vuole garantire il giusto riconoscimento alle leadership africane che si sottraggono alla logica della corruzione e della violenza per fare il bene del proprio paese allora è opportuno studiare degli strumenti per valorizzare una tale etica, come fa il premio Ibrahim.
I grandi vertici internazionali come il G20 potranno continuare a promettere molto (mantenendo spesso poco peraltro), ma poco cambierà sin quando si resterà nella logica “benefattore – assistito”. Soltanto riqualificando questa relazione ad un rapporto tra pari fondato “sul mutuo rispetto e mutua responsabilità”, come dice Obama, l’Africa troverà la propria strada, la propria identità e dignità e le proprie radici. In caso contrario l’aiuto allo sviluppo diventerà un veleno. Questa la sfida di Wangari Maathai e del suo movimento della cintura verde.
Fonte

lunedì 11 ottobre 2010

QUANDO I NERI FANNO LA STORIA

Fulgore e decadenza del Medioevo africano
di Serge Bilé

«Le donne oltre alle occupazioni quotidiane devono essere associate a tutti i nostri governi.»
«Non fate mai torto agli stranieri.»
Due articoli del Kurukan Fuga
(Regno del Mali, 1222)

Arriva dalla Francia l’ultimo libro di Serge Bilé, Quando i neri fanno la storia, fulgore e decadenza del Medioevo africano, titolo originale, Quand les noirs avaient des esclaves blancs.
Un libro agile che racconta, in chiave divulgativa, la grande Storia africana precoloniale.

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Bilè, giornalista, documentarista, scrittore e musicista ivoriano, vive in Francia. I suoi lavori di divulgazione da sempre mettono in luce aspetti inediti o sottaciuti della storia degli africani e della diaspora nera, così come la persistenza  dei pregiudizi razzisti.
Nel 2005 una rivista parigina aveva dedicato un articolo alla storia delle parole affermando che l’Africa Nera non aveva conosciuto un sistema di scrittura.
Alcune settimane dopo, sempre in Francia, un deputato aveva giustificato la Loi de la Honte, del febbraio 2005, che riabilitava la presenza coloniale francese nell’Africa settentrionale spiegando che la colonizzazione aveva svolto un “ruolo positivo”, consentendo ai bambini africani di “avere una scuola”.
Ma non bisogna andare troppo indietro nel tempo per sentire alcuni politici italiani etichettare con il termine dispregiativo “Bingo Bongo” gli immigrati africani arrivati in Italia.
Al contrario, nel passato l’Africa ha conosciuto non meno di sette sistemi di scrittura ed esistevano scuole e università fin dal Medioevo.
A dispetto dei luoghi comuni, il continente africano è stato per secoli una fucina di civiltà.
È africano infatti il Kurukan Fuga, una vera e propria “dichiarazione dei diritti umani” (ben anteriore a quelle che conosciamo nella storia europea) promulgata nel cuore dell’Africa occidentale, dal fondatore dell’impero del Mali nel 1222.
Tra l’VIII e il XVI secolo, in quella vasta porzione di continente nero si sono succeduti tre imperi: Ghana, Mali, Songhai, situati in quello che un tempo veniva chiamato Sudan Occidentale, talmente ricchi da potersi permettere di avere schiavi bianchi, le cui civiltà nulla hanno da invidiare a quelle che conosciamo dai libri di scuola.
Quando i neri fanno la storia, vuole ricordare, come afferma l’autore: “che ci fu davvero in Africa una specie di età dell’oro. Un’età che spetta proprio agli africani riportare alla luce per inventarsi un grande futuro.”
Fonte

mercoledì 6 ottobre 2010

PROFILO MONDIALE E LATINO-AMERICANO

L´Universitá di Bergen in Norvegia svolge un Programma Internazionale di Studi Comparati sulla Povertá. Le loro analisi, come osserva il sociologo argentino Atílio Boron, hanno smascherato il discorso ufficiale elaborato per trent´anni dalla Banca Mondiale e riprodotto instancabilmente dai grandi mezzi di comunicazione, autoritá di governo, accademici e intellettuali.

Attualmente il pianeta é abitato da 6,8 miliardi di persone, delle quali: 1,2 miliardi soffrono di desnutrizione cronica (FAO, 2009);
2 miliardi non hanno accesso a farmaci (www.fic.nih.gov);
884 milioni non hanno accesso all´acqua potabile (OMS/UNICEF, 2008);
924 milioni non hanno casa o vivono in abitazioni precarie (ONU Habitat, 2003);
1,6 miliardi non hanno l´allaccio dell´energia elettrica (ONU, Habitat, Urban Energy);
2,5 miliardi non hanno l´allaccio a sistemi fognari (OMS/UNICEF, 2008);
774 milioni di adulti sono analfabeti (www.uis.unesco.org);
18 milioni muoiono ogni anno a causa della povertá, in maggioranza bambini con meno di 5 anni (OMS);
218 milioni di giovani tra i 5 e i 17 anni lavorano in regime di semi-schiavitú (OIT: L´eliminazione del lavoro infantile: un obbiettivo possibile, 2006).

Tra il 1988 ed il 2002, il 25% piú povero della popolazione ha visto ridotta la propria partecipazione alla rendita mondiale dal 1,16% allo 0,92%.
L´insieme del 10% dei piú ricchi, che anteriormente disponeva del 64,7% della ricchezza mondiale, ha ampliato le sue fortune, passando a disporre del 71,1%.
L´arricchimento di pochi determina – come contropartita – l´impoverimento di molti, allerta Boron.
Solo questo aumento del 6,4% delle fortune dei piú ricchi sarebbe sufficiente a raddoppiare la rendita del 70% della popolazione mondiale! Che significherebbe salvare milioni di vite e ridurre la penuria e le sofferenze dei piú poveri. Boron enfatizza che tale beneficio si otterrebbe solamente redistribuendo i guadagni aggiuntivi avuti tra il 1988 ed il 2002 dal 10% dei piú ricchi della popolazione mondiale, senza togliergli un centesimo di piú delle loro esorbitanti fortune. Purtroppo queste misure risultano inaccettabilmente odiose per le classi dominanti del capitalismo mondiale.
La conclusione di Boron a partire dai dati dell´universitá norvegese é che “se non si combatte la povertá (sotto il capitalismo neppure si parla di sradicarla) é perché il sistema obbedisce ad una logica implacabile centrata nell´obbiettivo del lucro, nella concentrazione della ricchezza e nell´aumento incessante della povertá e delle disegueglianze economico-sociali”.
Se 2/3 dell´umanitá – secondo l´ONU – vive sotto la linea della povertá (reddito mensile inferiore a 60 dollari), non si puó considerare il capitalismo un sistema di successo. Come il socialismo dell´Est europeo, anch´esso é fallito. La differenza é che é fallito per la maggioranza della popolazione mondiale. E tra quelli che celebrano per equivoco la vittoria (vittoria secondo loro, beninteso), la maggioranza non si rende conto che il capitalismo causa disgregazione sociale, distruzione dell´ambiente, corruzione politica, crisi morale e incremento dei conflitti bellici.
In America Latina, a fine maggio, la CEPAL (Commissione Economica per l´America Latina e il Caribe, vincolata all´ONU) allertava rispetto alla dilatazione dei livelli di disuguaglianza sociale. Nonostante il PIB continentale possa crescere di circa il 4% quest´anno, c´é molta disparitá all´interno dei paesi. Nel Brasile, per esempio, Brasília é nove volte piú ricca dello stato del Piauí. In Perú, la regione andina di Huancavelica é sette volte piú povera della regione costiera di Moquegua a sud.
Ci sono “territori vincenti e perdenti”, ha affermato la segretaria esecutiva della CEPAL, Alicia Bárcena, alla presentazione dei dati. La sfida é “crescere per ridurre la disuguaglianza”, e lo Stato deve compiere un ruolo piú attivo in questo senso e non lasciare il compito al mercato, ha proposto la Bárcena.
Le nazioni con maggiori disuguaglianze sono Bolivia, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Paraguay, Perú e Repubblica Dominicana, che – nel biennio 2007/8 – hanno investito in media appena 181 dollari pro capite in politiche sociali.
Brasile, Argentina, Cile, Costa Rica, Panama e Uruguay hanno investito in media 1.029 dollari nello stesso biennio. Questo blocco mostra il maggior PIB pro capite in America Latina. In posizione intermediaria si trovano la Colombia, il Messico e il Venezuela, con un investimento medio di 619 dollari.
L´accesso all´educazione é una piramide perversa. Tra i giovani piú poveri, appena 1 ogni 5 conclude gli studi medi. Tra i piú ricchi, lo concludono 4 su 5.
Secondo la CEPAL, per ridurre queste iniquitá, i paesi con minor spesa sociale dovrebbero investire tra il 6% ed il 9% del PIB, per assicurare un paniere basico mensile alla loro popolazione con meno di 5 anni, al gruppo di etá maggiore di 65 anni ed ai disoccupati. Nel caso di ragazzini da 5 a 14 anni si calcolerebbe la metá del paniere basico.
Il costo per le nazioni con maggior spesa sociale oscillerebbe tra l´1% e l´1,5% del PIB, mentre per i paesi intermediari sarebbe tra il 2% ed il 4%.
Nonostante queste sfide ancora in corso, la CEPAL riconosce che c´é stato un significativo aumento della spesa sociale globale in America Latina: tra il 1990 ed il 2008 é passata dal 12% al 18%. Si é avuta anche una riduzione della povertá nella regione: tra il 2002 ed il 2008 é diminuita dal 44% al 33%. Solo che questi risultati sono considerati insufficienti. La spesa sociale deve aumentare di piú, soprattutto adesso che l´impatto della crisi mondiale provoca la perdita di potere d´acquisto delle famiglie e trascina 9 milioni di persone nella miseria.
Frei Betto, 27/09/2010
Fonte in portoghese: http://www.adital.com.br/site/noticia.asp?lang=PT&cod=51238
Traduzione dal portoghese: Alessandro Vigilante
Fonte

martedì 5 ottobre 2010

LA LETTERA DEL FIGLIO DI UN OPERAIO

“Ero tornato da poche ore, l’ho visto, per la prima volta, era alto, bello, forte e odorava di olio e lamiera.
Per anni l’ho visto alzarsi alle quattro del mattino, salire sulla sua bicicletta e scomparire nella nebbia di Torino, in direzione della Fabbrica.

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Fiat LINGOTTO reparto Grandi Presse 1934

L’ho visto addormentarsi sul divano, distrutto da ore di lavoro e alienato dalla produzione di migliaia di pezzi, tutti uguali, imposti dal cottimo.
L’ho visto felice passare il proprio tempo libero con i figli e la moglie. L’ho visto soffrire, quando mi ha detto che il suo stipendio non gli permetteva di farmi frequentare l’università.
L’ho visto umiliato, quando gli hanno offerto un aumento di 100 lire per ogni ora di lavoro. L’ho visto distrutto, quando a 53 anni, un manager della Fabbrica gli ha detto che era troppo vecchio per le loro esigenze.
Ho visto manager e industriali chiedere di alzare sempre più l’età lavorativa, ho visto economisti incitare alla globalizzazione del denaro, ma dimenticare la globalizzazione dei diritti, ho visto direttori di giornali affermare che gli operai non esistevano più, ho visto politici chiedere agli operai di fare sacrifici, per il bene del paese, ho visto sindacalisti dire che la modernità richiede di tornare indietro.
Ma mi è mancata l’aria, quando lunedì 26 luglio 2010, su “ La Stampa” di Torino, ho letto l’editoriale del Prof . Mario Deaglio.
Nell’esposizione del professore, i “diritti dei lavoratori” diventano “componenti non monetarie della retribuzione”, la “difesa del posto di lavoro” doveva essere sostituita da una volatile “garanzia della continuità delle occasioni da lavoro”, ma soprattutto il lavoratore, i cui salari erano ormai ridotti al minimo, non necessitava più del “tempo libero in cui spendere quei salari”, ma doveva solo pensare a soddisfare le maggiori richieste della controparte (teoria ripetuta dal Prof. Deaglio a Radio 24 tra le 17,30 e la 18,00 di Martedì 27 luglio 2010).
Pensare che un uomo di cultura, pur con tutte le argomentazioni di cui è capace, arrivi a sostenere che il tempo libero di un operaio non abbia alcun valore, perché non è correlato al denaro, mi ha tolto l’aria.
Sono salito sull’auto costruita dagli operai della Mirafiori di Torino.
Sono corso a casa dei miei genitori, l’ho visto per l’ennesima volta.
Era curvo, la labirintite, causata da milioni di colpi di pressa, lo faceva barcollare, era debole a causa della cardiopatia, era mio padre, operaio al reparto presse, per 35 anni, in cui aveva sacrificato tutto, tranne il tempo libero con la sua famiglia, quello era gratis.
Odorava di dignità.”
(Luca Mazzucco)

Raffaele Della Rosa su http://www.gennarocarotenuto.it

LA PRIMA AMBIENTALISTA DEL MONDO

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Il sorriso radioso di Marina Silva è anche il mio, lasciatemelo dire.
Per la prima volta nella storia del mondo una donna candidata ambientalista ha ottenuto il 20% dei voti in un grande paese di 190 milioni di abitanti.
Non stiamo parlando del Belgio o della Lettonia, stiamo parlando del Brasile, il più grande stato dell'America Latina.
"Siamo all'inizio di una nuova politica che si inaugura in Brasile", scrive Marina nel suo blog. Non andrà al ballottaggio, naturalmente, ma potrà avere una influenza politica decisiva sul futuro governo di Dilma Rousseff, la candidata del Partido dos Trabalhadores (PT)di Lula.
Un anno fa Marina Silva aveva lasciato il PT, ritenendo che la politica ambientale di Lula fosse troppo tiepida (per questo leggi Lula, la diga e il pescegatto).
E' la vittoria di tutti i brasiliani che hanno caro l'ambiente naturale, è la vittoria di tutti gli amici di Chico Mendes; è la vittoria di tutti gli ambientalisti veri e seri che vorrebbero dare una chance in più al futuro dell'umanità.
Bom trabalho, Marina.
Fonte

lunedì 4 ottobre 2010

LA NUOVA BIBBIA DEI “NO-GLOBAL”

“I crimini delle multinazionali” è un libro che prende in esame la globalizzazione e lo sfruttamento della forza lavoro nei paesi meno sviluppati (Werner e Weiss, http://www.newtoncompton.com/, 2010).

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In questo libro si possono scoprire gli scheletri negli armadi e nelle banche di decine e decine di multinazionali: Shell, Siemens, Samsung, Nestlé, Mercedes, Nike, Eni, ecc. In Congo Klaus Werner si è spacciato per un uomo d’affari senza scrupoli per dimostrare il ruolo della Bayer nel finanziamento di una guerra che è costata la vita a più di cinque milioni di persone (il Paese è ricco di oro, diamanti, rame e coltan, un minerale che viene trasformato e utilizzato in computer e telefonini). Invece Hans Weiss ha recitato la parte di un importante manager per scoprire che in una clinica di Budapest sperimentavano farmaci proibiti in cambio di molto denaro. In molti casi le aziende farmaceutiche non seguono le regole etiche: “i risultati vengono falsificati, gli effetti collaterali taciuti. Ai pazienti in pericolo di vita non vengono somministrati farmaci efficaci” (p. 82).
In tutti questi anni, nonostante le gravi accuse, quasi tutte le multinazionali hanno tenuto un profilo molto basso e non hanno replicato alle accuse per non attirare troppa attenzione. Al massimo citano con falso orgoglio le somme che investono in progetti sociali e continuano ad evitare di pagare salari in grado di garantire una sopravvivenza dignitosa e perseverano nell’impedire la libertà sindacale e i controlli indipendenti.
L’aspetto peggiore di questo fenomeno si chiama sfruttamento minorile, che viene combattuto da molte organizzazioni internazionali, come http://www.ilo.org/ (cliccando in alto su “Regions” si trova la versione italiana sulla destra) e http://www.terredeshommes.it/ (si occupa di adozioni a distanza). Si può comprendere meglio la capillarità di questo fenomeno attraverso l’affermazione del sociologo britannico Kevin Bales: “Un morso su tre della nostra cioccolata ha il retrogusto della schiavitù” (I nuovi schiavi: la merce umana nell’economia globale, Feltrinelli, 2000).
Del resto nel Sud del mondo molti contadini stanno vivendo una nuova forma di schiavitù: “ai contadini viene vietato di riutilizzare le sementi, una pratica che da sempre fa parte dei loro diritti… Continuare a coltivare per conto proprio è considerato un reato, per il quale si può essere perseguiti, puniti e persino finire in prigione. Normali attività contadine vengono classificate come criminali. Così di profila la minaccia di una nuova forma di colonizzazione, nella quale non solo i contadini, ma l’intero paese, perdono i loro diritti” (Vandana Shiva, vincitrice del premio Nobel Alternativo).
A volte sono proprio le somme esorbitanti investite in immagine e pubblicità dei marchi a spingere a risparmiare nei costi di produzione. Purtroppo i messaggi pubblicitari hanno assunto il ruolo delle istituzioni ideologiche come le chiese e i partiti e immettono i consumatori in un mondo immaginario (Jeremy Rifkin). E se non si viene a conoscenza di quasi tutti questi misfatti il motivo è molto semplice: le televisioni, le radio e la stampa sopravvivono grazie agli investimenti pubblicitari fatti da tutte queste multinazionali e quindi devono far finta di non sentire e di non vedere nulla.
Purtroppo “I cinquecento più grandi gruppi industriali detengono un quarto del prodotto nazionale lordo mondiale e controllano il 70 per cento del commercio globale. Ma rappresentano soltanto lo 0,05 per cento della popolazione mondiale” (p. 15). E dopotutto, “se gli aiuti allo sviluppo ammontano globalmente ogni anno a circa 53 miliardi di dollari, si stima che i flussi di capitale dal Sud al Nord ammontino a quattro volte tanto. I cosiddetti paesi in via di sviluppo forniscono di fatto aiuti allo sviluppo per il Nord, cioè per i paesi industrializzati d’Occidente. Fermare questo processo sarebbe in sostanza molto più efficace e duraturo che sperare nell’azione benefica degli investitori multinazionali” (p. 32).
Per fortuna c’è anche qualche nota positiva: è stato creato il marchio di qualità “TransFair” (http://www.transfair.org/, http://www.equo.it/) che garantisce la provenienza ecologicamente e socialmente sostenibile (salari corretti e condizioni di lavoro controllate). Inoltre sta emergendo la sensibilità necessaria a concordare delle regole eque per il lavoro e la convivenza di tutti gli uomini a livello internazionale.
Nota – Segnalo alcuni siti utili ad approfondire molti dei temi trattati in questo libro: http://www.globalwitness.org/ http://www.altrevoci.it/ http://www.globalresearch.ca/ http://www.festivalinternazionaledellavoro.it/ (Roma, 18-20 ottobre), http://www.rightlivelihood.org/ (The Right Livelihood Award è stato definito il premio Nobel Alternativo).
Fonte

domenica 3 ottobre 2010

BRASILE "DOPO" LULA

Il Paese più importante dell'America latina oggi al voto per scegliere un nuovo presidente
Emir Sader, uno dei più autorevoli intellettuali brasiliani di sinistra, ha scritto che il bilancio dei governi Lula è “ibrido e contradditorio”. In realtà l'esplosione economica e geopolitica del Paese e la personalità di Lula sono tali da rendere problematico un giudizio a meno di non avere solidi punti di riferimento. Quel che è certo, è che il 3 ottobre il Brasile vivrà una tornata elettorale di ampia portata. Si voterà per la successione a Lula alla presidenza del Paese, per il rinnovo dei governatori degli Stati e di una parte dei due rami del parlamento. Sono elezioni la cui importanza va ben al di là dei confini nazionali per la posizione sempre più rilevante che il Brasile ha assunto sia sullo scenario sudamericano come in quello globale, come si può vedere dai dati riportati nel riquadro. I sondaggi parlano chiaro: Dilma Roussef, la candidata della coalizione di governo indicata da Lula, dovrebbe vincere alla grande, sospinta dalla popolarità di Lula, battendo il candidato dell'opposizione di centro-destra José Serra del Partito della Social Democrazia Brasiliana (PSDB), sostenuto dall'ex presidente Cardoso, la cui politica è quella di un riavvicinamento agli Stati uniti e del pugno duro verso i movimenti sociali, in primis i Sem Terra.

Lula e Dilma/ Reuters

Le luci abbaglianti
Il Brasile, con 200 milioni di abitanti e una superficie di 8 milioni di chilometri quadrati, è attualmente la nona potenza industriale mondiale con previsione di divenire in pochi anni la quinta. Assieme alla Russia è l'unica fra le grandi potenze ad essere energeticamente autosufficiente. Dal punto di vista delle riserve petrolifere occupa la settima posizione ma le prospezioni in corso ne pronosticano il passaggio al quinto posto mentre è al sesto posto per riserve di uranio. È il Paese con la maggiore biodiversità sul suo territorio, e sappiamo quanto questa risorsa giochi oggi nello sviluppo delle biotecnologie farmaceutiche e alimentari. Attualmente ha tre banche (Itaú, Bradesco e Banco do Brasil) fra le prime dieci del mondo (non ne aveva nessuna nel 2000). L'impresa mineraria Vale do Rio Doce occupa il secondo posto al mondo per volume di attività e il primo nel settore dei minerali di ferro. Petrobras, l'impresa petrolifera in parte controllata dallo Stato, è la quinta multinazionale per cifra di affari mentre Embraer è il terzo costruttore di aerei. Il governo Lula, soprattutto attraverso il poderoso Bndes, la banca statale per il sostegno allo sviluppo economico, “ha promosso una politica consistente nella partecipazione attiva dello Stato nella creazione di 'global players' in differenti settori dell'attività economica”.
Un risultato elettorale scontato, quindi? Sembrerebbe di sì, ma l'evento offre l'occasione per una riflessione su un Paese che ho amato e in cui ho sperato. Avendovi soggiornato ripetutamente per ragioni professionali nel corso di vari anni, sia nel periodo finale della dittatura militare che nella difficile transizione alla democrazia, e successivamente nell'epoca di Cardoso prima e nella prima parte di quella di Lula poi, ho conosciuto assai bene da dentro in suoi diversi aspetti, dal mondo dei tecnocrati dell'industria a quello dei semplici cittadini o dei movimenti sociali.

Il Presidente "operaio": un bilancio sommario La storia personale di Lula (vedi box a fondo pagina) è sicuramente ragguardevole. Uomo caparbio, grande negoziatore, personaggio per molti versi carismatico, sotto la sua presidenza il Brasile ha scalato vari traguardi, ma le sue scelte non sono state in linea con la sua storia precedente. Secondo alcuni osservatori Lula presidente ha perseguito una "politica interclassista, sulla quale siedono comodamente alcune frazioni della borghesia, mentre nell'immaginario popolare è visto come il presidente dei poveri". Secondo Juan Luis Berterreche [2] data l'importanza geopolitica e economica del Brasile, il governo Lula ha realizzato e continua a realizzare il ruolo centrale nel ristabilimento della governabilità borghese. È anche stato il principale responsabile nel contenere l'ampio e duro scontro frontale col neoliberismo sopportato dalle forze popolari latinoamericane negli anni precedenti. Tutto il prestigio e l'autorità accumulate da Lula e dal Partito dei lavoratori (Pt) durante la lotta contro la dittature e nelle lotte salariali furono impiegate per una ristabilizzazione del capitalismo in crisi non solo in Brasile ma in tutto il continente.

L'economia [3]
In un articolo su Rebelión, Luismi Uharte ha tracciato un calibrato bilancio del “lulismo”. Innanzi tutto, parlando della sua politica economica, ha posto un interrogativo, facendo un richiamo alle storiche politiche degli anni Sessanta e Settanta [4]: è neoliberista o neosviluppista? Uharte conclude col trovarvi una miscela di entrambe queste prospettive, precisando però che in nessun caso si può parlare di un governo “nazional-popolare” come era stato il vecchio “desarrollismo”.
Secondo Henrique Novaes, economista all'università di Campinas, citato da Uharte, Lula ha manifestato questo dualismo con le scelte neoliberiste sulla Banca Centrale -dove in continuità col suo predecessore Cardoso ha nominato presidente Henrique Meirelles, già a capo dello statunitense Banco di Boston- e con la prosecuzione del pagamento del debito estero, malgrado una petizione popolare avesse raccolto alcuni milioni di firme per l'apertura di un audit sulle modalità con cui era stato contratto (soprattutto nell'epoca dei governi militari).
Per contro rientrano nell'ottica neo-sviluppista il forte aiuto statale alle imprese private più dinamiche, per portarle a competere su un piano di parità a livello internazionale, e l'aumento del salario minimo (da 207,5 a 232,5 dollari al mese) a favore di 42 milioni di lavoratori, con il fine anche di potenziare il consumo. In sintesi, il governo ha dato un forte spazio all'iniziativa privata in un contesto di forte dirigismo statale. Colpita dalla crisi economica mondiale del 2008, l'economia ha recuperato già nel 2009 grazie a forti investimenti finanziati dallo Stato e l'anno in corso dovrebbe chiudersi con circa 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro formali.

Economia e ambiente Questo è un capitolo particolarmente dolente. I due megapiani di sviluppo, PAC 1 (2007) e PAC 2 (2010-2014), con investimenti di 370 e di 878 miliardi di dollari, con i loro innumerevoli progetti infrastrutturali (24.71 per il PAC 1; fra le molte altre realizzazioni, ben 50 centrali idroelettriche previste in 4 anni nel PAC 2, la maggior parte delle quali in Amazzonia) stravolgono i territori e la vita delle popolazioni in essi esistenti, aggiungendosi o integrandosi con i famosi assi strutturali del Progetto IIRSA (Integrazione delle infrastrutture della regione sudamericana).
 
La finanza

Il Brasile è il Paese latinoamericano con il più alto debito pubblico, contratto principalmente all'epoca della dittatura militare (1964-1985): attualmente supera il 40% del prodotto interno lordo (Pil), anche se dal 2000 è in progressivo calo.
La bilancia commerciale (saldo fra esportazioni e importazioni) ha avuto nel giugno 2010 un saldo positivo di 2.277 milioni di dollari ma nonostante questo risultato brillante la bilancia dei pagamenti (saldo fra entrata e uscita dei capitali) è risultata negativa per 5.180 milioni di dollari, il peggior risultato dal 1947, e circa 8 volte rispetto al giugno di un anno fa. E nell'ultimo semestre i il passivo ha raggiunto la cifra di 40.867 milioni di dollari. Ciò è dovuto in buona parte alla rimessa di profitti alle case madri delle filiali di multinazionali operanti nel Paese e al pagamento di royalties e di servizi. La cosa non preoccupa a breve termine, avendo il Brasile al momento riserve del valore di 250 milioni di dollari, ma rappresenta un salasso continuo ed ingente della ricchezza prodotta nel Paese. Da notare che rispetto all'inizio dei governi Lula il tasso di interesse bancario, altissimo all'epoca Cardoso per la necessità di attrarre capitali esteri, è sceso dal 25% all'8 ,75% nel luglio 2009.

La politica sociale
La politica sociale di Lula potrebbe essere qualificata di neoliberismo umanitario (ricordate il capitalismo compassionevole di Bush?). L'imponente piano “Bolsa Familia” di concessione di un sussidio familiare a oltre 40 milioni di poveri, soprattutto nel Nord-est, cioè un quinto della popolazione globale del Paese, di valore variabile fra 7 a 45 euro mensili, ha consentito di tirare fuori dalla povertà estrema circa 20 milioni di persone e ha creato contemporaneamente un grosso serbatoio elettorale. Questa misura, lodevole da un punto di vista umanitario, politicamente è criticabile appunto per il carattere totalmente assistenziale, perché non è accompagnata da alcuna misura di cambiamento strutturale tale da consentire il riscatto economico personale, per cui un futuro governo meno sensibile socialmente potrebbe togliere il sussidio e far riprecipitare i suoi beneficiati nella situazione di povertà estrema. In parole povere non ci si è discostati dalla politica predicata da Banca mondiale e da Fondo monetario internazionale: contenere la povertà per evitare sussulti sociali incontrollabili, ma privilegiare il Pil e quindi le imprese.
A creare forti contrasti sociali è stata la cosiddetta “controriforma” della sicurezza sociale, battaglia condotta dallo stesso Lula e che ha portato a una scissione sia nel Pt, con la nascita nel 2004 del Psol (Partido Socialismo e Liberdade), alla sua sinistra, sia nella Cut, con la nascita del sindacato Conlutas. Se una riforma era stata necessaria, quella adottata, a giudizio di molti, è stata più pesante del necessario e ha penalizzato in particolare il comparto dei dipendenti pubblici.

Le ombre
Il Brasile vive alcune contraddizioni profonde. Ottava economia del pianeta con ambizioni alla quinta posizione, occupa il settantacinquesimo posto nell'Indice di sviluppo umano, più in basso di Albania e Panama, e il quarantatreesimo nell'indice di povertà.
L'Indice Gini, misura della disuguaglianza di reddito [5], ha un valore superiore al 55%, vari punti peggio di Perú, Messico e Panama. Mentre è in forte espansione l'agro-industria, cioè la mono-coltivazione senza rotazione e quindi con crescente impiego di fertilizzanti chimici, è in regresso la riforma agraria nonostante la lotta dei Sem Terra, come pure la demarcazione dei territori indigeni. La stessa promozione dell'agroindustria si ripercuote duramente sull'ambiente, oltre che per il detto uso smodato di agrochimici, anche per il disboscamento legato all'ampliamento delle coltivazioni. Mentre la Costituzione del 1988 ha rappresentato un deciso passo avanti formale nel riconoscimento dei diritti di cittadinanza, i militari godono tuttora dell'immunità per i crimini perpetrati durante la loro dittatura, mentre il paese è agli ultimi posti nel continente per il perseguimento giudiziario delle violazioni dei diritti umani. Sul piano dei diritti sessuali l'aborto è consentito in casi ristrettissimi per cui si calcola che si pratichino circa un milione di aborti l'anno con una alta percentuale di decessi.

La politica estera: Brasile potenza "globale" Questo della politica estera è stato il campo in cui il Brasile ha raccolto più ampi consensi anche a sinistra, ancorché presenti aspetti da un lato positivi e dall'altro discutibili. Il recupero della sovranità nazionale, con la presa di distanza dagli Stati Uniti d'America, risponde a un vecchio sogno brasiliano di affermarsi come "potenza regionale" e ha consentito anche ad altri Paesi sudamericani di essere "protetti" dall'ingerenza statunitense. Talora con successo, come nel caso del Venezuela, influendo sul fallimento del colpo di stato (2002) e dello sciopero padronale a oltranza (dicembre 2002/gennaio 2003), così come nel fallimento del putsch padronale nell'oriente boliviano del 2008 o della ferma reazione all'incursione militare delle forze armate colombiane in Ecuador nel marzo 2008, e infine contro il colpo di stato in Honduras del 2009.
Abilissimo il ministro degli Esteri Celso Amorim a guidare la crescita delle prospettive geopolitiche del Paese, che ha avuto come fasi successive l'espansione in Africa, dapprima in quella portoghese e poi nella restante, poi in Asia grazie agli accordi economici con la Cina, e ultimamente col ruolo giocato assieme alla Turchia nello spazio mediorientale. Naturalmente questo ha portato a frizioni con il governo statunitense, irritato per questa intraprendenza (la Cina ha soppiantato gli Stati Uniti nel primato degli scambi commerciali col Brasile). Il lato più equivoco è il processo in atto di una forma di sub-imperialismo regionale, ben diverso da un indiscutibile riconoscimento di potenza regionale, che comunque ha portato a tensioni con gli stati confinanti, in particolare con Bolivia [6] per l'ingiusto prezzo del gas in essere all'arrivo di Morales alla presidenza, e con il Paraguay per l'ancor più ingiusto prezzo della quota paraguaya di energia eccedente ceduta al Brasile. L'accusa è lanciata dallo studioso brasiliano Ruy Mauro Marini, che vive in Messico ove insegna, al cui sito rinviamo per un eventuale approfondimento [7]. Naturalmente il ruolo di attore economico e politico a livello internazionale, e soprattutto la necessità di difendere le grandi risorse naturali del paese, appetite dalla potenza del Nord, ha posto il problema di una strategia militare adeguata alle nuove circostanze (vedi box).

Lula, la società e i movimenti sociali Come in molti Paesi latinoamericani, i movimenti sociali brasiliani hanno dovuto affrontare il problema del rapporto da instaurare con un governo "amico". La risposta data durante il primo mandato di Lula, quella di una certa attesa non ostile, o forse anche favorevole in alcuni casi, ha certamente indebolito i movimenti sociali, in parte cooptati e in parte o delusi o disorientati dall'abilità negoziatrice e carismatica del Presidente.
In un articolo su Barómetro Internacional due militanti di sinistra, Bruno Lima Rocha e Rafael Cavalcanti, affermano, lamentando la continua contrattazione politica di “frammenti di potere” in assenza di contenuti che “il popolo brasiliano esce indebolito dall'era Lula. Nelle dispute per la concezione del potere usciamo più deboli, a causa dell'assenza di strategia e di protagonismo politico al di là della rappresentanza di tipo borghese”. I Sem Terra, dopo un inizio speranzoso, hanno dovuto prendere atto che le speranze per una riforma agraria più vigorosa erano disattese e hanno tentato, finora con successo limitato, di tessere nuovamente le fila di un coordinamento ampio dei movimenti sociali. I Sem Terra hanno inoltre dovuto compiere una difficile riconversione della loro lotta dall'obbiettivo di recupero del latifondo, sempre attuale ma non più centrale, a quello della lotta all'agricoltura industrializzata e chimicamente alimentata, il cosiddetto agrobusiness. Da parte loro gli ambientalisti hanno avuto le loro delusioni di fronte alle crescenti devastazioni delle monocoltivazioni e della concomitante continua erosione degli spazi forestali. Così, come ricordato sopra, la ministra dell'Ambiente nel primo gabinetto Lula, Marina Silva, decise prima per le dimissioni e poi per l'uscita dal partito, partecipando alla fondazione del PSOL e ora presentandosi candidata di questo partito e dei verdi alla competizione elettorale. Il dilemma adesso è: chi votare? Certamente, osservano molti leader fra cui J. P. Stedile dei Sem Terra, Lula ci ha delusi ma almeno non ci ha repressi. Del resto i Sem Terra, pur definendo le attese politiche, hanno sempre lasciato i propri aderenti liberi di decide come orientare il proprio voto. Lo stato d'animo degli aderenti ai movimenti è ben espresso dal testo di Frei Betto che riportiamo in allegato e che riteniamo sia un eccellente documento politico sui problemi irrisolti dal doppio mandato del “presidente operaio” col quale inizialmente aveva collaborato in posizione di responsabile del piano “Fome Zero”. Da parte loro il PT e la CUT sono passati dall'opposizione al collateralismo al governo fornendo molti quadri all'apparato statale, quindi indebolendosi e burocratizzandosi. Il PT, in particolare, partito di maggioranza relativa, ma largamente minoritario in assoluto (80 deputati su 513), ha visto i suoi dirigenti più quotati coinvolti in una serie di scandali, del resto abituali nella politica brasiliana, che hanno indotto molti militanti a emigrare verso altre formazioni, indebolendosi ancor più, tanto che oggi il PT è più un partito di quadri che di militanti come era nato e cresciuto.
Gli ottimisti pensano che se sulle ali del prestigio di Lula il PT uscirà sensibilmente rafforzato elettoralmente, avrà la forza per riprendere il vecchio cammino. Le scandalose alleanze elettorali concordate o rinnovate, una per tutte quella con la famiglia Sarney, il cui capo storico, José Sarney da Costa, ras terriero dello Stato del Maranhao, già capo dello Stato al termine della dittatura militare e attuale presidente del senato, lasciano fondati dubbi. Lungi dall'aver esaurito il quadro mi fermo qui. Una sola osservazione conclusiva. Alla fine degli anni '90, nel clima di speranza e di lotta dell'epoca, i movimenti sociali, in pieno dinamismo, avevano elaborato, col concorso di valenti intellettuali, il progetto “Opçao Brasileira”, condensato in un libro che mi appassionò e che formò oggetto di un grande seminario di studi. La tesi era: se c'è oggi un Paese in grado di elaborare un “progetto Paese” alternativo al progetto neoliberista, questo è il Brasile, con le sue vaste risorse naturali, il suo sviluppo industriale, la qualità e combattività dei suoi militanti e dei suoi dirigenti. L'elezione di Lula avrebbe dovuto segnare l'inizio di questo processo. Così non è stato, e proprio grazie a queste grandi risorse esistenti Lula ha potuto sviluppare con successo il suo progetto, che può piacere, come di fatto piace, sia a persone di sinistra intrise di “sviluppismo” e di “umanitarismo”, sia agli ambienti economico-finanziari neoliberisti. Un programma “ibrido e contraddittorio” che mi pare assai lontano dalla giustizia sociale, dall'emancipazione popolare e da una sana politica ambientale.
Autore: Aldo Zanchetta, presidente della Fondazione "Neno Zanchetta"

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Luiz Inácio Lula da Silva, il “presidente operaio”
È nato nel 1945 da una famiglia povera e analfabeta a Caetés, nel nordestino Stato brasiliano di Pernambuco. Nel 1956 la famiglia -padre, madre e otto figli- si trasferì a San Paolo. Lasciata la scuola in quarta elementare, a 12 anni era lustrascarpe e a 14 operaio. Più tardi, ripresi gli studi, conseguì un diploma di scuola superiore. A 19 anni cominciò la sua attività sindacale, venendo anche imprigionato per un mese sotto la dittatura militare.
Nel 1978 fu eletto presidente del Sindicato dos Metalurgicos di São Bernardo do Campo e Diadema, l'area più industrializzate del Paese. Nel 1980 fece parte del gruppo di intellettuali e di militanti, fra i quali Chico Mendes, che fondò il Partido dos Trabalhadores (PT), un partito di sinistra con idee progressiste, e nel 1983 partecipò alla creazione dell'associazione sindacale Central Única dos Trabalhadores (Cut). Dopo vari incarichi elettivi istituzionali, fu candidato, senza successo, anche a causa di clamorosi brogli, a tre tornate elettorali, fino a prevalere nelle elezioni del 2002 e essere rieletto nel 2006, in accoppiata al vicepresidente  José Alencar, proveniente dal partito liberale brasiliano, e attualmente appartenente al Partito Repubblicano Brasiliano. Le sue posizioni, di sinistra all'epoca della fondazione del PT e del CUT, sono via via divenute più moderate fino ad approdare ad una posizione definibile come liberal-democratica. Per la sua storia è stato definito, assai impropriamente, il “presidente operaio”. Meglio sarebbe “ex operaio”. Impossibilitato costituzionalmente a presentarsi una terza volta, ha indicato Dilma Roussef quale candidata della sua coalizione. Lula si avvia alla fine del secondo mandato consecutivo con un indice straordinario di popolarità (fra il 75 e l'80%) e con un grande consenso negli ambienti finanziari internazionali. Tanto che alcuni dei suoi sostenitori avrebbero voluto presentare una modifica legislativa per consentire la terza rielezione, cosa che, a onor suo, Lula non ha appoggiato, pur non escludendo di ripresentarsi nel 2014.

Dilma Vana Roussef
Nata a Belo Horizonte nel 1947, è oggi iscritta al PT dopo una vita politica movimentata. Figlia di immigrati bulgari, da giovane militò in movimenti di resistenza armata al regime militare e fu imprigionata dal 1970 al 1972. Ministra della Casa civile, cioè capo di gabinetto di Lula, dopo essere stata ministra delle Miniere e dell'Energia, era poco nota al grande pubblico e ha perciò iniziato la campagna elettorale in svantaggio, rimontando poco a poco, grazie all'appoggio di Lula, fino ad accumulare un robusto vantaggio nei sondaggi: 53% contro il 24,81% di José Serra e il 12,40% di Marina Silva (Maria Osmarina Marina Silva Vaz de Lima) del Partito verde, già collega di Chico Mendes e già ministra dell'Ambiente nel governo Lula, dimessasi nel 2008 per protesta contro le politiche ambientali di questi. Sui suoi possibili orientamenti politici, i pareri non sono concordi. Alcuni la posizionano e destra e altri a sinistra rispetto a Lula. È descritta come una figura di non particolare carisma ma di forte carattere.

Una nuova strategia militare L'accresciuta indipendenza dagli Stati uniti e il ruolo di attore assunto nel subcontinente e fuori ha creato tensioni con l'antico alleato/padrone il quale sta ridisegnando la propria presenza militare (vecchie e nuove basi militari, riarmo della IV flotta etc).
Secondo Raul Zibechi gli Stati Uniti stanno “accerchiando” il Brasile, come del resto il Venezuela, con le proprie basi in Colombia, Panama, Perù, Honduras, Paraguay e ora in Costarica. In entrambi i casi l'obbiettivo è costituito dalle grandi riserve energetiche, minerarie, biologiche in particolare dell'Amazzonia. Da qui il nuovo “Documento strategico di difesa” adottato dal governo brasiliano nel dicembre 2008 i cui principali punti sono: creazione di un complesso industrial-militare autonomo (accordi con Francia, Cina, Russia per scambi tecnologici); ristrutturazione delle strategie militari e aumento degli effettivi dell'esercito da 210.000 a 259.000; potenziamento dei sistemi di difesa dell'Amazzonia, ove sono stati dislocati circa 45.000 uomini e accresciuti i centri di controllo frontaliero e interno; aumento del budget delle forze armate (+45% dal 2004 a oggi). In particolare la strategia di “guerra in foresta” fa puntare sulla autonomia di brigate di 3mila uomini ciascuna e sul combattimento sul terreno anziché con sofisticati armamenti tecnologici. Significativi gli scambi di informazioni con l'esercito vietnamita esperto di questo tipo di conflitti. La marina da parte sua ha previsto un piano ventennale con acquisto di un sommergibile nucleare e 4 tradizionali più 30 navi scorta e aerei d'attacco e pattugliamento con aumento da 60 a 80mila effettivi, mentre l'aviazione sta acquistando 36 cacciabombardieri di quinta generazione della francese Dassault e di 36 caccia Rafales, pure francesi. È però da segnalare la firma, il 12 aprile scorso, nella sede del Pentagono, di un accordo Brasile/Stati Uniti d'America in materia di difesa, confermando che il Paese gioca abilmente su molti scacchieri le proprie ambizioni.

Note
[2] Brasil: La China latinoamericana, http://antoniomoscato.altervista.org/ J.L.Berterreche è un saggista e ricercatore militante uruguayano che vive in Brasile e collabora a varie riviste. Ha fatto parte del gruppo di verifica del debito (audit) nominato dal presidente Correa in Ecuador.
[3] Per un approfondimento un buon articolo è Economia brasileña 2009: Situación y perspectivas di P.H. Vivas Agüero http://www.eumed.net/cursecon/ecolat/br%20
[4] Il desarrollismo o sviluppismo è una teoria economica che sostiene che il deterioramento dei termini di scambio nel commercio internazionale basato sullo schema "centro industriale-periferie agricole", riproduce il sottosviluppo e amplia il fossato fra paesi sviluppati. Ciò è da contrastare con politiche nazionali di industrializzazione tali da ridurre drasticamente le importazioni, specie di macchinari di produzione. Ironia della sorte vuole che uno dei teorizzatori del desarrollismo fu Fernando Henrique Cardoso che una volta eletto presidente Presidente (1995 -2002) si è distinto per le sue politiche neoliberiste.
[5] Dal sito del Monte dei Paschi- Indice di Gini: "È una misura sintetica del grado di disuguaglianza, usato in particolare per l'analisi della distribuzione del reddito: è pari a zero nel caso di una perfetta equità della distribuzione dei redditi (quando tutte le famiglie ricevono il medesimo reddito) e cresce all'aumentare della disomogeneità. Inoltre, questo indicatore può essere 'normalizzato', facendo coincidere col valore 1 la massima disomogeneità e con 0 la perfetta equità".
[6] Sulla ambigua relazione con la Bolivia che coinvolge lo stesso presidente Morales torneremo in un prossimo mininotiziario.
[7] http://www.marini-escritos.unam.mx/este_sitio.htm
Fonte

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