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martedì 19 ottobre 2010

CARA MARINA CHE DIFENDI L’AMBIENTE, NON PUOI NON VOTARE E FARE IL GIOCO DELLA DESTRA

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A fine mese il Brasile saprà chi prende il posto di Lula alla presidenza. La sorpresa del primo turno sono i 20 milioni di voti raccolti da Marina Silva. Voti per lei non per il partito dei Verdi perché gli elettori hanno scelto una persona, non un partito. Il che pone tanti interrogativi. Buona parte di chi ha votato Marina si è messa d’accordo nella scelta attraverso le reti sociali di internet il quale funziona come gigantesco manifesto virtuale. Migliaia di persone ne hanno discusso nell’universo web e attraverso web hanno cercato le ragioni che suggerivano una candidata senza apparati e con pochi soldi. È curioso constatare che la militanza virtuale cresce nel dialogo tra persona e persona; militanti volontari nelle strade: pagavano di tasca propria manifesti e volantini, vendevano piccole cose dell’artigianato povero per raccogliere quanto bastava a nutrire il loro volontariato. La differenza è proprio questa: chi insegue un’idea senza badare ai sacrifici e chi fa le stesse cose per guadagnare un po’ di soldi senza conoscere i programmi del candidato del quale canta le lodi. Insomma, mercenari per bisogno.Marina ha scelto “la neutralità. I delegati verdi hanno votato a San Paolo il loro distacco: 84 delegati si sono decisi per il “no”. Solo quattro hanno proposto di appoggiare Dilma Rousseff.
Contrariamente alla distrazione che affligge sia il Pt di Lula e di Dilma Rousseff, sia il Psdb del candidato conservatoe José Serra, il tema della difesa dell’ambiente anima il proselitismo di Marina Silva. Non è solo un argomento “verde”. La società è molto preoccupata del degrado, del riscaldamento globale, della deforestazione dell’Amazzonia e della costruzione di giganteschi sbarramenti idroelettrici che snaturano immense regioni e umiliano la sopravvivenza di chi vive con i rutti della terra.
Marina Silva si è offerta politicamente quale portavoce delle richieste fondamentali della società, richieste mai davvero raccolte dal Pt e dai conservatori di Serra. Parafrasando Shakespeare, vi sono più cose tra la sinistra e la destra di quanto immaginano i cacicchi dei partiti. Marina ha inventato una griglia che rompe la polarizzazione paritaria sempre più lontana dalle esigenze delle persone. E 20 milioni di brasiliani hanno visto in lei una nuova speranza.
La candidatura di una donna cresciuta nell’analfabetismo delle foreste con la voglia di sapere per capire all’ombra di Chico Mendes; una donna che ha bloccato la deriva plebiscitaria prevista per Dilma Rousseff attorno alla quale si è stretto il Partito dei Lavoratori; questa donna impone alla vincitrice o all’improbabile vincitore Serra, l’obbligo di ascoltare le proteste e cambiare i programmi del governo che verrà. Chi va a votare vota per risolvere i problemi e acquietare l’angoscia della sopravvivenza. Non vuol sapere se il miglior presidente del Brasile è stato Hentique Cardoso, teologo dell conservazione, o Lula da Silva del partito che rappresenta la sinistra urbana. Vuol sapere quale futuro lo aspetta. Quale tipo di vita sarà concesso dallo sviluppo economico che i candidati promettono. Non è un problema brasiliano. In ogni parte del mondo il nodo non cambia: scuola, salute, lavoro. E come potrà respirare se l’Amazzonia sopravvive o verrà mangiata dalla soia e dagli speculatori.
Marina è una debuttante nel partito dei Verdi mentre l’immagine di Lula è più forte dell’immagine del suo partito. Come in ogni altro partito anche la storia dei Versi è segnata dalle contraddizioni. Hanno fatto parte del governo di Lula (Ministero della Cultura), hanno collaborato con Josè Serra, governatore di San Paolo (ministro per la difesa dell’Ambiente). I Verdi potranno scegliere di restare sulla cresta dell’onda sedotti dal canto delle sirene che hanno vinto, quindi accettare qualche ministero nel futuro governo. Marina no. La sua storia è di coerenza etica, testimone mai scesa a compromessi. Ma bisogna dire che non può restare neutrale nella lotta del ballottaggio. La politica della neutralità è peccato di omissione. Nessun momento della nostra vita – dal caffè della mattina al trasporto quotidiano – sfugge alla logica della politica. Marina non è arrivata da Marte. Viene dalle comunità dell’Acre, comunità ecclesiale di base, dalla scuola di Chico Mendes, dal Pt che l’ha portata in Senato e l’ha voluta Ministro federale dell’Ambiente nei due mandati di Lula. L’elettore chiede a Marina di schierarsi e di farlo in coerenza con la sua storia di militante dai principi etici e ideologici che non hanoo mai tremato. Sarebbe sconfortante vederla osservare senza decidere. Non è in buon fedele solo chi abbraccia una religione. Bisogna essere fedeli alla traiettoria che ha permesso a Marina di diventare una delle più ammirate e popolari leader del Brasile. È in gioco non il futuro elettorale della senatrice Silva e del suo immenso patrimonio politico, quei 20 milioni di persone aggrappate alle sue parole; è in gioco il futuro prossimo del paese. Nei quattro anni che ci aspettano, la sua influenza può cambiare carattere e decisioni del nuovo governo. Ecco perché è necessario che i Verdi e Marina scelgano fra due progetti così diversi nelle intenzioni, ma anche pericolosamente diversi nella considerazione della dignità del popolo.

Frei Betto
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mercoledì 6 ottobre 2010

PROFILO MONDIALE E LATINO-AMERICANO

L´Universitá di Bergen in Norvegia svolge un Programma Internazionale di Studi Comparati sulla Povertá. Le loro analisi, come osserva il sociologo argentino Atílio Boron, hanno smascherato il discorso ufficiale elaborato per trent´anni dalla Banca Mondiale e riprodotto instancabilmente dai grandi mezzi di comunicazione, autoritá di governo, accademici e intellettuali.

Attualmente il pianeta é abitato da 6,8 miliardi di persone, delle quali: 1,2 miliardi soffrono di desnutrizione cronica (FAO, 2009);
2 miliardi non hanno accesso a farmaci (www.fic.nih.gov);
884 milioni non hanno accesso all´acqua potabile (OMS/UNICEF, 2008);
924 milioni non hanno casa o vivono in abitazioni precarie (ONU Habitat, 2003);
1,6 miliardi non hanno l´allaccio dell´energia elettrica (ONU, Habitat, Urban Energy);
2,5 miliardi non hanno l´allaccio a sistemi fognari (OMS/UNICEF, 2008);
774 milioni di adulti sono analfabeti (www.uis.unesco.org);
18 milioni muoiono ogni anno a causa della povertá, in maggioranza bambini con meno di 5 anni (OMS);
218 milioni di giovani tra i 5 e i 17 anni lavorano in regime di semi-schiavitú (OIT: L´eliminazione del lavoro infantile: un obbiettivo possibile, 2006).

Tra il 1988 ed il 2002, il 25% piú povero della popolazione ha visto ridotta la propria partecipazione alla rendita mondiale dal 1,16% allo 0,92%.
L´insieme del 10% dei piú ricchi, che anteriormente disponeva del 64,7% della ricchezza mondiale, ha ampliato le sue fortune, passando a disporre del 71,1%.
L´arricchimento di pochi determina – come contropartita – l´impoverimento di molti, allerta Boron.
Solo questo aumento del 6,4% delle fortune dei piú ricchi sarebbe sufficiente a raddoppiare la rendita del 70% della popolazione mondiale! Che significherebbe salvare milioni di vite e ridurre la penuria e le sofferenze dei piú poveri. Boron enfatizza che tale beneficio si otterrebbe solamente redistribuendo i guadagni aggiuntivi avuti tra il 1988 ed il 2002 dal 10% dei piú ricchi della popolazione mondiale, senza togliergli un centesimo di piú delle loro esorbitanti fortune. Purtroppo queste misure risultano inaccettabilmente odiose per le classi dominanti del capitalismo mondiale.
La conclusione di Boron a partire dai dati dell´universitá norvegese é che “se non si combatte la povertá (sotto il capitalismo neppure si parla di sradicarla) é perché il sistema obbedisce ad una logica implacabile centrata nell´obbiettivo del lucro, nella concentrazione della ricchezza e nell´aumento incessante della povertá e delle disegueglianze economico-sociali”.
Se 2/3 dell´umanitá – secondo l´ONU – vive sotto la linea della povertá (reddito mensile inferiore a 60 dollari), non si puó considerare il capitalismo un sistema di successo. Come il socialismo dell´Est europeo, anch´esso é fallito. La differenza é che é fallito per la maggioranza della popolazione mondiale. E tra quelli che celebrano per equivoco la vittoria (vittoria secondo loro, beninteso), la maggioranza non si rende conto che il capitalismo causa disgregazione sociale, distruzione dell´ambiente, corruzione politica, crisi morale e incremento dei conflitti bellici.
In America Latina, a fine maggio, la CEPAL (Commissione Economica per l´America Latina e il Caribe, vincolata all´ONU) allertava rispetto alla dilatazione dei livelli di disuguaglianza sociale. Nonostante il PIB continentale possa crescere di circa il 4% quest´anno, c´é molta disparitá all´interno dei paesi. Nel Brasile, per esempio, Brasília é nove volte piú ricca dello stato del Piauí. In Perú, la regione andina di Huancavelica é sette volte piú povera della regione costiera di Moquegua a sud.
Ci sono “territori vincenti e perdenti”, ha affermato la segretaria esecutiva della CEPAL, Alicia Bárcena, alla presentazione dei dati. La sfida é “crescere per ridurre la disuguaglianza”, e lo Stato deve compiere un ruolo piú attivo in questo senso e non lasciare il compito al mercato, ha proposto la Bárcena.
Le nazioni con maggiori disuguaglianze sono Bolivia, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Paraguay, Perú e Repubblica Dominicana, che – nel biennio 2007/8 – hanno investito in media appena 181 dollari pro capite in politiche sociali.
Brasile, Argentina, Cile, Costa Rica, Panama e Uruguay hanno investito in media 1.029 dollari nello stesso biennio. Questo blocco mostra il maggior PIB pro capite in America Latina. In posizione intermediaria si trovano la Colombia, il Messico e il Venezuela, con un investimento medio di 619 dollari.
L´accesso all´educazione é una piramide perversa. Tra i giovani piú poveri, appena 1 ogni 5 conclude gli studi medi. Tra i piú ricchi, lo concludono 4 su 5.
Secondo la CEPAL, per ridurre queste iniquitá, i paesi con minor spesa sociale dovrebbero investire tra il 6% ed il 9% del PIB, per assicurare un paniere basico mensile alla loro popolazione con meno di 5 anni, al gruppo di etá maggiore di 65 anni ed ai disoccupati. Nel caso di ragazzini da 5 a 14 anni si calcolerebbe la metá del paniere basico.
Il costo per le nazioni con maggior spesa sociale oscillerebbe tra l´1% e l´1,5% del PIB, mentre per i paesi intermediari sarebbe tra il 2% ed il 4%.
Nonostante queste sfide ancora in corso, la CEPAL riconosce che c´é stato un significativo aumento della spesa sociale globale in America Latina: tra il 1990 ed il 2008 é passata dal 12% al 18%. Si é avuta anche una riduzione della povertá nella regione: tra il 2002 ed il 2008 é diminuita dal 44% al 33%. Solo che questi risultati sono considerati insufficienti. La spesa sociale deve aumentare di piú, soprattutto adesso che l´impatto della crisi mondiale provoca la perdita di potere d´acquisto delle famiglie e trascina 9 milioni di persone nella miseria.
Frei Betto, 27/09/2010
Fonte in portoghese: http://www.adital.com.br/site/noticia.asp?lang=PT&cod=51238
Traduzione dal portoghese: Alessandro Vigilante
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martedì 23 marzo 2010

RITRATTO DI UN NON ALLINEATO, ERETICO E TEOLOGO MARXISTA

Frei Betto: frate domenicano, politico, giornalista, scrittore.

Figura storica della lotta contro la dittatura militare brasiliana, vero e proprio “motore” del movimento di Porto Alegre e dei Forum sociali, autore con Fidel Castro del best seller “Fidel e la religione”. Il suo spirito critico è indomito. Non accetta neppure la moderazione del suo amico, il presidente Lula: «Abbiamo bisogno di politiche di governo, non della politica del governo».

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Un mite, non tanto, politico e intellettuale brasiliano incontra una compagnia di danza di ex ragazzi di strada di Rio De Janeiro. Sono seduti attorno a un tavolo a poche ore dal debutto. L’uomo si aggiusta gli occhiali guardando i suoi giovani interlocutori. E inizia a parlare, scandendo le parole. «L’arte, tutta l’arte, è essenzialmente politica. Non può mai essere solo apparentemente politica. Perché la politica è tutto, è l’arma politica che vi permette di stare qui». Sorride appena, accennando a una pausa. «Pensate a questo: quando salite sul palco siete come i vostri fratelli sem terra che occupano il latifondo. Pensateci, stasera, quando salirete sul palco, anche voi starete occupando le terre del latifondo. È il vostro modo di fare politica. È il vostro modo di cambiare il mondo. Il vostro modo di cambiare la realtà ». Retorico? Demagogico? Se a pronunciare queste parole non fosse Frei Betto da Belo Horizonte probabilmente si.
Ma se a pronunciarle è proprio Carlos Alberto Libânio Christo detto Frei Betto, le cose cambiano. Frate domenicano, politico, giornalista, scrittore. Figura storica della lotta contro la dittatura militare brasiliana, vero e proprio “motore” del movimento di Porto Alegre, dei Forum sociali. Ideatore del programma Fame Zero del primo governo Lula e poi critico verso l’amico presidente (i due sono amici davvero fin dai primi anni Settanta) per le scelte neoliberiste del governo brasiliano. Uno così se lo può anche permettere di essere retorico. «Non esiste arte neutra - spiega Betto -. Ogni volta che si pretende di fare arte neutra si sta facendo solo intrattenimento, e questo fa solo il gioco della destra. L’arte non deve essere di destra o di sinistra, l’arte deve essere bella. L’artista, invece, sì. Lui deve fare la sua scelta. Ma nella sua bellezza anche l’arte ha una dimensione politica. È un linguaggio che può essere legato o meno con il cambiamento del mondo».
Essere sintonizzati con la società, con quello che la muove, che la trasforma. L’utopia? «So che questa è una parola che voi europei non amate molto, ma in America latina questo è un termine che ha invece molta forza. Credere nell’utopia significa sperare in un miglioramento ed essere capaci di lottare per questo». E Betto con l’utopia si è sempre misurato. Giovanissimo, nel 1968, si trovò coinvolto con il movimento di resistenza alla dittatura anche in relazione ai gruppi che organizzarono il rapimento dell’ambasciatore brasiliano. Nel 1969, per la seconda volta dopo un primo fermo nel 1964, venne arrestato. Catturato dopo un anno trascorso come latitante in un convento francescano a Porto Alegre sotto falso nome. Torturato in carcere. E come lui vennero torturati centinaia di militanti, fra cui moltissimi frati domenicani. Dopo quell’esperienza scrisse un libro, Battesimo di sangue, nel quale denunciava la repressione della giunta militare e raccontava la storia di un altro frate, Frei Tito, che non riuscendo più a rientrare alla normalità dopo il carcere e le torture si suicidò in Europa da esule.
Betto, prima di essere attivamente coinvolto nel governo Lula, è stato uno dei motori intellettuali dell’affermazione dei movimenti sociali e sindacali in Brasile. Amico e biografo di Fidel Castro, dopo aver lasciato alla fine del 2005 il governo Lula, è tornato al suo lavoro di scrittore e giornalista a tempo pieno. Racconta della sua amicizia con il leader cubano: «Il mio primo incontro con Fidel è stato nel luglio 1980 a Managua, nel primo anniversario della rivoluzione sandinista nel 1981. Sono poi andato a Cuba, dove si stabilì una amicizia forte che nel 1985 ho avuto l’opportunità di trasferire in un libro». Un best seller non solo a Cuba, ma in tutto il mondo, in cui Betto e Castro dialogano senza pudori ricercando il superamento degli steccati fra marxismo e cristianesimo di base, fra socialismo e teologia della liberazione.
Quella teologia della liberazione
Betto infatti, era e rimane una delle voci critiche e non allineate di quel pensiero nato a cavallo della rivoluzione cubana e della nascita della teologia della liberazione negli anni Sessanta nella Conferenza dei vescovi latinoamericani di Medellin. Teologia della liberazione di cui rimane una delle voci più autorevoli insieme a Leonardo Boff. E come il vecchio francescano estromesso dalla Chiesa cattolica, costretto a lasciare la toga da un silenzio imposto più di vent’anni fa dall’allora capo della dottrina vaticana Ratzinger, ha continuato ad analizzare paradigmi sociali e culturali integrandoli in una visione laica della teologia. Una visione che li ha resi, entrambi, eretici per scelta e distanti galassie perfino dalle visioni più progressiste che sopravvivono all’interno della Chiesa oggi. Per lui i venti anni di dittatura militare non sono stati ancora assorbiti e metabolizzati dalla società brasiliana.
Quel periodo, secondo Betto non potrà essere mai superato, se non verranno resi pubblici «i file delle tre forze armate, portando il torturati e torturatori in tribunale, e scoprendo la sorte delle persone scomparse e recuperando i corpi di coloro che sono stati uccisi illegalmente». Betto ritiene che questo non sia avvenuto per «mancanza di volontà politica». Secondo l’intellettuale brasiliano, una delle conseguenze più visibili delle eredità della dittatura è il grandissimo livello di esclusione sociale che ancora isola milioni di brasiliani da un processo, evidente, di crescita economica del Paese. Un ragionamento, quello della mancanza di coraggio, che Betto oggi trasferisce su tutta l’azione sociale del secondo mandato del presidente Lula. «Un governo progressista, come quello di Lula, tende a neutralizzare i movimenti popolari. Le politiche sociali che ha portato avanti, che sono importanti ma non sufficienti, rendono la popolazione passiva, lasciata ad attendere la manna dal cielo. Un governo paternalistico». Da qui una sorta di smobilitazione da parte dei movimenti sociali
«Il processo di smobilitazione - spiega Betto - è iniziato con la morte del programma originario Fame Zero e lo smantellamento dei Comitati di gestione, avvenuto in quasi 3 mila città, dando vita alla Compagnia famiglia, gestito esclusivamente da parte dei governi municipali e non dai movimenti sociali ». Di fatto si sarebbe passati da un programma di inclusione sociale a un limitato programma assistenzialista snaturando la natura di un progetto che la stessa Organizzazione mondiale della Sanità aveva segnalato come modello da adottare globalmente per la lotta alla denutrizione cronica. È spietato Betto con il suo amico Lula, con cui ha diviso anche periodi di clandestinità, quando quest’ultimo era ai vertici del sindacato dei metalmeccanici a Sao Paulo. «Mi spiace che in sette anni - spiega Betto -, il governo Lula non abbia messo in atto alcuna riforma strutturale del Paese: non la riforma agraria, non un’equa politica fiscale o l’istruzione. Vi è stato un progresso significativo, certo. Ma abbiamo bisogno di politiche di governo, non della politica del governo. Penso che sarebbe sufficiente per fare un vero salto di qualità mettere in atto le misure adottate da parte dell’Assemblea costituente del 1988». Come dire: caro Lula, ricominciamo da zero.

Antonio Di Nozzo

lunedì 14 dicembre 2009

DIO NON E’ CAPITALISTA

Parola di Frei Betto

Salvare il capitalismo significa sacrificare l’umanità: o uno o l’altra devono soccombere. Non ci sono “vie di mezzo” né mediazioni secondo Frei Betto, al secolo Carlos Alberto Libânio Christo, che abbiamo incontrato a fine maggio a Trento, dov’era di passaggio per un convegno.

capitalismo

[La Piramide del Capitalismo. Dall'alto: "Vi governiamo" (governanti e potenti), "Vi inganniamo" (preti e politici), "Vi spariamo" (i militari), "Mangiamo per voi" (la borghesia), "Lavoriamo per tutti e diamo da mangiare a tutti" (i lavoratori)]

Come si può rinnovare la Chiesa se le sue teste migliori stanno sotto la ghigliottina di chi vede eresia dove c’è fedeltà allo Spirito Santo?“, scriveva Frei Betto qualche giorno prima dell’ultima visita in America Latina di Benedetto XVI. Da poco il pontefice aveva condannato le tesi di Jon Sobrino. “Quel che c’è dietro la censura a Jon Sobrino – continuava Frei Betto – è la visione latinoamericana di un Gesù che non è bianco e non ha gli occhi azzurri. Un Gesù indigeno, negro, scuro, emigrante; Gesù donna, emarginato, Il Gesù descritto nel capitolo XXV di Matteo: affamato, assetato, stracciato, malato, pellegrino. Gesù che si identifica con i dannati della terra e che dirà a tutti che di fronte a tanta miseria devono comportarsi come il buon samaritano: ‘Ciò che farete a uno dei miei piccoli fratelli, lo farete a me’ (Matteo 25,40)”.

Al giornalista, saggista e teologo abbiamo chiesto innanzitutto, se il Papa dovesse tornare in America Latina, cosa gli chiederebbe, cosa dovrebbe fare il pontefice per rientrare in dialogo con le Chiese dell’America. “Prima di tutto riconoscere – ha risposto – il modello delle comunità di base come alternativa a quello delle parrocchie. Il modello parrocchiale è di tipo ‘feudale’, quello delle comunità è moderno, di partecipazione dei cristiani. Seconda cosa: metta da parte il celibato obbligatorio. Permetta finalmente che uomini e donne sposate possano diventare sacerdoti. Del resto il principale apostolo di Gesù, Pietro, era sposato. Gesù stesso ha curato la suocera di Pietro che non solo è stato un apostolo, ma il primo capo della Chiesa. Il primo apostolo di Gesù non è stato un uomo, ma una donna: la samaritana del capitolo IV di Giovanni”.

Lei parla di una cultura della solidarietà mondiale e personale: ma si può essere realmente solidali con il ‘fratello africano’ o delle favelas così come con l’anziano della porta accanto, senza avere una fede religiosa, cristiana?
Chiaramente sì: la cultura della solidarietà trova uno spazio naturale nell’intimo di ogni uomo di qualsiasi cultura. I valori del Vangelo sono universali.

Dopo il crollo del comunismo reale adesso è giunto il momento della crisi strutturale del capitalismo: come la giudica?
Era una crisi prevedibile quella del sistema capitalista. Perché hanno abbandonato la produzione per scegliere la speculazione. Oggi dobbiamo domandarci se salvare il capitalismo o l’umanità. Salvare il primo significa mantenere intatti i problemi che assillano il mondo oggi. Salvare l’umanità implica invece un cambiamento radicale della logica del sistema attuale: passare dalla competitività alla solidarietà.

La tecnica, la creazione di «mondi e reti virtuali», che ruolo hanno avuto per provocare la crisi attuale, economica, ma anche di valori?
Il mondo virtuale crea valori virtuali. Le persone sono molto “etiche” a parole, ma non nella pratica, nelle azioni. L’avanzamento di tutta questa tecnologia crea una grande preoccupazione nella società: è più facile avere degli amici tramite Internet, con le e-mail, che nella relazione concreta. Abito a San Paolo, ho un amico “virtuale” a Tokyo, ma non conosco il mio vicino di casa. Il progresso tecnologico di per se non è un male, anzi può essere realmente positivo, ma sta creando un sacco di problemi sul versante della relazione. Ci sono poi degli aspetti negativi anche nel “lavoro virtuale”: oggi il tempo delle persone è per la maggior parte occupato dal lavoro. Qualcuno dice che è un bene poter a lavorare a casa, con i computer, magari anche il sabato e la domenica. Così facendo però il lavoro invade anche lo spazio dedicato alla famiglia, alle relazioni.

Venendo in Italia avrà sentito delle recenti novità in materia di immigrazione: gli ‘irregolari’ (privi di permesso di soggiorno valido) sono oggi sono bollati come ‘clandestini’ e ‘fuorilegge’. Come giudica questo atteggiamento nei confronti dei migranti?
Questa chiusura, rigidità, con gli stranieri è molto grave. Il problema non è come impedire agli stranieri di venire nel “primo mondo”, ma come permettere agli abitanti del terzo mondo di condurre una vita dignitosa nella loro terra. Dobbiamo “chiudere” con le differenze tra primo, secondo e terzo mondo: creare delle relazioni egualitarie all’interno del pianeta.

Come declinare oggi “l’opzione fondamentale per i poveri”?
Difendendoli ovunque: in ogni luogo del pianeta.

La Chiesa che deve fare, per realizzarla?
Mettere in pratica le conclusioni del Concilio Vaticano II: essere una Chiesa del popolo, con il popolo, per il popolo.

Ultimamente la teologia della liberazione, di cui lei è uno degli iniziatori, si è spostata, soprattutto con Leonardo Boff, verso l’attenzione ai temi dell’ecologia, con concetti chiave come la “madre Terra”. Lei è favorevole a questa sottolineatura?
Quello di Boff è uno dei temi attuali della teologia della liberazione, ma non è l’unico. Ci interessano tutte le problematiche attuali del mondo. Di certo non siamo rimasti fermi agli anni settanta, quando nacque la teologia della liberazione, con un’attenzione alla relazione tra fede e marxismo. La fede oggi si relaziona con le questioni economiche, della globalizzazione, della solidarietà. Non può più essere monotematica, ma tenta una risposta a tutti i nodi problematici attuali.

Cosa pensa del castrismo e di Cuba?
Sta resistendo bene al blocco economico mondiale. Speriamo che con l’arrivo di Obama si possa riaprire un dialogo.

Ma come si vive a Cuba oggi?
Noi latino-americani diciamo che i ricchi che vanno a vivere a Cuba trovano l’inferno, per la classe media è come andare in purgatorio, i poveri invece a Cuba conoscono il paradiso. Perché non ci sono favelas, non c’è mafia e droga, non ci sono squadroni della morte. Le persone sono povere, ma hanno una vita dignitosa, che tutti i latino- americani poveri desidererebbero.

Obama può veramente cambiare le cose?
Credo di sì, ne sta dando dimostrazione con i suoi tentativi di chiusura del carcere di Guantanamo.

Perché è uscito dal governo di Lula, in Brasile? Lei era consigliere personale del presidente…
Per due ragioni: innanzitutto perché c’è stato un cambiamento nel progetto “Fame Zero”, rimaneva un buon programma, ma non era più quello che avevamo costruito. Secondo: volevo tornare a scrivere. Senza la scrittura e la comunicazione non riesco proprio a vivere.

Alberto Piccioni

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