martedì 12 ottobre 2010

LA SFIDA DELL’AFRICA: WANGARI MAATHAI

L’Africa è il continente dimenticato. L’Africa è una miniera di risorse. L’Africa è il buco nero della storia. L’Africa è la terra di conquista per i cinesi. L’Africa è un grande punto interrogativo o per dirla alla latina “hic sunt leones”. Libri scritti sull’Africa ce ne sono a centinaia, ma sempre a partire da uno sguardo esterno. Tra i tanti autori che hanno descritto quale sia “la loro Africa” quasi nessuno è africano. Chi è nato in questo straordinario continente si rivolge più spesso agli stranieri che agli altri africani. Nessun autore racconta agli africani una visione “africana” dell’Africa.

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Nel suo discorso di Accra, Barack Obama ha messo in chiaro un principio che dovrà valere da qui in futuro per tutti gli stati africani che hanno scelto la strada della democrazia. Il destino dell’Africa è in mano agli africani. Ecco la promessa. Ecco la sfida dell’Africa che ci racconta Wangari Maathai, donna leader del movimento ecologista keniota “La cintura verde” nato trent’anni fa per salvaguardare la biodiversità di una natura sempre più devastata e divenuto con il tempo una forma di aggregazione popolare per coltivare insieme agli alberi anche i diritti umani e quella società civile che in Africa manca.
Wangari Maathai è figlia di quel sogno kennediano che ha concesso a molti giovani africani di andare a studiare in America per costruire una nuova classe dirigente per l’avvenire della decolonizzazione. I sogni di quella generazione, che Obama narra nei “Sogni di mio Padre”, sono i semi del movimento di Wangari e di quell’etica della responsabilità che le ha valso il premio Nobel per la Pace nel 2004. La sfida dell’Africa è riconoscere di essere saliti sull’autobus sbagliato e cambiare direzione. Non si tratta di una sfida facile e Wangari Maathai ce lo spiega bene ricordando quanto siano profonde le eredità del colonialismo e quanto i leader africani abbiano fatto poco per disfarsene offrendo “una soluzione africana” ai problemi del continente.

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Un continente diviso in macro-stati dai confini fittizi e dalle molteplici identità culturali e linguistiche, dove centinaia di guerre civili negli ultimi cinquant’anni hanno radicato profonde divisioni non può garantire una risoluzione dei conflitti semplicemente con la democrazia. È necessario un passaggio obbligato verso la riconciliazione nazionale, come avvenne nel fortunato caso sudafricano. Se Kigali diventerà la Zurigo africana sarà possibile soltanto attraverso un modello democratico consensuale che accetti le diversità micro-nazionali come ricchezza piuttosto che accusarle di forme di tribalismo. Se nel futuro si vuole che il carisma della leadership femminile come quella di Ellen Johnson Sirleaf vinca anche in altri stati del continente, ricordando che in molte culture africane la parità tra i sessi è stata una cosa normale, allora bisogna continuare ad offrire alle donne l’opportunità di istruirsi ed emanciparsi. Se si vuole garantire il giusto riconoscimento alle leadership africane che si sottraggono alla logica della corruzione e della violenza per fare il bene del proprio paese allora è opportuno studiare degli strumenti per valorizzare una tale etica, come fa il premio Ibrahim.
I grandi vertici internazionali come il G20 potranno continuare a promettere molto (mantenendo spesso poco peraltro), ma poco cambierà sin quando si resterà nella logica “benefattore – assistito”. Soltanto riqualificando questa relazione ad un rapporto tra pari fondato “sul mutuo rispetto e mutua responsabilità”, come dice Obama, l’Africa troverà la propria strada, la propria identità e dignità e le proprie radici. In caso contrario l’aiuto allo sviluppo diventerà un veleno. Questa la sfida di Wangari Maathai e del suo movimento della cintura verde.
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