Pubblicato in quaderno di Saramago da massimolafronza il 9 Settembre 2009
di José Saramago
Pubblicato in quaderno di Saramago da massimolafronza il 9 Settembre 2009
di José Saramago
Un nuovo studio analitico prodotto da Traffic evidenzia che in Africa centrale il commercio di carne di animali selvatici è molto maggiore di quanto si pensasse fino ad ora. Il rapporto "Application of food balance sheets to assess the scale of the bushmeat trade in Central Africa" è stato presentato al Bushmeat Liaison Group Meeting della Convention on Biological Diversity tenutosi a Buenos Aires, in Argentina, dal 15 al 17 ottobre ed è stato finanziato dal ministero per lo sviluppo e la cooperazione economica della Germania.
Il rapporto di Traffic (il network di monitoraggio del commercio della fauna selvatica realizzato da Iucn e Wwf) si basa su una analisi dei "bilanci del cibo" forniti dal database statistico FaoStat della Fao che mettono in luce la cattiva situazione che caccia (e bracconaggio) stanno determinando per gli animali selvatici delle fot reste pluviali dell'Africa centrale.
Il prelievo di carne di animali selvatici è aumentato notevolmente nel bacino del Congo tra il 1990 e il 2005, e questo nonostante il calo complessivo della copertura forestale in Africa centrale e quindi con una riduzione di habitat per le specie più "ricercate". La situazione sembra particolarmente grave in Camerun dove il prelievo di animali selvatici sarebbe superiore al 100% a quello "sostenibile", cioè 150 kg di carne di selvaggina per chilometro quadrato di foresta. Gabon e Repubblica democratica del Congo (Rdc) si stanno pericolosamente e velocemente avvicinando a questa soglia limite.
In una riunione organizzata a settembre a Kinshasa, la capitale della Rdc, dall' Institut Congolais pour la Conservation de la Nature (Iccn) per elaborare un piano di azione nazionale per la carne selvatica, Petrus Ndongala-Viengele, direttore del ministero dell'Environnement de la Conservation de la Nature et du Tourisme, ha detto: «Questa strategia permetterà alla Repubblica democratica del Congo di salvare quel che può ancora essere salvato e di contare sul potere rigenerante della natura. Personalmente, mi sono preoccupato per il futuro dei nostri ecosistemi naturali quando ho sentito il grido di allarme che faceva riferimento alla "sindrome della foresta vuota" che sta diventando sfortunatamente una realtà per le foreste della Rdc, le cui conseguenze ecologiche potrebbero essere la diminuzione e l'estinzione di diverse specie della fauna. Questa sarebbe una catastrofe per il nostro Paese che ospita delle specie endemiche, in particolare il bonobo, il rinoceronte bianco del nord».
Proprio nella Rdc si registra il maggior aumento di consumo di carne selvatica: dalle 78.000 tonnellate del 1990 si è passati a 90.000 tonnellate nel 2005. Nella vicino Congo, nello stesso periodo, il prelievo "venatorio" è raddoppiato: da 11.000 a più di 20.000 tonnellate l'anno.
Per Stefan Ziegler, programme officer del Wwf Germania, e autore del rapporto, la situazione è ancora più grave: «Mentre i dati FaoStat sulla carne di animali selvatici sono probabilmente sottodimensionati e devono essere considerati con cautela, questi dati sono anche le fonti ufficiali più facilmente disponibili di informazioni sulla produzione di carne selvatica nel bacino del Congo e sono indicatori importanti della produzione di "bushmeat " e delle tendenze di consumo».
Il rapporto mette in luce una situazione che appare inestricabile: la fauna selvatica è una importante fonte di proteine per oltre 34 milioni di persone che vivono nel bacino del Congo e la caccia agli animali selvatici è uno dei principali mezzi di sostentamento per molte popolazioni dell'Africa centrale, inoltre il consumo di "bushmeat " aumenta sia a causa dell'aumento della popolazione umana che con la crescita del benessere individuale e Ziegler svela un altro aspetto: «Il consumo di selvaggina é più elevato nei Paesi con grandi popolazioni urbane, e l'urbanizzazione crescente nella regione del Congo rischia di esercitare una pressione ancora maggiore sulle popolazioni di animali selvatici. Il pericolo è che un insostenibile prelievo della selvaggina porti ad un crollo nelle popolazioni di animali selvatici e diffonda la fame tra gli esseri umani nella regione».
Ad essere più immediatamente minacciate sono le specie di mammiferi che vivono nella foresta. Nathalie van Vliet, Bushmeat Strategic Advisor di Traffic spiega il cortocircuito di tradizione e "modernità" che sta portando alla distruzione della vita animale in Africa centrale: «La gente del posto ha cacciato per secoli, per il cibo e per il baratto, ma gli ultimi 20 anni hanno visto emergere un mercato commerciale di selvaggina dovuto al fatto che la popolazione rurale è sempre più coinvolta nella cash economy. In precedenza, l'impatto della caccia di sussistenza era compensato dal fatto che la caccia era fatta sulla base della rotazione e che si alternavano tratti di aree forestali. Tuttavia, la modificazione delle dinamiche della popolazione umana e fattori socio-economici stanno portando ad un aumento di richiesta di carne sempre più insostenibile per le popolazioni di animali selvatici».
Un precedente studio della Wildlife Conservation Society in Camerun ha rivelato che il prelievo di selvaggina esercitato dai cacciatori "commerciali" immigrati é 10 volte di più di quello dei cacciatori locali "di sussistenza". «Quello che è chiaro - dice la van Vliet - è che devono essere messe in atto strategie e misure di gestione per evitare un eccesso di prelievo e per fornire fonti alternative di proteine per gli abitanti della regione».
Però, secondo lo studio, «lo sviluppo della zootecnia non può essere una soluzione ideale per fornire proteine sostitutive della carne di selvaggina». Ma per il rappresentante di Traffic in Africa centrale, Germain Ngandjui, si potrebbe rendere più sostenibile la caccia legale ed impedire un bracconaggio diffusissimo: «I Paesi dell'Africa centrale possono collaborare per affrontare questo crescente problema, attraverso lo sviluppo di un "enforcement plan" regionale e creando la volontà politica di combattere la caccia ed il commercio di frodo di carne di selvaggina in ambiti regionali come il prossimo nelle sedi regionali come il prossimo Yaounde +10 Summit».
Alcune buone ragioni per diventare cittadini globali non casuali, ma critici e consapevoli, iniziando dalle scelte quotidiane e banali, come la spesa e il conto in banca.
A cura di Gaia animali & ambiente Onlus – Consumo critico e consapevole.
ll non acquisto, acquisto critico o boicottaggio possono influire sui prodotti e sui punti vendita facendo calare le vendite del 2-3%, una percentuale sufficiente a condizionare o modificare le scelte delle imprese. E’ indispensabile quindi trasformarsi da consumatori del mondo in cittadini del mondo.
La banana
La scarpa
Il prezzo di una scarpa Nike, Levi’s, Adidas, Reebok (in dollari).
Le multinazionali.
Bayer
Benetton
Ciquita, Dole e Del Monte
Coca- Cola
Del Monte-Cirio
Eni-Saipem
Henkel
Cosmetici e profumi (L’Oreal, Elena Rubinstein, Synthelabo etc.)
Mc Donald’s
Nestlè
Nike
Montedison
Monsanto
Novartis
Parmalat
Philip Morris
Procter & Gamble
Unilever
Walt Disney
Animali Multinazionali
Perché preferire il fresco di stagione al surgelato.
Le Banche armate.
Credito armato
La classifica dei “cannonieri”
A Cotonou capitale del Benin si trova il più grande mercato all'aperto dell'Africa occidentale dove quotidianamente si scambiano merci per un valore di 1,5 milioni di euro.
Dantokpa significa "sulle rive della laguna Dan". Dan, nella cultura animistica del Benin, è una divinità rappresentata dal serpente, il dio della prosperità e dell' abbondanza.
Questo ampio complesso di 13 ettari, originariamente costruito nel 1963, ha ormai raggiunto i 20 ettari e invade le case circostanti. E' un mercato internazionale in cui operano commercianti provenienti dai paesi limitrofi: Nigeria, Mali, Burkina Faso, Niger, Costa d'Avorio ma anche Togo e Ghana.
A Dantokpa si compra e si vende di tutto.Dai prodotti dell'agricoltura ai prodotti usati importati dall'Europa. Ma le donne che sono la maggioranza sono le vere protagoniste di questo mercato. In effetti i box in cui si può comprare il famoso tessuto Wax sono gestiti dalle donne. In Africa conviene comprare un pezzo di tessuto e andare dal sarto per farsi un vestito. Comprarlo direttamente da un negozio costerebbe di più.
“Io Galileo, fig.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.io, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia il centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce né in scritto, la detta falsa dottrina [...] Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, e eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simile sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonzierò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani, Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633. Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.”
(n.d.t. testo dell’abiura preso da wikisource.org)
Queste parole le ha dette in un sussurro quasi impercettibile Galileo Galilei al termine della lettura dell’abiura a cui era stato costretto dagli inquisitori generali della Chiesa Cattolica il 22 giugno del 1633. Si trattò, come si sa, di obbligarlo a smentire, condannare e ripudiare pubblicamente quella che era e continuava a essere una sua profonda convinzione, ossia, la verità scientifica del sistema copernicano, secondo cui è la Terra che gira intorno al Sole e non il Sole intorno alla Terra. Il testo di abiura di Galileo dovrebbe essere studiato con l’attenzione che merita in tutti gli edifici in cui si insegna del pianeta, qualsiasi sia la religione dominante, non tanto per confermare quello che oggi è un’evidenza per tutti, che il Sole è fermo e la Terra gli si muove accanto, ma come metodo di prevenzione contro la formazione di superstizioni, lavaggi del cervello, idee fatte e altri attentati contro l’intelligenza e il senso comune.
José Saramago
Da Facebook, by The Legions:
A loro non è concesso giocare, studiare, divertirsi. Bambine di 8, 9, massimo 10 anni. Bambine appunto. Con una differenza rispetto alle altre. Loro non hanno la Barbie o la Winx, e nemmeno Cicciobello. No. Loro devono sposarsi, per forza. Con uomini molto più grandi, di 30-40 anni, che le vogliono per forza. Desiderano togliere loro l’infanzia. Sono 60 milioni nel mondo le spose bambine. In Pakistan, Bangladesh, India, Africa, in Afghanistan. Ma anche in Brasile e in Cina.
In India, secondo la legge, il matrimonio è vietato prima dei 18 anni. Nella realtà, in Stati come il Rajastan e l’Uttar Pradesh, secondo i dati dell’Unicef, la maggior parte si sposa sotto i 10 anni.
LA FUGA O IL SUICIDIO - Le ragazzine a volte scappanoi. A volte si suicidano. Il fenomeno è enorme. Succede poi, come riportano le cronache recentissime, di spose ribelli sepolte vive in Pakistan. Ma purtroppo il più delle volte chinano la testa e dicono il loro “sì”. In molti di questi paesi, come l’India il matrimonio è merce di scambio, un’alleanza, tanto che le nozze possono evitare una faida tra due famiglie, sposare una donna ancora bambina significa preservarla integra, lasciare intatta tutta la sua forza vitale, la sua purezza creatrice. Questo è quello che si vuole far credere. Preservare l’integrità. In realtà la maggior parte delle storie parla di violenze, abusi sessuali, botte e schiavitù da parte dei mariti.
IL MATRIMONIO E LA PRIMA MESTRUAZIONE -Dopo la cerimonia, le spose bambine dovrebbero tornare nella casa dei genitori fino alla prima mestruazione. I genitori che hanno fretta di disfarsi di loro le consegnano subito alla famiglia dello sposo. Ed è in questo momento che inizia l’inferno. Che la loro infaniza-adolescenza si trasforma in un incubo. Devo stare al servizio dei mariti, perché quello è il ruolo che la vita ha riservato loro.
IL DRAMMA DELLE VEDOVE BAMBINE- C’è un’altra piaga, come se non bastasse. Quando le spose bambine diventano vedove. Restano completamente emarginate. Le vedove bambine sono circa 40 milioni. Rimangono sole, senza poter tornare dalla famiglia. Secondo la cultura indù, la donna sposata appartiene per metà a suo marito. Morto il marito, la società non sa più cosa farsene di una donna a metà. Vedove che hanno dai 10 ai 15 anni. Circa il 90 per cento di loro gira l’angolo e diventa prostituta: quasi ovvio, per chi vive già sulla strada. Altre (ma sono la minoranza) vivono chiedendo l’elemosina pregando davanti ai templi indù.
Sunam. Lui si chiama Nieem. Dal 14 agosto del 2007 sono ufficialmente fidanzati e vivono insieme, per fare regolari “prove tecniche di matrimonio”. Sunam ha tre anni, Nieem ne ha sette. Succede a Kabul, Afghanistan. La piccola è stata concessa dal padre Parvez al figlio di sua sorella Fahima, disperata per quello scapolo di sette anni che ancora non era promesso a nessuna e desiderosa di avere in casa una femminuccia, anche se in veste di baby-nuora.
I due vivranno insieme fino all’adolescenza di lei, quando, per forza, saranno marito e moglie.
Lei frequenta la quarta elementare, scherza e gioca con le amichette, e all’apparenza è simile a tante altre bambine della sua età. Ma la sua condizione è ben diversa: lei stessa infatti, a soli 8 anni, non si rende ancora conto cosa voglia dire essere moglie di un uomo di 58, cui il padre l’ha ceduta in matrimonio per bisogno di soldi.
Il caso della piccola di Unayzah - città a 220 chilometri a nord di Riad - alla quale lo scorso 20 dicembre il giudice ha negato il divorzio che per lei era stato richiesto dalla madre, ha riacceso i riflettori sul triste fenomeno delle spose-bambine in Paesi di stretta osservanza musulmana come l’Arabia Saudita.
La storia è venuta dapprima alla luce nell’agosto scorso quando, subito dopo la stipula dell’accordo tra il padre della bimba e il futuro marito 58enne, la madre - a sua volta divorziata - si è rivolta al tribunale per chiedere l’annullamento del contratto di matrimonio. I giudici di Unayzah, però, dopo mesi hanno respinto il ricorso e negato il divorzio: per i magistrati la donna non aveva alcuna legittimità ad agire in giudizio per conto della piccola.
Dovrà essere la bambina stessa, una volta raggiunta la pubertà, a rivolgersi alla magistratura se vorrà separarsi dal marito. “La bimba non sa nemmeno ancora di essersi sposata”, ha spiegato l’avvocato della madre, Abdallah Jtili. A indurre il padre a dare in moglie la figlia di appena 8 anni sarebbero stati problemi finanziari: il contratto con il 58enne è stato firmato in cambio di una dote di 30 mila riyal, pari a circa 5.750 euro.
La clausola imposta dal padre, secondo quanto hanno riferito i parenti, è che le nozze non devono essere consumate prima che trascorrano 10 anni, cioé prima che la bambina, che vive ancora con la mamma, abbia raggiunto i 18 anni. I casi di bimbe date in moglie ad adulti, o anche di nozze tra piccoli coetanei (recente quello tra due bambini sauditi, 11 anni lui, 10 anni lei), rappresentano una pratica piuttosto diffusa in vari paesi del Golfo, e in particolare in Arabia Saudita, regno ultra conservatore che applica rigidamente l’Islam fondamentalista wahabita, che tra l’altro consente la poligamia.
Negli ultimi tempi si sono susseguiti gli appelli al governo di Riad, tra cui quello della Commissione saudita per i diritti umani (Hrc), a porre fine all’usanza delle nozze in tenera età. Nel vicino Yemen, invece, lo scorso aprile una bambina di 8 anni aveva ottenuto il divorzio dopo aver denunciato in tribunale il padre che l’aveva costretta a sposare un 38enne.
Yemen, Nojoud Muhammad Nasser Abusata a 8 anni dal marito 30enne
LA STORIA D NOJOUD
Poi per fortuna c’è il caso, che ha commosso il mondo intero, della sposa bambina che è riuscita ad ottenere il divorzio nello Yemen. Una storia che fa sperare. Nojoud ha 8 anni. E’ stata fotografata sorridente mentre mangia una fetta di torta al cioccolato e stringe un grosso orso di peluche rosso. Festeggia, nenanche a dirlo, il suo divorzio (concesso dal tribunale) dal marito di 22 anni più grande di lei.
Nojoud Muhammed Nasser è la prima sposa bambina a chiedere il divorzio. Ha vinto e ha festeggiato la sua libertà. Ma ha avuto un coraggio che quasi nessuna delle bambine riesce ad avere. E’ riuscita a fuggire dalla casa dello sposo per presentarsi in tribunale. Ha denunciato il padre, che l’ha costretta a sposarsi, e il marito che l’ha picchiata e forzata ad avere rapporti sessuali.
Ogni volta che voleva andare a giocare in cortile, lui la picchiava e la costringeva ad avere rapporti sessuali. Un incubo per una bambina che, nello Yemen, ha avuto il coraggio di rivolgersi al giudice per chiedere il divorzio dal 30enne marito aguzzino. Il giudice Muhammed al-Qadhi ha ordinato l’arresto del padre e del marito della piccola. E’ la prima volta, che nel Paese, una minorenne chiede il divorzio.
La sposa bambina - riferisce la stampa del paese arabo - si è rivolta al tribunale per chiedere il divorzio dopo due mesi di matrimonio forzato. “Mi faceva delle brutte cose, non avevo idea di cosa fosse il matrimonio”, ha raccontato la piccola Nojoud Muhammad Nasser al quotidiano Yemen Times.
“Io correvo fra le stanze per sfuggirgli, ma lui mi acchiappava e mi picchiava e poi faceva quello che voleva”, ha detto ancora la bambina, dicendo che lei voleva giocare nel cortile ma il marito glielo impediva. Nello Yemen le nozze precoci sono molto frequenti. Molte bambine vengono date in spose in tenerissima età, attraverso accordi fra i padri e uomini maturi. L’età minima per sposarsi nel Paese sarebbe 15 anni, ma soprattutto nelle zone rurali questa soglia non viene rispettata. In alcuini casi, viene stipulato un “contratto” secondo il quale le ragazzine non possono essere obbligate dai mariti a rapporti sessuali fino alla pubertà, ma spesso questo non accade.
Da tali pratiche, peraltro, l’Italia non è immune. Parli per tutte la vicenda di Brescia, dove una bambina di 12 anni di origine serba è andata in moglie con il rito rom a un kosovaro di 21 anni, dandogli anche un figlio, dopo essere stata “acquistata” - secondo le accuse - per 17 mila euro pagati alla famiglia di provenienza. In carcere, tra il luglio e l’ottobre scorsi, sono finiti sia il marito che i suoceri.
Questa è la storia delle spose-bambine, unite in matrimonio per scelta della famiglia, per soldi o per motivi di discendenza con uomini. Una storia che è stata rappresentata in modo esemplare nella immagine di Stephanie Sinclair, nominata dall’Unicef Foto dell’anno 2007. Questa foto ha vinto, come ha vinto Nojoud.
Dal Sito UNICEF DE http://www.unicef.de/5075.html
UNICEF-Foto des Jahres 2007:
Bilder von Gegensätzen
Eva Luise Köhler ehrt Stephanie Sinclair für Aufnahme aus Afghanistan
Traduzione
“UNICEF foto dell’anno 2007 rende in maniera molto esplicativa un problema mondiale. Milioni di ragazze sono sposate durante l’infanzia - una vita auto-determinata alla negazione rimane per la maggior parte di questi bambini spose “, ha detto l’UNICEF alla cerimonia di premiazione per la foto dell’anno a Berlino.
Secondo l’UNICEF nel mondo vivono più di 60 milioni di giovani donne sposate in tenera età, la metà dei quali in Asia meridionale.
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IN BANGLADESH E PAKISTAN E’ IN USO DAL 1967 DI PUNIRE CON ACIDO SOLFORICO LE DONNE CHE ACCENNANO DI RIFIUTARE UNA PROPOSTA DI MATRIMONIO..O SCELGONO UN MARITO DIVERSO DA QUELLO SCELTO DALLA FAMIGLIA..O SONO USATE PER VENDICARSI SULLA FAMIGLIA..O PER RISOLVERE CONTROVERSIE ECONOMICHE E POLITICHE …O SEMPLICEMENTE SONO TROPPO BELLE….
IN PAKISTAN AVVIENE IL PIU’ ALTO NUMERO DI VIOLENZE SULLE DONNE CONSIDERATE MERCE DI PROPRIETA’ E COME I BAMBINI VENGONO SFRUTTATE E MALMENATE OGNI GIORNO..
NEL 1979 IN BANGLADESH SI SOTTOSCRISSE LA CONVENZIONE ONU PER ELIMINARE LA DISCRIMINATORIA CONTRO LE DONNE MA NON PRODUSSE EFFETTI..LA POLIZIA PROTEGGE GLI AGGRESSORI…NEL 1999 LO STESSO GOVERNO HA DECRETATO DOPO NUMEROSE CAMPAGNE PER SENSIBILIZZARE L’OPINIONE PUBBLICA..LA PENA DI MORTE PER QUESTI CRIMINI E HA LIMITATO LA VENDITA DI ACIDO….MA LE VIOLENZE RIMANGONO E LE CONDANNE RESTANO POCHE..
L’ACIDO SI TROVA IN COMMERCIO A BASSO COSTO E FACILMENTE..NE BASTA POCO PER RECARE DANNI INCALCOLABILI…SI PUO’ PERDERE L’USO DEGLI OCCHI..LA PELLE VIENE CORROSA ISTANTANAMENTE..PUO’ PENETRARE FINO ALLE OSSA INTACCANDO I MUSCOLI E ALCUNE SONO COSTRETTE A NUTRIRSI ATTRAVERSO CANNUCCE…IN ALCUNI CASI MUOIONO..O POI TENTANO IL SUICIDIO….
NEL 2002 SONO STATE AGGREDITE E TORTURATE PIU’ DI 300 DONNE..,…..IN MOLTI CASI UNA DONNA AGGREDITA VIENE EMARGINATA DALLA FAMIGLIA STESSA…NESSUNO LE SPOSERA’ E NON POTRANNO AVERE FIGLI..
PRIMA E DOPO L’ACIDO..
COSI’ COME PER L’INFIBULAZIONE…MENOMATE NEL CORPO E NELL’ANIMA PREDA DI UNA FOLLIA DI DOMINIO MASCHILE …SUCCUBI DI UNA CULTURA CHE LE VUOLE ANCHE CONSENSIENTI A TALI USI…MA NON C’E’ SCAMPO QUANDO TE LO FANNO A SEI ANNI…
NE QUANDO TI FANNO FUORI DA UN CONTESTO SOCIALE…
PER ADERIRE AGLI ASPETTI RITENUTI DI RANGO E DI BELLEZZA..NON SI E’ TENUTO CONTO DEL DOLORE E DELLE DEFORMAZIONI CAUSATE DALLA FASCIATURA DEI PIEDI CHE IN CINA INIZIAVA A 2 ANNI NELLE FAMIGLIE RICCHE PER PASSARE AI 15 ANNI IN QUELLE POVERE..POICHE’ DOVEVANO ESSERE IN GRADO DI LAVORARE NEI CAMPI FINO A CHE NON VENIVANO DATE IN SPOSE…
PER NON DIRE DI TUTTE QUELLE VIOLENZE CHE OGNI ATTIMO SI CONSUMANO…
FISICHE ..MORALI..PSICOLOGICHE…MEDIATICHE
NON CI SI FERMA DAVANTI A NULLA..NEMMENO SE PER VENDERE QUALCOSA SI INNEGGIA ALLA VIOLENZA..ANZI LA SI PRESENTA COME UNA FORZA DI BELLEZZA..DI UN ESSERE…DI UN TRAGUARDO..
IN ITALIA NEGLI UNDICI MESI HANNO SUBITO VIOLENZA UN MILIONE DI DONNE..
in Italia più di 6 milioni e mezzo di donne ha subito una volta nella vita una forma di violenza fisica o sessuale…MAGGIORMENTE LAUREATE..DIPLOMATE..DIRIGENTI..TRA I 25 E I 40 ANNI…..LA PRIMA CAUSA DI MORTE O INVALIDITA’ PERMANENTE..PIU’ DEL CANCRO..PIU’ DEGLI INCIENTI STRADALI…UNA PIAGA SOCIALE CONME LE MORTI BIANCHE…COME QUELLE PER LA MAFIA….
SI ARRIVA QUASI AL 70% DI DONNE CHE SUBISCONO DA PERSONE CONOSCIUTE..DI FAMIGLIA…PROCURANDO UN ANNINTAMENTO TOTALE SIA FISICO CHE PSICHICO..MOLTE NON RIESCONO A USCIRNE…A DENUNCIARE…MOLTE NON POSSONO…MINACCIATE E ISOLATE…CON UNA CULTURA CHE LE VUOLE SOTTOMESSE…SUCCUBI…APPOGGIATA DA UNA CHIESA DEVASTANTE DEI DIRITTI UMANI SOLO PER SALVARE QUELLE DEMACOGICHE DEMENZIALITA’ SU CUI VERTE OGNI RELIGIONE CHE VUOLE SOTTOMETTERE LA MENTE E IL CORPO PER UN SUO POTERE..E NON PER AMORE…
Telefoni Rosa
Roma Tel. 06.68.32.690
Torino Tel. 011.56.28.314
Vicenza Tel. 0444.32.664
Verona Tel. 045.83.02.955
FORSE PERCHE’ IL MONDO DELLE DONNE E’ COSI’ BELLO DA FAR SORGERE INVIDIA….FORSE PERCHE’ IN LORO SORGE LA VITA STESSA…FORSE PERCHE’ MOLTI UOMINI NON SANNO AMARE…FORSE PERCHE’ FORZA NON VUOL DIRE GRANDEZZA…
FORSE E’ PERCHE VI AMO CHE VI HO FATTO VEDERE TUTTO QUESTO. PERCHE’ NON SERVE NASCONDERE PER PROTEGGERE. CHI NON CONOSCE NON SA DIFENDERSI E NON PUO AIUTARE NE SE STESSO NE UN ALTRO. FORSE PERCHE NON CE L’HO FATTA A PUBBLICARLA IO QUESTA NOTA.
PERCHE PER PER UOMO, O ALMENO PER ME, PIANGERE DENTRO SE STESSO, E’ TERRIBILE.
Guardian Angel
La lunga linea che un tempo separava Caponapoli dalle chine dei Miracoli, dei Cristallini e della Sanità, avviando al Sebeto e al mare il fango e l’acqua che piovevano a valle, infuriando da Capodimonte e dai Vergini nei giorni di tempesta, segnava la terra di nessuno tra fascisti e comunisti: ‘a lava ‘e Virgini, ricordavano ancora i vecchi della mia prima infanzia e mormoravano impauriti: ‘o pateterno s’è scurdato ‘e l’acqua!
Per me, che stavo a sinistra, la risicata sicurezza era stretta d’assedio in un’isola rossa, compresa tra via Duomo e via Pessina, Portalba e Piazza Cavour.
Un breve “camminatoio” arrischiato e strenuamente difeso conduceva a ridosso di Santa Chiara, dove la casa di Attilio e Lucia offriva rifugio a qualunque ora del giorno e della notte. Tutt’intorno il nero minaccioso dei mazzieri fascisti e le regole non scritte d’una convivenza diffidente ed astiosa.
La città ormai ci ignorava. Curiosa e stranamente compiaciuta, aveva vissuto con noi la giocosa follia del Sessantotto, ospitando nelle piazze disincantate e indolenti i suoi ragazzi variopinti e musicali: Napoli non si lascia facilmente impressionare. L’onda lunga e rossa dei cortei, con le ragazze mai viste in prima fila e i grandi striscioni di protesta, si era incontrata quasi naturalmente con la furia dei senzatetto, la disperazione dei disoccupati e le manifestazioni degli operai in lotta per il posto di lavoro. Ognuno per la sua strada però: un’anima comune non s’era trovata. Gli operai, appena intravisti fuori i cancelli delle fabbriche che una dietro l’altra chiudevano, erano stati per gli studenti la “classe operaia” e non avevano sapore d’officina; in quanto agli studenti, che pure cominciavano ad essere figli di tutte le classi, erano stati e rimanevano per gli operai i “figli di papà”: quelli di Pasolini a Primavalle. In quella sintonia tra l’intellettuale eretico e i lavoratori del Pci, scarsamente acculturati, si sarebbe potuta leggere la storia d’un isolamento. Ma il presente nasce dal passato e non può avere radici nel futuro: gli manca la consapevolezza d’essere la storia.
Diversamente da quello che poteva apparire, tuttavia, la protesta aveva trovato spazio tra la furia e la disperazione, aveva indovinato la sua lunghezza d’onda e non s’era impantanata nell’antico scetticismo della plebe, che inghiottiva tutto nella sua apatia beffarda.
Di giorno era un susseguirsi di manifestazioni e scontri: torme di senzatetto, operai espulsi dalle fabbriche che chiudevano tra scontri sanguinosi e promesse dei politicanti, studenti in lotta per il diritto allo studio. Il progetto d’una società di eguali era il cuore di un gran sogno, ma aveva contorni indefiniti e si faceva ideologia. Le “masse”, separate, tenevano le piazze con onore, senza firmare accordi, poi la notte il presidio toccava alle esplosioni d’un dissenso che aveva le tinte estreme e la radicale impotenza dell’individualismo anarchico.
Come sia andata agli altri non ho mai saputo. A me, che chiedevo l’attestato e un paio di giorni per la mia paziente ragazza, il presidente della commissione oppose un rifiuto nettissimo – esami o nulla, condizioni “non negoziabili” – e m’invitò a sedere mentre si lasciava cadere sulla sua sedia e sulla cattedra che aveva davanti, allungandosi verso di me e portandosi una mano alla fronte, come volesse dirmi : ma sei pazzo, insomma!
Era una sorta di molosso buono, con gli occhi acquosi e i capelli cortissimi, l’uomo che quel giorno diede una svolta improvvisa alla mia vita.
- Lei ha fatto lo scientifico, ma il diploma non ce l’ha. E’ così? mi chiese a bruciapelo, mentre mi sistemavo.
- No - replicai infastidito - ma non sono qui per gli esami… non ho studiato. Sono militare in licenza e… vorrei andar via.
Si allungò e si distese con l’aria insinuante, gli occhi acquosi si fecero dolcissimi e le parole sembrarono carezze:
- Ha fatto ottimi scritti. Non può andarsene. Non può fare una sciocchezza simile. Resti e faccia vedere al professore di matematica che è lei quello che ha passato il compito ai compagni. Solo lei può essere stato.
Ce n’era quanto bastava per vincere la mia resistenza e il diploma compensò le mie infinite amarezze di proletario fra i futuri scienziati della borghesia e la fede incrollabile di mia madre.
Un anno dopo, studente all’università, mentre nelle aule espugnate si attaccava la selezione di classe, tornai in quella scuola per una ragazza filiforme che mi aveva incantato e un corso di storia autogestito, in cui feci da riferimento per la Resistenza.
Cominciarono così i giorni in cui sognammo il riscatto. Di ciò che fummo restano tracce ovunque, ma non siamo gli stessi. Ora che passo a piedi giù per via Pessina, dove ogni sera sbucavamo come dal nulla, uscendo dall’antica sala alla galleria Principe di Napoli, mi fa male vedere ch’è sparita la grande tabella con la falce e il martello e i segni degli attacchi improvvisi dei fascisti sulle pareti scalcinate.
Di là partii la sera che conobbi la lama della paura e del coltello fascista. Di là, una sera che s’era fatto tardi per fare attacchinaggio – fuori zona di notte non piaceva a nessuno – e m’ero trattenuto per la riunione della Commissione Scuola, dove portavo esperienze e ferite mai rimarginate. S’era aperta la piaga dei rapporti tra studenti e operai, e bastava sentirlo Fassataro, segaligno e curato, mentre parlava delle difficoltà di comunicazione, perché la difficoltà assumesse un’anima ed un corpo: era egli stesso la difficoltà, con la sovrabbondanza delle parole prese in prestito da letture di politica e storia – la sua vita era lì, ma serviva se stessa – che disegnavano un circuito chiuso, e la tentazione mai superata di insegnare là dove c’era solo da imparare. Scienziato borghese – quanti ne ho conosciuti nel mio campo – non sapeva ascoltare. Imbastiva ragionamenti sottili, produceva analisi corrette, e però non ascoltava. Anche quella sera, che aveva messo al centro gli operai e gli studenti, non ascoltava. Parlava a se stesso, Fassataro, debordava e, movendosi lungo molteplici raggi, percorreva archi sempre più lunghi d’una circonferenza, copriva a grado a grado, tutto intero un cerchio e lasciava sepolti sotto il fiume di parole i dati reali del problema: eravamo due mondi che non si incontravano.
Io ne provai fastidio:
- Tu vuoi quadrare il cerchio, lo interruppi d’un tratto, nel fumo delle sigarette e nel silenzio improvviso.
Fui brusco, mi ricordo, e mi cavai fuori dall’animo un discorso “su erre e su pi greco” – così mi venne di dire – tirando a bruciapelo:
- Fuori dalla geometria di questo nostro linguaggio da un po’ di tempo io vedo solo una sorta di processo estetico: è giusto ciò ch’è detto bene, ed è detto bene ciò che conferma un assunto. E’ un processo illogico. Più ci penso, e più mi pare che il fine delle parole sono le parole. Noi poniamo questioni di progresso sociale. Siamo filosofi e illuministi. La politica, però, non c’entra. Prendete questa storia degli operai, per esempio. Lui disegna un cerchio: è l’area nella quale ci muoviamo. Gli operai ne sono fuori, ed è logico che sia così: noi diciamo fabbrica, capitale e lotta, loro hanno i turni e la fatica, il regolamento e la repressione. Come funziona fuori dal cerchio? Non lo sappiamo: fuori dalle nostre parole, in fondo c’è soltanto il vuoto. La circonferenza che ci racchiude è una barriera insormontabile: gli operai, dentro il nostro cerchio, sentono solo uno spazio saturato. Tra noi e loro c’è un muro: bisogna consentire una circolazione, occorre aprire una breccia.
- Però, m’interruppe Lucia pensierosa, nemmeno tu vai molto lontano. C’è un muro, dici, quindi apriamo una breccia. E va bene. Ma come? Le parole…
La interruppi. Lungo la schiena mi correva un brivido, perché la risposta mi sembrò subito chiara e raggelante:
- Aprire una breccia in senso militare, sussurrai, mentre lasciavo la riunione. Provocare uno scontro di tale violenza, che la barriera cada e ci vengano dietro.
Pochi minuti dopo ero in strada, seguito da due liceali con il secchio di colla, un pennello e i manifesti arrotolati. Li precedevo, mani in tasca, stretto nel giaccone, e non avevo voglia di parlare. Quello che c’era da dire l’avevo già detto: niente scherzi che ce la fanno pagare. Se n’erano stati zitti e m’era bastato.
Da quando ci avevano assaliti a Via Bellini, stentavo a controllare la tensione faticosa dei ricordi e il respiro si faceva corto mentre tornavano improvvisi il rumore della corsa sul selciato, le ombre sbucate dal nulla nell’umido della sera, la furia delle catene, il vapore delle bocche ansimanti e l’urlo di Lucia caduta in ginocchio, col sangue che colava a rivoli dalla testa sull’eskimo strappato, la chitarra spezzata e lo stupore sul viso addolorato. Mi pareva di sentirla la corsa sul selciato che sprofondava nella notte gli aggressori; la corsa, che ora me li riportava, emersi nuovamente dal nulla, nell’ombra umida delle notte, col vapore sulla bocca, le spranghe e le catene: c’erano addosso, mentre istintivi e lenti, a piccoli passi guardinghi cercavano alle spalle la tutela del muro.
Con la coda dell’occhio la vidi e tremai: a pochi metri da me, sulla fiamma tricolore del Movimento Sociale, la falce e martello si piegava in avanti sulle prime parole di un manifesto incollato a metà: “Una bomba in Parlamento” c’era scritto. Pensai per un attimo a Valpreda e sorrisi, mentre la paura quasi mi schiacciava.
- Idioti! - esclamai. E mi chiesi sconcertato: Quanti ne hanno coperti? Poi scossi la testa, sconsolato: quanti bastavano a tirarceli addosso.
Giunsi spalle al muro e mi fermai. Eravamo in trappola: non una via di fuga. La salita della Sanità era un budello nero nella notte fredda ed il silenzio cupo e gli spintoni facevano male: i due ragazzini inesperti avevano le mani in alto, come soldati che si arrendono. Uno implorava: – non ci fate male.
Pallido come un cencio, io tremavo e mi odiavo per quel tremito irrefrenabile che non sapevo fermare. Avrei pianto di rabbia perché avevo paura, quando dal gruppo dei mazzieri si fece avanti un ragazzo bruno e quadrato, stretto nei jeans scoloriti e in un giaccone di velluto verde scuro. Lo vidi: frenò con un cenno i camerati. Era il caposquadraccia e sotto i capelli corti e la fronte sfuggente, gli occhi sottili sembravano cattivi.
- Chi comanda? Domandò rabbioso, poi mi poggiò sotto il mento il coltello che stringeva in pugno: è l’età la più antica gerarchia.
Il freddo della lama mi gelò ed a stento sentii le parole minacciose scivolarmi sul viso assieme all’alito condensato in vapore:
- Ora tu fai togliere uno a uno i manifesti che avete incollato sopra i nostri e poi ci fai vedere come strappate quelli che portate sottobraccio.
Alle mie spalle un’edicoletta votiva proiettava sul viso del capetto le ombre tremolanti d’un lumino di cera. Vacillai, ma il muro mi sostenne, quando, vincendo la repulsione viscerale che provo per il coltello, scostai lentamente con la mano la lama minacciosa e mi volsi ai miei compagni impauriti con una voce che non riconobbi:
- Andiamo, ha ragione: pareggiamo il conto. Togliamo i manifesti che coprono i loro e strappiamo uno dei nostri ogni volta che quello di sotto si è rovinato. I manifesti che ci restano- proseguii rivolto al capobranco – li portiamo con noi.
Mi sembrava che un altro avesse parlato per me. Un altro che non aveva la mia terribile paura.
Non obiettarono. Ci scortarono, mentre in tre scollavamo e strappavamo, poi, come se avessimo preso un accordo, giunti a piazza Cavour ci separammo. Non una parola. Né noi, né loro.
Quando sparirono nella notte, mi poggiai al muro e vomitai.
Pablo Picasso, “Natura morta“, 192; “Composizione con teschio“, 1908; “Clarinetto e violino“, 1913; “Coppia” (ceramica), 1963.
Mosaico di Ercolano: La morte di Archimede
Giuseppe Aragno
Uscito su “Fuoriregistro” il 5 gennaio 2004
Il mito della crescita ha portato a non tenere in debita considerazione le conseguenze che l’azione umana potrebbe avere sull’ecosistema
Che l’uomo depredi la natura a suo uso e consumo non è una novità. Il mito della crescita ha portato a non tenere in debita considerazione le conseguenze che l’azione umana potrebbe avere sull’ecosistema. Ma la crescita, si badi bene, non è soltanto un fenomeno deleterio sulla natura, bensì un processo che si serve della natura stessa. Ne è un esempio la biopirateria, nuova forma di colonizzazione che scippa alle popolazioni native del sud del mondo rimedi naturali, prodotti e processi biologici da secoli utilizzati e presenti in natura per sottoporli ai vincoli della proprietà intellettuale.
Succede che orde di scienziati, ricercatori, ma anche chi con la scienza non ha apparentemente nulla a che vedere come missionari ed ambasciatori, sono da tempo impegnati nel cercare, trovare e acquisire, in Asia, Africa ed America Latina - che con la foresta Amazzonica costituisce un territorio ricchissimo di biodiversità - ritrovati e segreti che appartengono alle popolazioni indigene. È così che le grosse multinazionali farmaceutiche riescono ad allargare il loro bacino di profitto equiparando, attraverso i brevetti, prodotti di sintesi creati materialmente in laboratorio con sostanze che invece si trovano liberamente in natura, che nessun uomo ha creato artificialmente e sulle quali, quindi, la politica dei brevetti finisce per essere illegale.
È successo così per lo Hoodia, un cactus che i Kung del Kalahari ed i San, Boscimani del Botswana, utilizzano per combattere i morsi della fame durante le battute di caccia. Nel gambo della cactacea, infatti, è conservato un principio attivo capace di dare un prolungato senso di sazietà. Nel 2000 il gene della pianta, ribattezzata P-57 dal Council for Scientific and Industrial Reserach, in Sudafrica, viene brevettata dalla Phytopharm, piccola azienda farmaceutica inglese la quale per 21 milioni di dollari da alla Pfizer la licenza esclusiva di utilizzo. In un mondo in sovrappeso la scoperta del cactus spezza-fame si trasforma in una vera e propria miniera d’oro.
Quello della biopirateria è un mercato estremamente redditizio che si aggira intorno ai 5000 milioni di dollari, terzo solo a quello delle armi e della droga
Lo stesso vale per la Vinca Rosea, pianta del Madagascar dalla quale la Eli Lilly & Co. di Indianapolis ha tratto due farmaci di successo la Vincrastina e la Vinblastina; oppure per la Pentadiplandra brazzeana, conosciuta come J’Oblie, una bacca africana di cui l’Università del Wisconsis ha brevettato una proteina per farne un dolcificante.
Non sono al sicuro neanche le bevande tradizionali da quando il Pozol, bevanda dei campesinos messicani ottenuta diluendo una pasta di mais fermentata in acqua è entrato nelle mire dell’industria olandese Quest International e dell’Università del Minnesota che insieme hanno brevettato un batterio della bevanda in grado, con la proprietà di impedire la decomposizione degli alimenti, di fungere la conservante naturale. Tra la Guinea ed il Brasile gli indios Waphisana utilizzano il Tapir, la noce dell’Ocotea Rodiati come contraccettivo, antiemorragico e disinfettante. Il Chimico britannico Conrad Gorinsky ha ottenuto dei brevetti per delle sostanze isolate dal Tapir; così come il trafficante di legname Robert Larson riuscì a brevettare il Nim, albero indiano che funge da pesticida naturale, e venderlo immediatamente all’Industria Wr Grace.
La biopirateria, però, non colpisce solo le piante. Celebre è il caso delle 750 rane della specie Epipedobates tricolore, trafugate nel 1998 in Ecuador dalla Abbot Latoratories di Chicago, per produrre la Epibatidina, un analgesico brevettato negli Usa molte volte più efficace e forte della morfina.
La biopirateria non colpisce solo le piante, ma anche gli animali
Quello della biopirateria è un mercato estremamente redditizio che si aggira intorno ai 5000 milioni di dollari, terzo solo a quello delle armi e della droga. Il valore commerciale dei prodotti farmaceutici elaborati grazie ai brevetti sulle piante è di circa 147 milioni di dollari, senza che alcun corrispettivo spetti alle comunità locali.
Laddove si è potuta ottenere qualche vittoria sui giganti farmaceutici si è trattato pur sempre di una vittoria effimera e temporanea. Il caso della Ayahuasca ecuadoriana è emblematico. Si tratta di una bevanda ottenuta bollendo una liana e foglie di arbusto. Loren Miller, proprietario della International Plant Medicine Corporation, industria farmaceutica nordamericana, brevettò la pianta, ma nel 1996, grazie all’azione del Coordinamento delle Organizzazioni Indigene della Conca Amazzonica improntò un ricorso contro Miller, vincendolo. Il brevetto fu ritirato, ma Miller nel 2001 riuscì ad ottenerlo nuovamente.
Vi è tuttavia un altro volto della biopirateria, plasmato dal cambiamento climatico e dal tentativo di costruire colture geneticamente modificate in grado di resistere a particolari stress ambientali.
Laddove si è potuta ottenere qualche vittoria sui giganti farmaceutici si è trattato pur sempre di una vittoria effimera e temporanea
È questa la nuova frontiera attraverso la quale le industrie biotech dimostrano di essere in grado di produrre i cosiddetti geni “climate-ready”, che permettono alle colture di sopportare siccità, alluvioni, salinizzazione del terreno, aumento delle temperature, ovvero tutte quelle conseguenze previste dal cambiamento climatico. Come al solito, però, la tecnologia che si vanta di essere innovativa e soprattutto indispensabile, arriva sempre in ritardo rispetto alla natura ed all’esperienza dei contadini poiché, osserva Vandana Shiva, “i tratti di resistenza al clima che i giganti della biotecnologia agricola hanno brevettato sono il risultato di evoluzioni secolari nelle tecniche agricole dei contadini”. La stessa Shiva con il gruppo da lei fondato, la banca di semi di “Navdanya”, ha riportato nel 2001 un importante successo sulla multinazionale Usa RiceTec la quale pretendeva la proprietà intellettuale sui tratti dei semi della varietà di riso basmati a chicco lungo di sua produzione. Dopo la dimostrazione che quella varietà di riso in realtà conteneva materiale genetico sviluppato dalle varietà degli agricoltori, alla Usa RiceTec fu respinta la richiesta del brevetto.
I vari imperi multinazionali che siano Monsanto, Dupont, Basf Bayer, Syngenta sono in prima linea nel brevettare i cosiddetti geni climatici per i quali hanno depositato 532 brevetti raggruppati in 55 famiglie, che non avranno come conseguenza - questo è l’allarme lanciato da Etc group - quella di aiutare i piccoli agricoltori a sostenere i rischi del cambiamento climatico, ma solo di concentrare il potere delle multinazionali, aumentare i costi, inibire linee di ricerca indipendenti e soprattutto mettere a rischio la libertà degli agricoltori di conservare e scambiare liberamente tra loro le sementi.
di Romina Arena
Una tratta di di esseri umani destinata ad aumentare per colpa della crisi economica. Dalla Cambogia e dalla Thailandia partono ogni anno migliaia di uomini e donne attratti da un posto di lavoro in Malesia. Per compiere questo viaggio pagano cifre che vanno dai 5mila ai 13mila dollari a chi propone loro un impiego all'estero.
La promessa di un lavoro domestico o in qualche fabbrica però si rivela presto una menzogna: a molti, non appena arrivati, viene confiscato il passaporto: da quel momento diventano fuorilegge e possono essere ridotti in schiavitù o avviati alla prostituzione.
La legge malese non fa differenza tra vittime del traffico di esseri umani e immigrati clandestini: fuggire dai propri aguzzini diventa dunque impossibile , perché il rischio è di finire nei campi di prigionia e magari essere nuovamente venduti ai trafficanti. Sul mercato degli esseri umani malese, infatti, un bambino vale circa 300 dollari, mentre un adulto quasi il doppio. Nel 2007 sono stati varati dei provvedimenti in alcune province che vietano ai lavoratori immigrati di lasciare il luogo di lavoro anche durante l'orario di riposo, proibiscono l'uso di cellulari e la guida di automezzi. Nello stesso anno è stata emanata anche una legge che punisce i trafficanti, ma gli osservatori internazionali sostengono che non serva a molto, visto che anche chi dovrebbe vigilare è coinvolto nella tratta. Nel luglio 2008 il Direttore generale per l'immigrazione malese e il suo vice sono stati arrestati per aver accettato tangenti dai trafficanti. Secondo fonti Onu la pratica sarebbe diffusa a tutti i livelli dell'amministrazione malese.
I migranti vengono adescati tra le popolazioni più povere dei sobborghi urbani di Phnom Phen e di altre città cambogiane, un bacino che, secondo l'Organizzazione Mondiale del Lavoro, è destinato ad aumentare di 200mila unità nel prossimo anno come effetto della crisi economica.
Questo trend è confermato anche dai dati forniti dal Ministero del Lavoro cambogiano che parla di un incremento del 150% degli espatri nei primi sei mesi del 2009.
L' agenzia dell'Onu per la tratta di esseri umani (Uniap) rivela in uno studio che le donne cambogiane si ritrovano spesso in schiavitù a causa dei debiti contratti. Nel Paese è presente una fitta rete di strozzinaggio, camuffata da micro-credito, gestita dagli stessi trafficanti di schiavi.
Tutti questi fattori sono catalizzati dalla crisi economica: in particolare il settore tessile ha risentito del calo delle esportazioni, causando dall'inizio dell'anno la perdita di oltre 40mila posti di lavoro.
In Malesia si trovano comunità di lavoratori immigrati provenienti da molte nazioni perché l'economia del Paese ha retto bene alla crisi. Nella maggioranza dei casi hanno un regolare permesso di lavoro, ma anche in questo caso le condizioni non migliorano poiché il visto viene sequestrato all'arrivo assieme al passaporto. Questa pratica è permessa dal governo Malese e nel rapporto “Trafficking in Persons” (Dipartimento di Stato Usa, giugno 2009), si rilevano numerosi legami tra l'amministrazione pubblica e la tratta di esseri umani.
Numerose testimonianze narrano di torture, stupri, somministrazione di droga, privazione del cibo e orari massacranti di lavoro che raggiungono le 18 ore giornaliere. I lavoratori vengono sfruttati fino allo sfinimento, come nel caso di Ganesh, un ragazzo birmano morto in ospedale il 27 di aprile, le cui foto hanno scioccato la popolazione malese.
Ad Haiti esistono oltre 300 000 "Restavek”. I Restaveks sono bambini di Haiti che vivono in una famiglia diversa dalla loro famiglia d'origine e spesso utilizzati come domestiche o come schiavi. Da famiglie povere nelle zone rurali, sono immessi dalle loro famiglie in famiglie urbane. La situazione economica delle famiglie ospitanti non è spesso molto diversa da quelle delle famiglie biologiche di questi bambini. Anche gli orfani spesso finiscono come Restaveks.
Miriam è una bambina di 7 anno che vive in Port-au-Prince ed è una restavek. Suo padre è morto 4 anni fa. La madre è andata al campo per organizzare il funerale e non è più ritornata. Oggi, Miriam vive con i suoi vicini, che hanno un figlio di 6 anni. Quando i suoi amici sono fuori a giocare, lei fa le pulizie, lava i piatti e va a fare la spesa. In cambio per il suo lavoro Miriam ha il diritto di dormire sul pavimento e mangiare i resti del pasto familiare.
Nel 2007 il tribunale di Washington ha condannato la Chiquita ad una multa di 25 milioni di dollari per aver pagato, negli anni compresi tra il 1997 al 2004, 1.700.000 dollari ai paramilitari dell’Autodefensas Unidas de Colombia (Auc), per difendere i propri interessi e stroncare le proteste dei bananeros che chiedevano condizioni di lavoro migliori. In America Latina, anche al di là della singola vicenda, quella delle multinazionali degli alimenti è una vera schiavizzazione degli operai.
"I lavoratori, quelli che Frantz Fanon chiamava i dannati della terra, i nuovi schiavi, quelli cui tocca portare la croce del progresso"
La legge punisce l’uomo o la donna che ruba l’oca dal parco, ma lascia a piede libero il reo che ruba il parco all’oca
Lo storico spesso si trova davanti ad un dilemma di difficile soluzione: dove sta la verità?
Gli studi e le analisi portano sempre a confrontarsi con scuole di pensiero che affondano le proprie convinzioni su argomentazioni che seguono un filo logico differente. A volte l’affiliazione dipende da presupposti ideologici, da convinzioni politiche profonde; altre volte da chi finanzia quella ricerca. Insomma, pur sforzandosi di risultare imparziali quasi sempre si intuisce fra le righe che da qualche parte si deve pur stare. Poveri quelli, come me, che cercano di assumere quei punti di vista considerati “dalla parte sbagliata”, ovvero gli argomenti dei poveri, di quelli che non fanno business. La carne da cannone, per intenderci.
Di questa carne da cannone la storia ne ha avuta tanta. Di questo sottile gioco del forte che schiaccia il debole, questa costante e spericolata corsa del topo per difendersi dalle grinfie del gatto la storia è zeppa, ma mentre di gatti i manuali abbondano, i topi restano mestamente rilegati sullo sfondo nell’attesa che l’occhio attento riesca a scrutarli e farli emergere.
Questa non vuole essere una riflessione farcita di filosofia spiccia, ma un modo per introdurre un’analisi su come le gigantografie del commercio mondiale, si abbattono inesorabilmente su quelli che rappresentano il motore stesso di quel carrozzone iniquo. I lavoratori, quelli che Frantz Fanon chiamava i dannati della terra, i nuovi schiavi, quelli cui tocca portare la croce del progresso. I topi, di cui sopra.
Quando i dannati della terra decidono di essere stati troppo tempo con la faccia nel fango e la sollevano per guardare in faccia chi tiene loro lo stivale sopra il collo, allora, kafkianamente, sono meno topi, si trasformano. Addirittura, diventano pericolosi perché pretendono i loro diritti.
Ma questi diritti, dannazione, sono d’intralcio agli interessi dell’azienda. Non si può. Costano troppo.
La Chiquita, dal 1997 al 2004, ha pagato 1.700.000 dollari ai paramilitari dell’AUC
Volendone dare volutamente un tono caricaturale, è questo quello che deve aver pensato la Chiquita quando dal 1997 al 2004 ha pagato 1.700.000 dollari ai paramilitari dell’Autodefensas Unidas de Colombia (Auc), gruppo di estrema destra guidato dal narcotrafficante e quant’altro Salvatore Mancuso, per difendere i propri interessi e stroncare le proteste dei bananeros che chiedevano condizioni di lavoro migliori.
Questo è un punto di vista.
L’azienda ci teneva, però, a fornire una versione diversa dei fatti. Attraverso il suo vice-presidente dell’Area Sud Europa, Paolo Prudenzati, il Brand ha spiegato di essere stato costretto a pagare i paramilitari per proteggere la vita stessa dei lavoratori e soprattutto garantire la sicurezza delle piantagioni in un momento in cui le rapine e gli omicidi erano frequenti e le autorità governative non erano in grado di assolvere quel compito.
È curioso, anzi, raccapricciante che si voglia proteggere la propria forza lavoro assoldando mercenari che la massacrano. C’è qualcosa che non torna.
Il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti, patria di provenienza della Multinazionale e per questo soggetta alle sue leggi, infatti, non ha accolto la debole giustificazione della Chiquita e nel 2007, condannandola al pagamento di 25 milioni di dollari per quelle infrazioni, ha affermato che “il finanziamento di organizzazioni terroristiche non può mai considerarsi come costi per business”, come Chiquita invece aveva cercato di fare passare quei pagamenti.
La farsa si è presto esaurita nel grottesco.
Per uscire meno infangata possibile da questa situazione, nel 2004 Chiquita ha venduto le proprie piantagioni colombiane, d’accordo con l’Unione globale dei lavoratori nel settore alimentare e delle banane, Iuf e Colsiba. I terreni sono stati acquistati da Banacol, non meno sporca della Chiquita, che ha garantito di non toccare i contratti collettivi. Queste condizioni di facciata, però, nascondono una realtà squallida e triste per coloro che in quelle piantagioni ci lavorano e, spesso e volentieri, ci muoiono.
Le condizioni di lavoro sono in aperta violazione tanto dei diritti dei lavoratori quanto dei diritti umani
La coordinatrice latinoamericana di Colsiba paragona le condizioni di lavoro nelle piantagioni a quelle di un campo di concentramento: le donne lavorano dalle 6:30 del mattino alle 7:00 di sera; buona parte della manodopera è sotto i 14 anni di età ed i lavoratori sono esposti alle conseguenze del Nemagón e del Fumazone, pericolosi pesticidi proibiti a livello internazionale già a partire dagli anni Settanta, che causano sterilità, cancri, malformazioni congenite nei bambini, oltre ad inquinare l’ambiente e corrompere gli stessi frutti su cui vengono usati.
Le condizioni di lavoro sono in aperta violazione tanto dei diritti dei lavoratori – scarsamente protetti dal punto di vista sindacale, soggetti ad ogni sorta di sopruso e sfruttati fino allo sfiancamento – quanto in senso più ampio dei diritti umani.
Non dovrebbe però sorprendere che la Chiquita non sia poi tanto 10 e lode.
La sua origine è infatti quella della tristemente nota United Fruit Company, entrata nel commercio delle banane agli inizi del Novecento. Negli anni Venti la compagnia deteneva in Honduras qualcosa come 263.000 ettari di terreno, ovvero un quarto della terra coltivabile del Paese e controllava strade e ferrovie, sgomitando a forza di collusioni e corruzioni con gli organi politici e militari honduregni.
Le sue attività extra commerciali le hanno valso il nome di “El pulpo”, per quella ramificazione tentacolare trasversale a tutti i settori della vita delle Repubbliche centro americane in cui il Brand ha le proprie attività.
Nel 1954 la Ufc appoggiò il golpe ordito dalla Cia ai danni del Presidente del Guatemala Jacobo Arbenz, reo di aver espropriato i terreni della multinazionale per darli ai contadini senza terra; nel 1961 prestò le proprie imbarcazioni agli esuli cubani spalleggiati dalla Cia per tentare di rovesciare Fidel Castro a Playa Girón.
Quella delle multinazionali degli alimenti, in America Latina, è una vera schiavizzazione degli operai. Abbiamo fatto l’esempio della Chiquita in Colombia, un fatto che risale ormai a tre anni fa, ma ugualmente potremmo riferirci ai bananeros nicaraguensi, ammalatisi a causa dei pesticidi disseminati nelle piantagioni bananiere dei dipartimenti occidentali nicaraguensi di Chinandega e Leon negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Più di 12.000 contadini accusano gli Stati Uniti e le sue multinazionali
Più di 12.000 contadini accusano gli Stati Uniti e le sue multinazionali di danni alla salute per averli esposti senza protezione alle esalazioni velenose dei pesticidi. Le domande di risarcimento presentate presso i tribunali Usa, ecuadoregni, colombiani, costaricani e nicaraguensi contro le multinazionali Dole e Del Monte e contro le industrie che producono i pesticidi proibiti, Shell Oil Company, Dow Chemical, Occidental Chemical, ammontano a più di 21.500 milioni di dollari.
Ma se la beffa spesso viaggia sulla canna del fucile, non disdegna tuttavia di aggirarsi anche tra i banchi dei Tribunali. Nell’aprile di quest’anno, infatti, il Giudice di Los Angeles Victoria G. Chaney, ha rifiutato di accogliere le richieste di risarcimento presentate, che fino ad allora erano invece state accolte, ed annullato un giudizio in corso sostenendo la falsità delle prove e dei documenti presentati dagli avvocati nicaraguensi.
Di più, ha avvertito che avrebbe aperto un’inchiesta per perseguire penalmente coloro i quali hanno presentato la richiesta di risarcimento, raccomandando agli altri tribunali che hanno a che fare con casi simili di astenersi dall’accettare come prove documenti, specialmente certificati medici emessi o sentenze, adducendo il rischio di una vera e propria manovra estorsiva in cui è coinvolto il corrotto sistema giudiziario nicaraguense.
Di storie come queste l’America Latina è piena, di soprusi come questi il mondo intero ne scoppia eppure il concetto di schiavitù sembra essersi dissolto col tempo e nel tempo. Guardare alla storia con occhi diversi, accettando di vedere il mondo da una prospettiva dal basso, ci fa capire come quel concetto non è mai caduto di moda e che i nuovi schiavi esistono: sono donne, bambini, uomini annichiliti, abbrutiti dalle violenze subite, scippati delle loro terre, spesso della loro dignità; i bambini della loro infanzia per una cosa, il progresso, faccia di Giano, che in occidente brilla e nel terzo mondo puzza.
di Romina Arena