mercoledì 29 febbraio 2012

LE MACERIE DI HAITI (2/5)

di Romina Vinci
Mi sveglio presto qui ad Haiti. Perché il tempo è scandito dalla luce del sole, e così, già alle sei del mattino, la mia stanza è illuminata a festa. Raggi inebrianti si accaniscono sul mio letto (non ci sono né persiane né tapparelle), riaccendendo in me la percezione di caldo asfissiante e di arsura che la notte – apparentemente - cela nelle sue tenebre.
clip_image002Sono in piedi già da svariate ore, chiusa in camera nella mia postazione web tutta intenta ad inviare mail proponendo reportage vari ed eventuali quando, ad un certo punto, mi sento chiamare. Stacco gli occhi dal pc, guardo dinanzi a me, oltre la finestra, oltre il terrazzo, e vedo comparire Daphney, tutta pimpante, percorrere la strada perpendicolare alla Delmas principale e che termina proprio all’angolo della sede dell’AUMOHD. E’ venuta a prendermi, e mi ha portato una baguette e un succo di frutta. Quando mangiare diventa un lusso, e da queste parti lo è, non ci si formalizza affatto sui capisaldi di una corretta alimentazione. Ed allora altro che cornetto e cappuccino, anche un panino imbottito di cipolla, e di pomodori lavati con chissà quale acqua, diventa il pasto più buono del mondo alle dieci del mattino, e a stomaco vuoto.
E’ stata carina Daphney anche se, ripensandoci, ieri le avevo dato 50 dollari da cambiare, e non mi è tornato in tasca neanche un gourdes. Insomma, l’ha pagato con i miei soldi, ma il pensiero è sempre ben apprezzato. Si è fatta accompagnare dal parrucchiere, perché domani è il suo compleanno e vuole farsi la tinta rossa. Credo che abbia pagato ancora con i miei soldi, ed oltretutto non le sono bastati, e infatti mi ha richiesto altri cinque dollari americani.
Soldi a parte è un’altra la nota dolente che mi affligge: il mio piede destro. Credo che si sia insaccato, perché mi fa tanto male, fatico a poggiarlo a terra, e camminare è una tortura, un’autentica sofferenza, passo dopo passo. Non ho svelato a nessuno in Italia questo pasticcio che ho combinato, rischierei di farli preoccupare oltremodo. L’unico con cui mi sono sfogata è stato Fabrizio, il mio tutorial/cicerone a distanza i cui consigli, nel corso di questi giorni, si sarebbero rivelati più importanti di un kit di sopravvivenza. Fabrizio vive in Messico da dieci anni, anche lui si sloga spesso la caviglia e, a suo dire, non è grave, nel giro di due-tre giorni passerà tutto. Lo spero tanto.

COIFFEUSE
La parrucchiera si trova quasi all’ingresso della bidonville di Delmas, poco distante dalla sede AUMOHD, ci siamo arrivate a piedi, con mio sommo piacere. Il suo negozio è un piccolo cubo di cemento pieno di crepe, posto leggermente al di sotto del livello della strada. C’è un lavabo all’angolino sulla sinistra, a fianco due caschi arrugginiti per la permanente, e davanti uno specchio che in orizzontale occupa la maggior parte della parete, ma è stretto in altezza. A completare l’arredamento qualche mensola e tre sedie. Al lato destro invece c’è un box di legno con dei cuscini adibito a panchina, dove sono seduta io ora. La parrucchiera è una ragazza della nostra stessa età, ha i capelli raccolti con un mollettone di plastica rosso e dei grandi orecchini a cerchio traforati che le incorniciano il viso. Manca acqua corrente in tutto Delmas, ed anche la sua attività non smentisce la regola. C’è un bidone al fianco del lavabo, dal quale lei prende acqua con una bacinella, per fare lo shampoo. Nel momento in cui sto scrivendo c’è un ragazzo sull’uscio. T-shirt bianca, calzoncini grigi con cavallo calato, è a piedi nudi. Lo osservo con la coda dell’occhio e vedo che anche lui mi sta guardando, chissà cosa pensa, forse si chiede come io possa esser finita lì dentro. Mi porgo la stessa domanda.

L’ATTO DEL BERE
Ad un certo punto la parrucchiera si allontana dal negozio, per rientrare poco dopo con due bustine d’acqua, una per me, l’altra per lei. Finalmente, al terzo giorno, sono riuscita a prendere in mano quest’acqua “impacchettata” che è tanto in voga qui. Ma è sorto immediatamente il problema, come si usa? Daphney era sotto il casco della permanente e parlava al cellulare con il suo fidanzato, non badava affatto a me. Così ho cercato la complicità della parrucchiera, la quale, appena capito il mio problema, è scoppiata in una bella risata. Mi ha mimato il gesto di rompere l’angolino della busta con i denti, per creare un foro. L’ho fatto, ed ho iniziato a “ciucciare” l’acqua. In teoria è sigillata, quindi no problem, è sicura ed è potabile da questo punto di vista. Ma come la mettiamo con il contatto della bocca con l’esterno della bustina? Meglio non pensare al numero di mani che l’avranno toccata prima di arrivare a me… insomma, per l’ennesima volta l’igiene è andata a farsi friggere.
Seduta dalla mia postazione osservo l’andirivieni di persone fuori in strada, voglio provare a carpire come si sviluppi la vita da queste parti e così, per un po’, mi allontano dal negozio per fare delle foto. Daphney continua la sua conversazione telefonica, così io mi rivolgo alla parrucchiera mimandole l’atto di camminare, le indico la macchinetta che avevo al collo ed esco senza aspettare un suo gesto. E’ la prima volta che vado in giro completamente sola. Al termine di un cunicolo stretto stretto trovo una signora intenta ad allattare la sua bimba, cerca di avvicinarmi chiedendomi qualcosa. Io all’inizio mi impegno con quei pochi mezzi di francese che ho a disposizione per venire a capo della conversazione, ma capisco subito che non è per niente difficile, perché non esistono barriere linguistiche quando si conosce soltanto il linguaggio dei soldi e così, tempo cinque minuti, la saluto dicendole che non ho nulla. Una cosa è certa: ad Haiti, da sola, non vado da nessuna parte purtroppo. Parlando una lingua diversa, e senza l’apporto di un interprete, non sarei mai riuscita ad abbattere il muro di distanza che si innalza tra me bianca (e “ricca”) e loro neri (e “poveri”) .
Maturando questa amara constatazione torno al punto di partenza. Mi fermo un po’ sulla porta a scrutare ciò che mi circonda quando arriva un ragazzo che - magicamente - parla abbastanza bene inglese. Così iniziamo a conversare. Ha due figli piccoli e sta aspettando che escano da scuola. Non ho ben capito però quale sia il suo lavoro, perché va subito al sodo: mi chiede se ho abbastanza soldi per pagargli il biglietto aereo, sarebbe venuto in Italia con me, lasciando qui figli e moglie… cosa non si fa per amore!
E’ l’una passata quando la parrucchiera termina anche la messa in piega, e così facciamo rientro alla sede di AUMOHD. Per strada Daphney cammina tutta impettita, credo che si senta ammirata da tutti per il suo nuovo look. Io invece, da parte mia, continuo a contare i passi, visto che il dolore al piede non accenna a diminuire.

LA DIVINA PROVVIDENZA
Camminare per Port au Prince, e non solo per la bidonville, significa camminare tra le macerie, tra palazzi crollati e altri che stanno crollando. Sono questi ultimi a destare in me forte preoccupazione. Perché quando cammini, e hai la sfortuna di incrociare una macchina o una moto, hai meno di un secondo per scegliere: rimanere nella tua posizione e farti investire da loro, visto che non sono intenzionati a deviare il loro cammino, e quindi morire di una morte certa. Oppure spostarti, proprio sotto quei palazzi diroccati e fatiscenti, confidando che il buon Dio che non faccia arrivare una nuova scossa in quel momento. E quindi avere almeno l’incertezza della morte. Io prediligo questa seconda strada, anche perché non credo di aver tanta scelta!
Rimaniamo un’oretta in camera ed io approfitto di uno sgabello per tenere il piede all’insù: la caviglia sta assumendo una colorazione violacea che non mi rassicura affatto. Poi usciamo di nuovo, direzione market (non posso continuare a fare lo sciopero della fame e della sete, oltre all’apparente esilio volontario). A piedi raggiungiamo la rue Delmas e prendiamo il fantastico TapTap. I TapTap sono dei graziosi furgoncini, scassati e colorati, adibiti a trasporto pubblico. Li fermi, ti fanno salire, e quando sei arrivato a destinazione basta bussare energicamente con le nocche delle mani sulla lamiera che li riveste per prenotare la fermata, facendo appunto “Tap Tap”. Salire su questi camioncini però è un’impresa, lo sanno bene le corna che non ho, ma che ho sbattuto costantemente sui ferri di metallo quando sono salita, quando sono scesa, quando sono risalita, e quando sono riscesa. Insomma, è vero che sono un po’ tarda a capire, ma qui non c’è una cosa, e dico una, dotata di un minimo confort.

DAPHNEY
Stare con Daphney è strano, perché non riusciamo a parlare , eppure sta sempre con me. Il punto però è che con i soldi se ne sta approfittando, e forse anche troppo. E’ vero infatti che ieri mi ha portato a pranzo a casa sua, però è anche vero che io le ho fatto cambiare 50 dollari, e non li ho visti. Idem per i 50 dollari che le ho tirato fuori il primo giorno. Superfluo precisare che al club ha pagato lei per tutti, con i miei soldi ovviamente. Prima, mentre parlavo su Skype con i miei, lei aveva aperto l’armadio dove ho poggiato la valigia e lo zaino, non voglio dire che avesse intenzione di frugare, anche perché l’ho fermata in tempo, rimproverandola. Poi siamo andati a cambiare di nuovo il denaro, prima di fare la spesa, e questa volta le ho fatto credere di avere solo banconote da un dollaro, e a quanto pare sono bastate, persino avanzate, per le mie compere. Cosa significa? Che devo darmi una regolata, anche perché se continuo così questi mi spennano, e sono solo tre giorni che sono qui.

THE STORM
Facciamo appena in tempo a rientrare a casa che si scatena una violenta tempesta, ed il cielo così offuscato amplifica l’idea di degrado che percepisco in ogni dove e in ogni quando. Verso le 17.30 decidiamo di spostarci a casa di Daphney, e per farlo lei chiama il nostro driver “di fiducia”, quello che con la sua moto ormai ci scarrozza dappertutto, e che si sta arricchendo alle nostre - pardon mie - spalle. Questo giochetto infatti è abbastanza remunerativo per il fortunato centauro: 20 dollari haitiani a tratta.
Piove a dirotto, e ad ogni curva temevo di finire a terra, di piombare sul fango mettendo ko anche l’altra gamba. Invece fila tutto liscio. Sta già calando la sera quando arriviamo a destinazione. Le sorelle di Daphney ci accolgono senza troppa enfasi, sono sedute sul letto a vedere la televisione, e ci aggiungiamo anche noi. Credo che anche la tv sia un bene di consumo non accessibile a tutti, l’ho intuito dal fatto che più di qualcuno è entrato e, per un po’, si è inserito all’interno di questo quadretto familiare così estraniante dal mio punto di vista. C’è un momento addirittura in cui siamo in nove seduti su quel lettone, tra bambini, mamme e non meglio dichiarate terze presenze.

CHUCK NORRIS
La piccola televisioncina è l’unica fonte di luce nella stanza (visto che non esistono lampadine) e trasmette le avventure di Chuck Norris, in francese. Non posso fare a meno di pensare alla vita che queste persone conducono e mi trovo a giudicare il loro non fare niente, biasimando quell’apatia che li contraddistingue, quel fermarsi ed osservare il tempo che scorre, senza intervenire, senza dire la propria, senza alcuna volontà di riscatto. Come fanno ragazze di venti-venticinque anni, a non aver una occupazione? A passare la maggior parte del proprio tempo chiuse in una stanzetta di quattro metri quadrati, senza luce, alternando il dormire alla tv? I bambini non smettono neanche per un secondo di girarmi intorno chiedendomi soldi, io scuoto la testa decisa, a volte anche infastidita, eppure le mamme non fanno nulla per richiamarli anzi, è come se ne avvalorino le richieste. Non è con l’elemosina che si va avanti, e non sarebbero stati i miei due tre dollari a cambiare le loro vite.
Tutto il contesto che si è venuto a creare mi fa sentire abbastanza a disagio, anche perché non riesco a capire nulla dei loro discorsi. Dopo un po’ arriva Jhonny, e finalmente mi tranquillizzo un po’, quanto meno ho un interlocutore con cui scambiare due parole. Jhonny mi racconta alcuni aneddoti del suo lavoro nel fastfood, di come a volte faccia turni anche di dodici ore per una paga misera che sovente tarda ad arrivare. Parliamo di Michel Martelly, il nuovo presidente chiamato a sollevare le sorti di Haiti ma su cui lui, a differenza di molti suoi amici, non nutre tante speranze. E poi fa leva sulla sua fede, una fede pura, basata sulla lettura delle Sacre Scritture, di quella Holy Bible che in molti nel mio paese – io per prima – non hanno mai letto in versione integrale. Nel frattempo intorno a noi si è creato molto movimento, la stanza è un andirivieni di persone, e io non riesco a capire il fine ultimo di quel girovagare.

BLACK OUT
Tutto d’un tratto sento un forte tuono, la tv si spegne di colpo e così anche la poca luce che emanava si dissolve. L’oscurità ci sommerge. Il buio del buio fa paura. Razionalmente la situazione è terrificante, io tengo le mani ben salde sulla borsa, con la destra cerco di aprire la cerniera per prendere la mia torcia tascabile, la sinistra invece la muovo in su e in giù, quasi a fare da scudo ai movimenti dell’altra. Jhonny continua a dirmi di stare tranquilla, e che per loro è normale non vedere niente a un palmo di distanza. Io provo a mascherare la mia inquietudine, ma temo di non esserci riuscita.
Lui mi chiede il numero di Evel, lo chiama spiegandogli la situazione e gli chiede se può venirmi a prendere. In meno di dieci minuti Evel arriva, Jhonny mi prende la mano e mi guida nel buio, attraversando la stanza per trovare l’uscita e raggiungere la strada. Nelle tenebre i fari accesi del pick up di Evel sembrano gli occhi di un gatto nero che ti folgora al suo passaggio. Saluto Jhonny in tutta fretta, senza neanche ringraziarlo. Per salire nell’auto tento di usare la gamba sinistra, con tutte e due le mani afferro la maniglia posta sopra lo sportello per darmi la spinta con le braccia e far forza fino ad arrivare all’alto sedile, ma qualcosa va storto perché sento un dolore acuto provenire dalla gamba malconcia. Oltretutto capisco di aver messo il piede dolorante dentro una pozzanghera che deve essere profonda perché subito sento il calzino bagnato.

IL POLLO MANCATO
Oggi la giornata ha preso una piega diversa dalle precedenti. Questa mattina ho chiesto a Evel di intervistarlo. Volevo anche vedere questo fantomatico “quartiere dei ricchi” di cui più di qualcuno mi ha parlato. Lui mi ha dato la sua piena disponibilità, l’intervista a mezzogiorno, e poi mi avrebbe portato in giro. Subito chiamo Daphney, le faccio gli auguri (oggi è il suo compleanno), e le dico che ci saremo viste direttamente nel pomeriggio, perché la mattina avevo da lavorare con Evel. Forse lei non capisce, o fa finta di farlo, fatto sta che dopo un po’ si presenta nella mia stanza, dicendo che dovevamo andare al supermercato a comprarle il regalo. La sera prima, mentre eravamo sedute tutte sul letto di casa sua e la tv trasmetteva Chuck Norris, ha iniziato a dire che si aspettava da me un bel regalo, e che voleva un chicken, il pollo.
A me è sembrato un po’ strano lì per lì, l’ho chiesto anche a Jhonny cosa significasse, perché se si trattava di comprare un qualcosa da condividere con il resto della famiglia beh…mai regalo sarebbe più indovinato. Jhonny però tergiversava sulla cosa, e si limitava soltanto a dirmi che il “chicken” è molto grande. Che volesse fare una festa per sfamare tutto il quartiere a spese mie? Tuttora continuo a non avere idea. Perché camminando per strada mi è capitato in più di qualche occasione di vedere persone che portavano per le zampe galline a testa all’ingiù, ma non credo che un bipede di quella dimensione possa costare un occhio della testa!
Daphney invece sostiene che ci vogliano almeno 50 dollari per comprare il suo regalo. Mi fa vedere la lunghezza con le mani, altro che gallina, sembra una porchetta intera. Le faccio presente che ne ho soltanto 20 di dollari e devono bastarmi fino a domenica. Lei allora ridimensiona la dose, mi dice di dargliene 10 e sarebbe andata a fare la spesa da sola, ma io a quel punto mi rifiuto. Non mi piace questa gara al ribasso, le avrei comprato qualcosa da sola, magari facendomi consigliare da Evel. Se ne va via a testa bassa, triste, c’è rimasta molto male. Forse sono stata crudele, però non mi fanno impietosire queste persone, perché non si vive nella perenne elemosina. Non c’è futuro.

ALLA SCOPERTA DI PORT AU PRINCE
Evel è schierato in prima fila per combattere questa forma mentis acerba che chiude la sua gente nel vicolo cieco della sussistenza. E’ molto in gamba lui, ho capito però che ha una concezione del tempo tutta sua. Il nostro appuntamento infatti si è posticipato alle 15. L’intervista è durata tre quarti d’ora abbondanti, 45 minuti in cui ho fatto domande e ricevuto risposte esclusivamente in inglese: bene bene. Dopo mi ha chiesto se volevo andare con lui e Gaelle, la sua segretaria, al quartiere di Petionville. “E’ un giro breve”, mi assicura. Talmente breve che è durato cinque ore.
Abbiamo girato Port au Prince il lungo e il largo. Dove non è passato il terremoto è rimasta un’estrema povertà sub-esistente. Tante troppe baracche, tante troppe macerie, tanto troppo degrado. Mi portano in downtown (il centro della città che se non altro può vantare di avere la maggior parte delle strade asfaltate), a vedere quel che un tempo era il palazzo presidenziale, progettato su modello dell’Eliseo, e che è crollato su se stesso il pomeriggio del 12 gennaio 2010. Poi l’asfalto torna a lasciare il passo al terriccio, alle buche, ai sassi. Facciamo una breve sosta in AUMOHD, poi di nuovo in strada, per accompagnare a casa due vecchietti. Condotti a destinazione prima l’uno e poi l’altro, ci fermiamo dinanzi ad una banca e sale una ragazza. Ho capito soltanto successivamente che si tratta di un’impiegata sprovvista di macchina e ogni giorno chiede a qualcuno di accompagnarla a casa.
Abita nella municipalità di Peguyville, non il quartiere ricco a cui io faccio riferimento, ma in ogni caso benestante, già solo perché ci sono le case. Il problema è che, essendo un posto “agiato”, tutti hanno le macchine e quindi ci abbiamo messo quasi due ore, intrappolati nel traffico, per fare pochi chilometri. Ripeto e ribadisco che attraversare questi posti di notte è assurdo, la gente si riversa per strada, le strade pullulano di persone che non si vedono, perché nero su nero si mimetizza, gli incidenti si sfiorano ad ogni passo d’uomo, perché quando attraversano la strada i pedoni si vedono – e si cercano di evitare - soltanto all’ultimo momento.

UN: UNIT NULLE
Se c’è una cosa che mi ha lasciato riflettere più di tutti però è il forte risentimento che Evel nutre per la MINUSTAH, la missione dei caschi blu dell’Onu iniziata nel 2004 e che tanto ha fatto parlare di sé per violazioni e abusi sulla popolazione locale, ritenuta persino responsabile del propagarsi dell’epidemia di colera che ha devastato Haiti nell’ottobre 2010. Già nel corso dell’intervista Evel non aveva celato le sue titubanze ed anche lo sdegno nei confronti dei soldati. Poi per strada ci siamo imbattuti in un mezzo del Brasile, ed è stata la fine. Perché la camionetta pretendeva che gli si facesse spazio per raggiungere l’altra carreggiata della strada. Evel ha iniziato ad inveire e a scalpitare urlando: “Che cosa volete? Che cosa fate? Qual è il vostro scopo?”. Io comprendevo la sua ira, quel che lui non capiva però è che non ha senso prendersela con quei cinque ragazzi, non erano certo loro ad aver scelto di venire qui.
Per un attimo però ho avuto paura, perché quei militari erano armati con arma lunga, la lotta era impari, ma non si sa mai. Anche l’impiegata di banca seduta al sedile posteriore confermava le parole di Evel, dicendo che i caschi blu vengono ad Haiti soltanto per prendere soldi e andare in giro con macchine lussuose, ma che in concreto non fanno nulla per aiutare la popolazione. UN significa Unit Nulle mi ha detto Evel, sostenendo che gli haitiani li hanno soprannominati così. Insomma, una missione di pace che genera solo scontento: cambiano i posti, cambiano gli scenari e cambiano gli angoli disperati del mondo, ma il claim resta sempre lo stesso. They do nothing.

ALLARME FUNESTO
Si sono fatte le 21 intanto quando stiamo per tornare alla sede dell’AUMOHD, Evel mi chiede se voglio andare a casa di Daphney, ma dico di no. E’ tardi, avrei costretto anche lui ad aspettarmi, e poi per far cosa? Ho provato a chiamarla più volte nel pomeriggio, ma non mi ha risposto.
Così Evel mi riaccompagna a casa, mi saluta, ci diamo appuntamento all’indomani e poi va via. Alle 22.30 succede quel che non mi aspetto. La connessione internet si interrompe, ed inizia a suonare un allarme. Un misto tra incredulità, tensione e terrore mi assale. E se fosse entrato qualcuno? Se qualcuno stia frugando giù nello studio di Evel? Cosa faccio io? Sale in me la paura, il cellulare è scarico non posso chiedere aiuto. Per non saper né leggere né scrivere mi chiudo a chiave in camera. La finestra è aperta, ma le grate di ferro sono chiuse, dovrei essere protetta. Ma cosa faccio? In teoria se si tratta di un allarme Evel dovrebbe essere avvisato via cellulare, altrimenti che allarme è, suona e basta? Certo che i connotati per un film dell’orrore ci sono tutti: io sola, in un posto dimenticato da Dio, senza punti di riferimento, senza telefono e senza via d’uscita. La ragione mi invita ad allontanare tutti questi pensieri apocalittici: potrebbe semplicemente essere saltata la corrente. Ma in questi casi cosa si fa? Dovrei prendere la torcia, scendere giù e raggiungere l’impianto della corrente posizionato sotto le scale, cercare l’interruttore e vedere se è tutto apposto o meno. Troppo difficile. Anche perché Evel mi aveva detto che questo posto è sicuro, e che di notte c’è la vigilanza. Ora mi chiedo: dove sono i vigilantes? No, ho deciso, rimango chiusa in camera, non esco neanche per andare in bagno. Cercherò di addormentarmi con questo rumore, non fa niente, in fondo basta farci l’orecchio.
Fonte

martedì 28 febbraio 2012

BRASILE: L'INFERNO DI CERTI SISTEMI CARCERARI SUD-AMERICANI

Il forum online Latin Americanist  fa un sunto degli ultimi eventi che hanno portato alla cronaca certi sistemi penitenziari in America Latina: l'incendio che ha causato la morte di centinaia di detenuti in Honduras, le rivolte in Messico e le fughe di detenuti in Perù. Avvenimenti che si spera stiano spingendo altri Paesi a riesaminare la loro situazione carceraria, ma resta da vedere se seguiranno poi delle riforme efficaci — o solo altre tragedie.
Uno dei post del forum, intitolato Chronicle of a Tragedy Foretold, include il video (in portoghese con sottotitoli in inglese) che segue e che denuncia le problematiche del sistema penitenziario brasiliano, primo fra tutti il sovraffollamento.



Il filmato è tratto dal documentario Under the Brazilian Sun, diretto e prodotto da Adele Reeves e Leandro Vilaca, che analizza il sistema carcerario brasiliano da tutti i punti di vista, attraverso interviste a detenuti ed ex-detenuti, ai loro familiari, a guardie carcerarie e poliziotti, a direttori di penitenziari e attivisti in difesa dei diritti umani, e altri ancora. Di seguito un estratto dalla descrizione che accompagna il trailer del documentario:
"Questo film è da non perdere, non solo per la sua dura e schietta rappresentazione del sistema penitenziario brasiliano, ma anche perché ne fa un'analisi approfondita delle problematiche e delle loro cause, e di quello che si può fare per migliorarne le condizioni."
E il trailer stesso:
L'intero documentario è disponibile su YouTube. Qui di seguito eccone la prima parte:


scritto da Juliana Rincón Parra · tradotto da Katia Coletto
Fonte

lunedì 27 febbraio 2012

LE MACERIE DI HAITI (1/5)

di Romina Vinci
[Presento qui la prima di cinque puntate di un racconto che è un diario di viaggio ma anche un reportage dal centro della rovina, dalle macerie e dalla miseria di Haiti. Storie di vita s'intrecciano a Porto Principe, la capitale del paese caraibico sconvolta il 12 gennaio 2010 dalla più grande catastrofe naturale della storia: un terremoto che ha fatto oltre 250mila vittime, un milione e mezzo di senza tetto e sfollati e che ha evidenziato tutti i limiti della cooperazione e della presenza internazionale in un paese considerato da Stati Uniti, Canada e Francia come una colonia.


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Nell'ottobre del 2010 arrivò anche la piaga del colera, probabilmente importata dalle truppe nepalesi dei caschi blu dell'Onu appartenenti alla controversa missione Minustah, per cui ad oggi si contano 500mila contagi e 7000 morti. Questo collage quotidiano, scandito come un diario da una giornalista free lance alla scoperta di Haiti, è un affresco della frammentata società haitiana che racconta la vita e i piccoli miracoli della sopravvivenza di un popolo orgoglioso ma ambiguo, sfruttato ma a volte compiacente. L'autrice del diario, Romina Vinci, è una giornalista. All'inizio del 2011 ha partecipato al progetto che ha dato vita al libro "Polvere di sogni" su migrazione, storie di vita e intercultura ed è stata a PAP, Port-au-Prince, nel settembre e ottobre del 2011. Fabrizio Lorusso]
Aeroporto Internazionale di Miami, 27 Settembre 2011 di buon mattino. Che fosse proprio il D25 il gate che stavo cercando l’ho capito subito, senza bisogno di leggere la Boarding Pass. Nella sala d’attesa tutte le sedie erano occupate da gente di colore: nera, non mulatta. Le white people si contavano sulle dita di una mano. Bisognava ricorrere anche al pollice della seconda, ma solo per inserire anche me. Uomini e donne in egual misura, pochi giovani, tanti adulti. Le ladies avvolte in abiti colorati, molte non rinunciavano a esuberanti cappelli di paglia. Abbigliamento più formale per gli uomini, alcuni erano in polo e jeans, ma la maggior parte indossava camicia e completo scuro. Direzione uguale per tutti: Port au Prince.
L’ARRIVO
L’impatto con l’aeroporto della capitale haitiana è stato surreale. Chissà, forse perché mi aspettavo di raggiungere i nastri per recuperare la mia valigia, ed invece c’era un’unica sala, dove confluivano i passeggeri provenienti da ogni dove, per la stragrande maggioranza occupata da bagagli ammassati a terra. Giusto il tempo di afferrare il mio trolley al volo che eccomi circondata da uomini che facevano a gara per catturare la mia attenzione. Alcuni tenevano tra le mani un foglio bianco con su scritto un nome, speravo di leggere il mio, ma così non è stato. “Somebody waits you” mi dice uno che mi prende a braccetto invitandomi a camminare. Io mi svincolo alla meno peggio, chi è somebody? Sapevo che non era vero. Poi mi ha affiancato un altro, si chiamava Joseph, mi ha fatto vedere il suo tesserino e neanche il tempo di reagire che già si era impossessato del mio trolley.
Ha cercato di tranquillizzarmi, mi avrebbe condotto fino al termine del corridoio dove c’era l’uscita. Ha iniziato a parlarmi della sua famiglia, di quanto fosse difficile la vita ad Haiti, e dei suoi due figli a cui lui – me l’ha detto con orgoglio – fa frequentare la scuola. Solo i giorni successivi, ripensando a quella fugace chiacchierata, avrei capito il perché di tanta fierezza. Giunti all’uscita, di Evel non c’era traccia, Joseph me lo ha fatto chiamare con il suo cellulare, e ha aspettato con me che arrivasse. Joseph voleva venti dollari per avermi “intrattenuto” cinque minuti. Gliene ho dati quattro e lui se ne è andato imprecando. Prima regola da imparare: ad Haiti nessuno fa niente per niente. Al suo arrivo Evel, vestito di tutto punto con giacca e cravatta, mi ha salutato velocemente, ha caricato la valigia nel portabagagli del suo pick up e mi ha fatto salire.

EVEL FANFAN
Era la prima volta che incontravo Evel Fanfan, presidente dell’associazione AUMOHD. Ci eravamo scambiati al massimo tre mail nei giorni precedenti alla mia partenza, e solo una volta avevamo parlato al telefono, in un mix tra francese, inglese, spagnolo e italiano che lasciava piena libertà alla vasta gamma dei fraintendimenti. Ha esordito dicendomi che non è sicuro per una ragazza arrivare sola ad Haiti, e non scommetterebbe nemmeno sull’affidabilità dei taxi che pullulano fuori l’aeroporto, è per questo che mi è venuto a prendere.
Saliti in macchina è iniziato il viaggio nel viaggio. Crudo, reale, malvagio. A destra e sinistra tende e accampamenti di fortuna, l’immondizia padrona incontrastata delle strade. C’era chi camminava con dei grossi sacchi in testa, tenendoli perfettamente in equilibrio. Ho chiesto a Evel cosa contenessero, e lui mi ha risposto: “Cold water”. Sono rimasta a bocca aperta. Poi ho visti altri ragazzi che tenevano in mano delle bustine colme d’acqua, come quelle che noi usiamo per congelare. Evel mi ha detto che si mettono per strada e la vendono, in questo modo riescono a guadagnare abbastanza bene, “perché tutti hanno sete”.
Mi è rimasta impressa la musica, che si sentiva indistintamente in ogni strada, ed era difficile rintracciarne la fonte. Evel mi ha detto che anche lui ha un furgone che è una sorta di radio itinerante con cui va in giro nei quartieri per alfabetizzare le persone, è la maniera più facile per diffondere idee e notizie. La sua AUMOHD è un’associazione formata da giovani avvocati che difendono i diritti dei lavoratori haitiani, e rappresenta un unicum in questo paese.
Eravamo fermi ad un semaforo quando un bambino si è avvicinato per chiedere l’elemosina. Evel ha azionato la sicura della macchina, e muoveva la testa in orizzontale con fermezza in segno di disapprovazione. Il bambino aveva il volto spiaccicato sul suo finestrino, e lo fissava con due occhioni che avrebbero intenerito un orso. Così Evel ha tirato giù il vetro e ha iniziato ad inveire contro il piccolo, credo parlasse in creolo, ed io sono riuscita a distinguere soltanto la parola “Ecole”. Quando siamo ripartiti mi ha detto che questi bambini si rifiutano di andare a scuola perché preferiscono vivere di elemosina. Un forte sdegno traspariva dal suo sguardo.

AUMOHD
Finalmente giungiamo a destinazione, nella sede dell’AUMOHD, avrebbe rappresentato il mio rifugio nei primi cinque giorni di “haitiana permanenza”. Una casa a due piani, in quello di sotto c’è una sala con delle postazioni internet: Evel le mette a disposizione gratuitamente per la gente del quartiere. La mia stanza invece era al piano di sopra, e si affacciava su un gran terrazzo le cui grate però erano ben serrate (solo il terzo giorno troverò le chiavi per aprirle). C’era un armadio rotto che occupava mezza parete, un piccolo tavolino rotondo, una sedia ed un doppio materasso a terra. Evel mi ha aiutato a fissare la zanzariera sopra il letto, e mi ha spiegato che di notte sarei rimasta sola, perché tutti loro vanno via. Non dovevo però aver paura, mi ha detto che era una zona molto sicura. Poi mi ha fatto vedere il bagno, proprio di fronte la porta della mia stanza, indicandomi un secchio posto al lato della vasca: non c’era acqua corrente, avrei dovuto attingere da lì per lavarmi.
Mi ha spiegato inoltre che la corrente era limitata, e per questo dovevo scegliere, di notte, se mantenere acceso il router per internet oppure la luce nella stanza. Non c’è stata gara: potevo stare al buio, di notte, da sola, ma non toglietemi il web.
Sono entrata in contatto con Evel e la sua associazione grazie a Fabrizio, un ragazzo che da dieci anni vive in Messico, e che ha trascorso un mese ad Haiti, subito dopo il terremoto del 12 Gennaio 2010, tra macerie e tendopoli. Per aiutarmi Fabrizio mi ha messo in contatto di una sua amica che vive nella bidonville di Delmas. L’ha chiamata dicendole che ero appena arrivata a Port au Prince e che, tramite me, lui voleva darle 50 dollari, per farle fare il passaporto, andato perso due anni fa durante il sisma. Dopo una mezzoretta lei è venuta a prendermi.
Si chiama Daphney, ha 27 anni ed un bambino di 5. E’ veramente bella. Era in compagnia di una sua amica e mi hanno portato a mangiare la pizza. Ne abbiamo presa una grossa per tutte. Io ho mangiato tre pezzi, loro uno a testa. Poi abbiamo salutato la sua amica, e Daphney mi ha detto che mi avrebbe portato a vedere casa sua, nella bidonville. Arrivate all’ingresso del campo di Delmas l’ho vista contrattare con un tizio in moto, ma pensavo che fosse un suo amico, e stessero parlando. A un certo punto mi dice: “Sali”. Io rimango un po’ perplessa, ma lei incalza così io monto sulla moto e lei dietro di me.

BIDONVILLE DI DELMAS
E’ in questo modo che ho fatto il mio ingresso nella bidonville di Delmas, su una moto in tre, per sentieri che a confronto la Paris Dakar sembra un tappeto di velluto. Perché qui i taxi non ci sono, e si “affittano” le moto per spostarsi. Sarò stata lì sopra un quarto d’ora, forse anche più. In quei momenti ero completamente estraniata, dallo scenario che mi accoglieva e rigettava allo stesso tempo, e da questo “motociclista sui generis” che si inclinava, e poi sbandava, e poi metteva un piede a terra, e poi riprendeva l’equilibrio. Così ho avuto il mio battesimo di fuoco ad Haiti: all’interno di una bidonville senza mediazione di Ong, scorte o quanto altro.
Siamo arrivate a “casa” di Daphney, una mini costruzione in cemento, attaccata ad un’altra, priva di finestre: un tavolo all’ingresso, una stanza a destra e una a sinistra, con due letti matrimoniali. Due letti, sì, per otto persone. Dormono quattro su ogni letto. Suo figlio, un bambolotto con due occhioni così, sgattaiolava da tutte le parti, era tutto sporco ed aveva la ciabatte bucate. La famiglia era tutta riunita lì fuori: la mamma giocava con un’altra signora con i dadi. Un uomo lavorava carbone, un altro cuciva dei pezzi di stoffa. Una donna faceva le treccine ad un’altra. Poi c’era una bambina, avrà avuto sì e no otto anni, che in uno scatolone aveva saponi e deodoranti che spolverava ponendoli all’interno di un’altra scatola. “Sono i suoi affari”, mi ha detto Daphney accorgendosi che ero rimasta a fissarla. Nella famiglia di Daphney lavora solo un fratello. Le ho chiesto come passa lei le sue giornate, mi ha risposto “dormendo”.
Poi è arrivato Jhonny, un suo amico che parla bene inglese (già, perché avevo dimenticato un sottile dettaglio: Daphney sa dire due-tre parole in inglese, altrettante quelle che io riesco a spiccicare in francese… nonostante tutto siamo riuscite a capirci). Mi hanno fatto fare un giro a piedi, girando l’angolo, salendo su di una collinetta formata da macerie e immondizia. Era difficile mantenere l’equilibrio, tutto era molto instabile e non c’erano punti d’appoggio. Ma Jhonny mi ha aiutato sorreggendomi e, nei tratti più brutti, gli ho affidato la mia macchinetta. Davanti ai miei occhi sporcizia, baracche e capanne, ai limiti di ogni umanità. Più mi addentravo e più avvertivo qualcosa dentro che mi spingeva a prendere le distanze da quella realtà che avrei voluto rigettare. Però non avevo paura. E’ strano da spiegare… ero l’unica bianca di tutta la bidonville, avevo una macchinetta al collo, di certo non passavo inosservata. Eppure queste persone non sembravano infastidite dalla mia presenza, non percepivo ostilità nei miei confronti e neanche quando ho confidato di essere una giornalista ho sentito astio da parte loro. Insomma, tanta, tantissima, indescrivibile la povertà, ma altrettanta la dignità. Nessuno si è nascosto davanti a me oggi.
Al termine di questo “mini tour” siamo ritornati a casa di Daphney, e Jhonny è andato a comprarmi una bottiglia d’acqua. “Because you need to drink”, mi ha detto. Io ho bisogno di bere? E loro? Di cosa NON hanno bisogno loro?
E’ tosta da capire, ci provo, ma non ci riesco, sono troppo forti i contrasti. Daphney è curatissima, quando l’ho vista per la prima volta aveva dei jeans beige, una canotta elegante della stessa tonalità, ogni dettaglio era al suo posto. Ma come si fa? Come può mostrare una simile facciata e nascondere una così cruda realtà? Non ha cibo, non ha soldi, non ha acqua per lavarsi, eppure, dall’aspetto, sembra come me, sembra “normale”. Ho fatto questa domanda ad Evel poco fa, lui si è messo a ridere e mi ha detto che la realtà di Haiti non si può capire in un solo giorno.

SECONDO GIORNO
PICCOLO INCISO: gioia! Ho finalmente capito come ci si fa a lavare qui! Ieri infatti c’era solo il secchio grande, ed è stata un’ardua impresa che mi ha portato a risultati tutt’altro che soddisfacenti. Così stamattina, disperata e puzzolente, appena ho percepito la presenza della ragazza delle pulizie sono uscita dalla mia stanza e l’ho raggiunta in bagno. A gesti le ho spiegato il mio problema (lei parla solo creolo infatti), e mi ha fatto vedere una mini brocca, poco più grande di un bicchiere, che serve per prendere l’acqua dal secchio e versarsela addosso. Adesso sì che è tutto più semplice, son riuscita persino a fare il bucato.
Evel mi ha chiamato a rapporto nel suo ufficio, per capire come avevo intenzione di gestire le mie giornate. Gli ho spiegato che vorrei conoscere dal di dentro la realtà della sua associazione e avere anche del tempo per poter girare un po’. Così mi ha parlato di un meeting importante a cui avrei potuto partecipare, peccato però che era previsto alle 11 ed invece è iniziato alle 15. Conclusione: ho vissuto una mattinata surreale, ero in camera, non avevo né cibo né acqua, non potevo uscire da sola (mi è stato sconsigliato in tutte le lingue del mondo) ed attendevo questa riunione che tardava ad arrivare. Evel è stato carino, mi ha dato anche una Sim haitiana, così da poter essere un po’ indipendente, però non c’erano soldi dentro, e quindi non potevo chiamare nessuno. Ieri sera inoltre mi aveva portato ad un fast food, dove avevo comprato un po’ di riso, della carne al sugo, banane fritte e una insalata di dubbia consistenza.
Ieri sera però non ero riuscita a toccare cibo, perché il degrado visto il pomeriggio a Delmas mi aveva chiuso lo stomaco. Stamattina invece mi son alzata con un languorino tutt’altro che innocuo, così sono andata nella stanza adibita a cucina, ho aperto il frigorifero per prendere quel ben di Dio e – magicamente – non c’era più. Mi son messa alla ricerca della ragazza delle pulizie, l’unica che mi abbia rivolto parola del resto da quando sto qui, chiedendole che fine avesse fatto la mia “doggy bag”. Lei ha fatto finta di non capire e ha chiamato in soccorso le altre. In tre minuti erano diventate in sei, hanno dato la colpa ad un generico ragazzo della sicurezza (che io non ho mai visto durante la mia permanenza) accusandolo di essersi mangiato tutto questa notte, a loro insaputa. Ho risposto con un sorriso dicendo che non c’era alcun tipo di problema, e son tornata a chiudermi in stanza.

PASTO INCANTATO
Lo stomaco vuoto, la gola assiderata, il caldo, le zanzare , l’orologio mi ricordava che erano passate le 14 e tutto mi sembrava un nonsense. Così son entrata su Facebook ed ho mandato un messaggio telegrafico a Daphney, scrivendole: “Ho sete, ho fame e non ho soldi al cellulare, se puoi vieni”. Lei si è presentata dopo mezzora, un tipo con la moto ci aspettava fuori, e ci ha portato di nuovo a casa sua. Mi ha fatto sedere a tavola, era tutto buio e non c’era nessun altro nel misero ingresso. Di fronte a me una piccola credenza vecchia e impolverata, con il vetro scheggiato, che lei ha aperto per prendere un piatto. Mi ha dato da mangiare: una porzione di riso, condito con dei vegetables gialli e un pezzettino di carne. Il guaio è che mi ha dato anche il cucchiaio, io non potevo non accettare e, soprattutto, non avevo alternative o modi per poterlo disinfettare. Sicuramente mi beccherò il colera.
Poi è andata a comprarmi qualcosa da bere, e si è presentata con una bottiglietta di coca cola in una mano e un grande pezzo di ghiaccio nell’altra che ha opportunamente sbattuto sul muro per spezzettarlo, e poi me lo ha versato nel bicchiere, nonostante io continuassi a dirle: “No ice no ice!” Insomma, colera sicuro, e pure malaria, visto che le zanzare non vogliono saperne di abbandonarmi. Al di là di questi simpatici aneddoti, mi ha lasciato esterrefatta la sua ospitalità: queste persone non hanno cibo, e con un pasto unico ci fanno chissà quante volte, eppure lei non ha esitato a portarmi a casa sua e a darmi da mangiare, non appena le ho detto che avevo fame. Ma chi è che ha bisogno di aiuto qui? La domanda rimane.

IL CLUB
La sera Daphney ha insistito per portarmi al club. Io ho tentato di desistere, ma non c’è stato verso. A darle man forte ci hanno pensato le due sorelle, una, in particolare, la più piccola (avrà avuto sedici anni), si vantava perché il suo fidanzato aveva la macchina (considerata più di un lusso qui ad Haiti), e quindi ci avrebbe portato tutte gratis. Detto fatto. Il nostro autista è arrivato poco dopo le 19, su di una Alfa Romeo vecchissima, e con una marmitta non proprio al top. C’era anche Jhonny con lui, eravamo in sei in tutto. Cala in fretta l’oscurità a Port au Prince, già alle 18 è buio pesto e andare di notte in macchina è un’altra bella impresa. In primis uscire dalla bidonville: perché non c’è una strada, ma sentieri che costeggiano le case e senza un apparente criterio. E poi le buche, il fango, e la gente che nera su nero si distingue a fatica. Musica kompa dallo stereo, ritmi allegri, loro che parlavano e ridevano, ed io mi estraniavo, perché i miei occhi volevano assimilare il più possibile, e nulla più.
Ci siamo messi sulla rue principale, l’unica asfaltata, l’abbiamo percorsa a passo d’uomo, considerando il traffico, fin quando abbiamo parcheggiato. Il locale si trovava sul lato opposto, a distanza forse di una cinquantina di metri, ma ad Haiti, dove tutto è caos e la parola “ordine” non ha neanche una traduzione in creolo, ogni azione, anche la più banale, ha i suoi rischi, e così anche attraversare la strada diventa un compito tutt’altro che agevole. Nell’oscurità completa i fari delle macchine emanano una luce accecante, il flusso di auto, moto, biciclette è incessante, e il senso di marcia è un surplus che non tutti rispettano. Jhonny mi ha preso la mano ed abbiamo attraversato insieme, pian piano. Giunti dall’altra parte della carreggiata io ho allentato la presa, ringraziandolo per il suo sostegno. Ho pensato infatti che mantenere la mia mano nella sua poteva generare qualche fraintendimento, ma tempo dieci passi neanche ed ecco che cado a terra, a causa di una buca che, al solito, non avevo visto. Jhonny mi ha raccolto, rialzandomi mi ha chiesto se andava tutto bene e mi ha ripreso sottobraccio, e questa volta non mi ha più lasciato per il resto del tragitto. Camminare al suo fianco mi rendeva sicura.
Facciamo finalmente ingresso nel famoso “club”. Carino, però vuoto. Niente luce, soltanto candele e una tv abbastanza grande sulla parete principale. Eravamo gli unici clienti, ed abbiamo ordinato sei birre Prestige. Nessuno di loro voleva cenare, e così anche io ho detto no. Ma Daphney ha insistito affinché io, solo io, mangiassi, e così dicendo mi hanno ordinato un piatto con pollo, patate e qualche altra cosa. Era iniziato intanto il big match Brasile Argentina e le sorelle e il ragazzo sono andati a sedersi vicino la televisione, per seguire meglio la gara. Io, Daphney e Jhonny non ci siamo spostati e, quando mi è arrivato il piatto, ho proposto di dividerlo in tre. Solo che lui non ha mangiato quasi niente, lei poco ed usava le posate per tagliare i vari pezzi e darli a me. Insomma sembrava che per loro il cibo non fosse una necessità. E soprattutto ho capito che non mangiano due volte al giorno, bensì una sola. Al termine del primo tempo siamo andati via, e quella sarebbe stata la mia prima e unica serata trascorsa nella “movida” di Port au Prince.
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mercoledì 22 febbraio 2012

DEVASTAZIONE DEL TERRITORIO: È LA VOLTA DI ENEL

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L'America Latina ancora protagonista nelle lotte per la tutela dei beni comuni. Dopo il drammatico conflitto di Cochabamba (Bolivia) di 12-13 anni fa, in cui i cittadini insorsero contro la privatizzazione dell'acqua, ora in Colombia si sta consumando un'altra battaglia per la tutela di almeno due beni comuni (acqua e territorio) che speriamo non degeneri in episodi di violenza contro la popolazione, che sta solamente facendo valere i propri diritti.
In questi giorni nel dipartimento di Huila, è in corso l'epilogo di una lotta che va avanti da 4 anni contro la costruzione della grande diga, il Quimbo, un megaprogetto idroelettrico proposto da Enel-Endesa, dal valore di oltre 800 milioni di dollari. La diga inonderà 8.500 ettari di terre agricole, abitate da 3000 persone (6 i comuni coinvolti), situate in una valle riserva di protezione dell'Amazzonia. I comitati locali di cittadini riuniti nell'associazione Assoquimbo, presidiano da tempo il territorio per bloccare i lavori compreso lo scavo di un tunnel di 400 metri (i lavori dovrebbero iniziare il 20 febbraio) che servirà a deviare il fiume Magdalena, il più grande corso d'acqua del paese.
Il meccanismo si ripete in maniera simile in molte parti del mondo: grandi concessioni idroelettriche, elargite con troppa facilità da governi compiacenti a multinazionali di enorme influenza, territori devastati con messa a rischio della biodiversità, della sicurezza alimentare, delle risorse naturali e perfino culturali. L'energia è certo necessaria e le fonti rinnovabili devono essere incrementate, ma non a scapito della sostenibilità ambientale, sociale ed economica perché dubitiamo che sul territorio sacrificato vi sia qualche ricaduta di tipo monetario per l'interesse generale.
I costi di queste operazioni sono di gran lunga superiori ai benefici se le analizziamo con le lenti della sostenibilità e dispiace che un'impresa italiana sia protagonista di questo tipo di progetti. Anche perché pare che le multinazionali Enel-Endesa si siano già rivolte all'esercito e agli squadroni antisommossa (dai metodi poco ortodossi) per reprimere ogni accenno di dissenso e sgomberare il territorio.
Per appoggiare la lotta dei cittadini colombiani e per informare su questa battaglia per la tutela dei beni comuni che si sta combattendo in un'altra parte del pianeta, è stato convocato per giovedì 16 febbraio a Roma un presidio, dalle ore 14 fino alle 17, davanti la sede nazionale Enel Spa (viale R.Margherita/angolo via Savoia) a cui hanno aderito molti movimenti italiani tra cui il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
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martedì 21 febbraio 2012

I GRECI CADUTI NELLA SVENTURA

“Allevati e nutriti per la morte,
noi siamo come branchi di maiali
da scannare a sorte.”

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L' Olivo nell' antica Grecia era l' albero consacrato ad Atena, e le corone di olivo consacravano i vincitori dei giochi olimpici

Chi scrisse questi versi soffriva di un tormento. Era  Pallada, tardo poeta ellenistico. La traduzione è di Salvatore Quasimodo, tormentato poeta italiano che per le sue traduzioni dei Lirici Greci vinse il Nobel. Molti dissero che Quasimodo non sapeva il greco. Poco importa, se si capisce lo spirito dei poeti, se si condivide il tormento. Noi invece non ci tormentiamo vedendo ciò che accade alla Grecia. Dovremmo, mentre invece ci uniamo al coro dei lamenti verso gli sprechi dei greci, i lussi dei greci, gli sbagli dei greci. Come se non fossimo in alcun modo imparentati con loro, come se fossimo lontani anni luce da loro. Ci teniamo anzi a dimostrare la nostra abissale distanza. Noi non siamo come i greci, per carità. Loro sono finiti, noi no. Evviva.

“Sette a terra eran caduti;
inseguiti li afferrammo.

Fummo in mille ad ammazzarli.”

Lo diceva Archiloco di Paro nel VII secolo a.C. Non conosceva l’UE, non sapeva nulla della moneta unica, era all’oscuro del Pil. Chissà come aveva fatto a intuire che qui, quando uno perde l’equilibrio, siam tutti bravi ad aiutarlo a restare a terra.

“Non è che commedia la vita e gioco.
O lasci la saggezza e impari il gioco,

o sopporti i dolori.”

(sempre Pallada, sempre tradotto da Salvatore Quasimodo). D’altronde dobbiamo sopravvivere in qualche modo, dobbiamo essere astuti e piegarci alle regole del gioco, appunto. Mica possiamo soccombere anche noi. O no?

“L’uomo buono più d’ogni cosa povertà lo piega,
più  della grigia vecchiaia, più della febbre.

Un uomo da povertà  oppresso, nulla dire
né  fare può, ma la lingua ha legata.”

(Teognide, VI secolo a.C.) Non possiamo quindi fare altrimenti che abbandonarli al loro destino, questi greci, se loro non intendono sottostare alle severe condizioni che si sono cercati con la loro scelleratezza. I poveri sono loro, adesso. Cosa ci possiamo fare, se non ratificare il disastro? Se non guardarlo con desolazione, certo, ma anche con distacco? Ci diano garanzie, per la miseria, tutte quelle che chiediamo. Si adattino alla sopravvenuta indigenza e alle mutate condizioni. Colpa loro, che tanto hanno sprecato mentre noi invece ci siamo fermati per tempo. Non possiamo permetterci la clemenza. Non siamo sulla stessa barca, in fin dei conti. La loro è piegata in mare, la nostra ancora galleggia. E quindi ci tocca galleggiare. Devono farsi un esame di coscienza, loro. Noi non siamo disgraziati quanto gli elleni e non vogliamo provare troppa pietà per loro, giacché tutta la compassione del mondo non li potrebbe salvare dal loro fato. Davvero quei poveracci per strada ad Atene sono così distanti da noi? Non ci hanno sempre insegnato che noi siamo il retaggio degli antichi greci, nel bene e nel male? Non ci sono più i greci di una volta, evidentemente.

“Forse che morti non viviamo solo
in apparenza noi greci caduti
nella sventura, immaginando il sogno
vita? O viviamo ora che vita è morte.”


Questo lo diceva Paolo Silenziario, che scriveva in greco ma era un bizantino e quindi alla fine un romano. Che fosse un europeo dei primordi? Tutti i bei versi sopraccitati non sono andata a cercarli chissà dove. Stavano stampati sopra la mia antologia del liceo, che conservo da trent’anni. Leggendo quello che pensavano i greci più di 2500 anni fa, vacilla la convinzione che sia giusto trattarli come li stiamo trattando. Ho come l’impressione che finché non aiutiamo il greco che c’è in ognuno di noi (ce ne sarà traccia anche nei tedeschi, magari) tutti i discorsi sull’Unione Europea sono e restano parole a vanvera. Dicono che non bisogna mischiare l’economia con la poesia. Chi lo dice sarà in buona fede, non si discute. Ma sarà vero? Intanto questi versi sono arrivati fin qui, intanto.
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lunedì 20 febbraio 2012

NOTE SUL 'RINASCIMENTO' AMERINDIO: "GLIE LO DICI TU CHE NOI ESISTIAMO GIÀ?"

Prendendo spunto da un testo di Monica Bruckman, Aldo Zanchetta riflette sull'occultamento dell'altro - le popolazioni indigene dell'America latina - messo in atto in nome della 'civilizzazione' e di un'idea di modernità portata avanti dal modello occidentale ed eurocentrico. Il movimento indigeno è forse oggi “uno degli elementi più trasformatori della densa realtà latinoamericana contemporanea”.


Le patate sono al quarto posto fra le coltivazioni mondiali.
La visione eurocentrica si è convertita anche in una barriera cognitiva

Ricordo quando una sera del 2007 Aldo Gonzales, indigeno zapoteco di rara sagacia e col quale stavo compiendo un giro di incontri in Italia, dopo un’ora abbondante di ascolto di interventi sul tema, allora dominante nei movimenti, “unaltro mondo è possibile”, mi bisbigliò nell’orecchio con voce fra lo scherzoso e l’annoiato: “glielo dici te che noi esistiamo già?”.
Prendo spunto da questo ricordo per iniziare una riflessione a partire da un testo di Monica Bruckman, una giovane sociologa peruviana avente il dono di una scrittura sintetica ed al medesimo tempo esaustiva del tema che tratta. Scelgo per questa riflessione il testo dal titolo El movimento indígena, uno schizzo di un mondo che esiste già, o meglio che esiste ancora nonostante il genocidio secolare compiuto in nome della 'civilizzazione', questo tarlo che rode ancora oggi la mente del mondo occidentale.

Il testo inizia appunto con una critica, ormai assodata, della visione eurocentrica, accusata di essere “fondamento ideologico e forma di produzione e controllo delle soggettività delle società” (tema già magistralmente trattato in Orientalismo da E. Said, un 'must' per il numero crescente di militanti di Ong che hanno scelto come 'missione' l’educare alla modernità i popoli 'sottosviluppati'). Riporto pertanto solo una frase che mi è sembrata condensare bene la critica dell’autrice: 
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In America latina l’idea di modernità è andata di pari passo non con la scoperta bensì con l’occultamento dell’altro


“L’arroganza di questa visione eurocentrica non solo giustificò forme violente di colonizzazione e colonialismo ma si convertì anche in una barriera cognitiva che ha impedito all’Occidente di conoscere e comprendere la complessità del mondo e le più antiche e importanti civiltà del pianeta. In questo modo vennero disprezzate conoscenze millenarie, forme non-occidentali di organizzazione della vita e della società, forme più umana di relazione con la natura e la vita, sensibilità estetiche altamente elaborate, produzione artistica e culturale di grande importanza, apporti filosofici incluso il denso pensiero sociale prodotto fuori dai paesi centrali dell’Occidente [1]”.
In America latina l’idea di modernità è andata di pari passo non con la 'scoperta' bensì con l’'occultamento' dell’altro (Dussel), fondata “sulla base della struttura di potere coloniale e convertita in un meccanismo legittimatore che impone la civiltà occidentale come l’unica strada di realizzare il cosiddetto 'progresso'”. Non mi dilungo oltre sulla critica, pur importante, dell’eurocentrismo che ha portato alla distruzione della memoria storica collettiva dei popoli e delle civilizzazioni americane (e forse anche della propria).
In realtà interi popoli e intere civiltà furono annichilite e scomparvero. Alcune resistettero, ed altre ritenute estinte, ora riemergono e riprendono faticosamente coscienza di sé in un processo che certo è lungo e difficile ma che, una volta iniziato, sembra non volersi arrestare, malgrado i documenti delle istituzioni di 'intelligence' statunitensi allertino gli stati nazionali latinoamericani sul pericolo e invitino a contrastarlo (ci riferiamo ai famosi Documenti di Santa Fe, elaborazione del peggior conservatorismo statunitense, e ai più ufficiali Scenari globali 2025).

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"Il movimento indigeno è forse uno degli elementi più trasformatori della densa realtà latinoamericana contemporanea"

Ma sono cose note, mentre forse meno avvertita tuttora è la prospettiva civilizzatoria che i popoli amerindi stanno costruendo e proponendo e che gli occhiali appannati a suon di 'sviluppiamo' o il sentimentalismo folclorico di molti generosi 'loro amici' nostrani non colgono appieno.
Scrive la Bruckmann, parlando dei fermenti che animano le società latinoamericane di questi anni:
“Il movimento indigeno è forse uno degli elementi più trasformatori di questa densa realtà latinoamericana contemporanea. Questo si costruisce come un movimento sociale di dimensione regionale con un profondo contenuto universale e una visione globale dei processi sociali e politici mondiali. Nello stesso tempo ha cessato di essere un movimento di resistenza per sviluppare una strategia offensiva di lotta per il governo e il potere, specialmente nella regione andina dell’America del sud.
A partire da una profonda critica e dalla rottura rispetto alla visione eurocentrica, alla sua razionalità, al suo modello di modernità e sviluppo incastonati nella struttura di potere coloniale, il movimento indigeno latinoamericano si presenta come un movimento civilizzatorio, capace di recuperare il lascito storico delle civiltà originarie per rielaborare, non una forma di produrre conoscenza, ma tutte le forme di conoscenza e produzione di conoscenza che hanno convissuto e resistito a oltre 500 anni di dominazione. L’elemento indigeno si sta convertendo nel centro del discorso e della costruzione di una visione del mondo, di un soggetto politico e di un progetto collettivo e emancipatorio”.
È solo in questo senso, di un movimento ampio e plurale, con significative e ricche diversità al suo interno, che si può parlare di 'movimento indigeno' al singolare senza commettere un grossolano errore, 'eurocentrico' per l’appunto. Dei suoi contenuti parleremo in una seconda puntata.
Note
1. E.Dussel, E.Mendieta, C.Bohórquez, El pensamento filosófico latinoamericano, del Caribe y “latino” (1330-2000 – Historia – Corrientes – Temas – Filosófos, Siglo XXI editores, Mexico 2009)
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lunedì 13 febbraio 2012

NOZZE D’ORO CON L’EMBARGO PER CUBA

Mezzo secolo di blocco, una misura che non ha eguali nella storia
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C’era JFK, c’erano l’URSS e la crisi dei missili sovietici a Cuba e c’era il disastro della Baia dei Porci, quando gli Stati Uniti imposero su Cuba un blocco totale, che nelle intenzioni doveva servire a piegare il regime di Castro. Di tutto questo oggi sono rimasti solo gli USA, l’embargo e Castro.

FIDEL E L’EMBARGO – Entrambi in discreta forma, anche se forse si spegnerà prima Fidel Castro, che ha lasciato il potere al fratello e che in questi giorni presenta una lunga autobiografia (circa mille pagine in due volumi) a raccontare una vita decisamente eccezionale. Il blocco o blqueo come lo chiamano sull’isola, è stato anche rafforzato nel 1996, con la legge Helms-Burton e continua ai giorni nostri, nonostante le ragioni teoriche della sua istituzione si perdano ormai nelle nebbie della storia.

IL CORTILE DI CASA - Ma Cuba è sulla porta degli Stati Uniti, una parte del “cortile di casa” teorizzato dalla dottrina Monroe troppo vicina alle cucine perché i bravi presidenti americani vi lascino prosperare una minaccia. Che Cuba non sia invece una minaccia per gli States è fuor di dubbio, tanto che sono gli States ad occupare una parte di territorio cubano con una base militare e non viceversa ed è altrettanto fuor di dubbio che ai presidenti americani, da Kennedy a Obama, della situazione dei diritti umani nell’isola non mai importato nulla. La presenza stessa della prigione di Guantanamo lo dimostra e riduce qualsiasi pretesa del genere al ridicolo. Tuttavia il “frame” narrativo dominante è questo: gli Stati Uniti mantengono l’embargo fino a che il regime cubano non farà riforme verso la democrazia e il rispetto dei diritti umani e civili.

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QUESTIONI POLITICHE - Poi il regime quei progressi li ha fatti, ma non bastano e non basteranno, anche perché la questione dell’embargo contro Cuba è più una questione di politica interna americana che di politica internazionale. Sono i cubani fuggiti da Cuba e i loro discendenti che rappresentano una forza elettorale rilevante negli Stati Uniti e in Florida in particolare ed è per compiacere questa forza che da sempre i politici americani, in particolare quelli repubblicani, trattano Cuba con tale durezza.

 A CHE SERVE L’ EMBARGO – Un embargo che per la gente di Cuba ha avuto un prezzo economico, sociale e culturale molto elevato e che sicuramente ha rafforzato il regime castrista, che ha sempre avuto buon gioco a mostrarsi come unico difensore di un paese aggredito ingiustamente dal vicino onnipotente. Più o meno la stessa dinamica vista all’opera negli ultimi anni nei contronti del regime di Teheran, quando gli Stati Uniti trovano il nemico giusto, fanno di tutto per conservarlo in salute. Un embargo che è anche privo di paragoni nella storia, che mai ha registrato sanzioni tanto estese e di tale durata ai danni di un singolo paese, nemmeno i peggiori regimi sulla terra hanno mai subito una pressione del genere. Il tutto  mentre gli USA che si sono battuti contro il regime cubano, hanno avuto modo e maniera di sostenere, e a volte poi abbattere, decine di dittature decisamente peggiori di quella castrista. Una dittatura che nonostante le difficoltà, è riuscita ad assicurare a tutti i cubani l’istruzione, l’alimentazione e la sanità pubblica, senza mai dover ricorrere ai grandi massacri registrati nei paesi vicini per conservare il potere. Traguardi sconosciuti alle dittature d’estrema destra che per decenni hanno devastato i paesi dell’America Latina, che non giustificano la repressione delle libertà individuali, ma che espongono perfettamente quanto l’embargo a Cuba sia una misura contro il popolo cubano e non un sacrificio richiesto alle imprese americane nel suo interesse.
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venerdì 10 febbraio 2012

CLANDESTINO PER UNA NOTTE

La nuova moda del turismo messicano

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Il 92% della popolazione vive sotto la soglia della povertà

Viaggio nello stato di Hidalgo,
uno dei luoghi più miseri
e arretrati della terra

Se avete in cantiere un viaggio in Messico vi suggerisco una meta davvero insolita. Occorre spingersi al centro del Messico, nello stato di Hidalgo, nell'antichità cuore della civiltà tolteca, oggi uno dei luoghi più miseri e arretrati della terra. Sapete quando di un posto si dice ‘Qui Dio si è dimenticato di tutto e di tutti’? In verità, Dio non ha dimenticato Hidalgo, lo ha fatto proprio sparire dai suoi atlanti.
Il 92% della popolazione vive sotto le soglie (ma molto sotto) della povertà. Tra i suoi primati, la più bassa aspettativa di vita di tutto il Centroamerica, la più alta mortalità infantile, i peggiori salari del Messico, il più alto tasso di analfabetismo, la più alta astensione scolastica. Nella valle del Mezquital e in molti villaggi del municipio di Ixmiquilpan le case sono prive di servizi igienici, di acqua potabile, di energia elettrica, di pavimenti. Quando a questa gente, gli indios Hñahñus, parlavi dell’America sgranavano gli occhi increduli. L'America per loro più che un luogo era mitologia. Così, appena potevano, cercavano di raggiungerla. Il 90% della popolazione emigrava illegalmente in Nevada e in Arizona, sognando posti da manovale, da autisti di camion, da braccianti nei campi della California. Molti di loro perdevano la vita forzando i posti di blocco, crivellati dai proiettili mentre scavalcavano le recinzioni (un po' come i loro ‘cugini’ di Berlino Est freddati dai Vopos ogni volta che tentavano di violare il Muro).
Altri venivano fermati dalla Border Patrol e rimandati indietro, altri perdevano tutto prima ancora di cominciare, truffati da chi li aveva accompagnati alla frontiera dietro salatissimo compenso e poi denunciati alla polizia. Sette anni fa un gruppo di volontari alla cui testa c'era Elerino Martin decisero di sensibilizzare gli indios e di mostrare loro a cosa andavano incontro scappando in America. Il Parque EcoAlberto ricreava a meraviglia i paesaggi frontalieri del Nord e dunque era perfetto per simulare un viaggio illegale negli Stati Uniti passando attraverso il Rio Grande. Poi i responsabili del Parco decisero di trasformare questa esperienza estrema in un’attrattiva turistica e cominciarono a venderla ai tour-operator messicani e americani. Per cento pesos, l’equivalente di sei euro, gruppi di 50 e di 100 turisti affrontano quasi tutte le sere una marcia notturna di quattro ore, guadando fiumi limacciosi, scansando rovi e crotali, attraversando deserti, ascendendo le colline calcaree della valle del Mezquital.
Al turista non è risparmato nessun colpo basso. Sirene che ululano angoscianti, torce che frugano nell’oscurità, megafoni della Border Patrol che con forte accento yankee intimano ai clandestini di arrendersi in cambio di acqua e cibo, colpi d’arma da fuoco sparati all’improvviso. All’inizio, assicurano i turisti, sembra tutto un gioco, poi la fatica e la tensione prendono il sopravvento e distinguere la realtà dalla finzione diventa quasi impossibile. L’immedesimazione nel ruolo di clandestini è inevitabile e sorprendente. In una sola notte, raccontano due studenti messicani, ti giochi il destino di una vita intera. E allora comprendi tante cose e non puoi che essere solidale con questa gente. Il successo della Caminata Nocturna è stato tale da persuadere molti indios Hñahñus a rimanere in Hidalgo e a lavorare nel Parco anziché emigrare negli Stati Uniti. Il Parco offrendo posti di lavoro frena le emigrazioni illegali verso l’America e presto neanche ai giovani più irrequieti verrà la tentazione di sfidare la sorte oltre la frontiera.
Ma la Caminata Nocturna non è la sola attrattiva del Parco EcoAlberto. Se amate il kayak d'acqua bianca o le escursioni in mountain bikes, il parco è un paradiso. Offre acque termali ricche di zolfo, splendide aree camping, indios che con le foglie dell'agave producono spugne desfolianti per la pelle, spettacolari itinerari di birdwatching nella cornice del Grand Canyon. Senza contare che nel parco e nei villaggi che lo circondano è possibile degustare una cucina virile, per palati d'amianto, che ha nel borrego en barbacoa la sua specialità più rinomata. E' un modo di cucinare la pecora primitivo ma assai efficace e saporito. La si fa a pezzi, la si sala, la si aromatizza, poi la si adagia su una pentola di creta in cui sobbolle un brodo di ceci, riso, cipolla e peperoncino, in modo che la carne faccia da coperchio, poi si avvolge il tutto con foglie di agave e lo si cala all'interno di piccoli forni scavati sotto terra. Il risultato è prodigioso: la carne è inusitatamente tenera, profumata, sapida ma senza sentore di selvatico. LORENZO CAIROLI

giovedì 9 febbraio 2012

CI SONO PRETI E PRETI....

Orrore e coraggio di due sacerdoti

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IL CARNEFICE DELLA DITTATURA ARGENTINA


Maurizio Chierici su Il Fatto Quotidiano del 31 genn. scorso riportava l'orrenda storia di Christian von Wernich. L'uomo è un sacerdote, cappellano della Polizia della Provincia di Buenos Aires durante la dittatura del Processo di Riorganizzazione Nazionale.
E' stato condannato all'ergastolo per il sequestro di 42 persone, di cui 32 torturate e 7 uccise. L'uomo si avvicinava agli studenti con la confessione: "Hai paura per i tuoi amici? Dimmi chi sono, li aiuterò io".  Con questa strategia otteneva i nomi degli oppositori da perseguitare. 
Christian von Wernich accompagnava le vittime verso la condanna a morte e assisteva impassibile anche alle torture. 
Dopo la condanna all'ergastolo ci si aspetterebbe che quest'uomo venga ricondotto allo stato laicale. Sono passati 4 anni dalla sentenza ma i Christian von Wernich resta prete. Non solo: proprio in occasione del Giorno della Memoria ha scritto una lettera ai giornali lamentandosi del fatto che non gli è permesso dire messa nella cappella del carcere di Marcos Paz ma soltanto nella solitudine della sua cella. "Sono vittima di una persecuzione rivoltante. Mi è proibito dir messa nella cappella dove si raccolgono i prigionieri. La colpa? Aver combattuto l’eversione sacrilega del marxismo"- afferma - "La Chiesa conferma la mia piena dignità sacerdotale, perché il direttore del carcere mi impedisce di esercitarla?”

IL SACERDOTE CHE HA SALVATO CENTINAIA DI EBREI


Don Giovanni Barbareschi ha novant'anni. Da giovane con le organizzazioni O.S.C.A.R. e Aquile Randagie lavora per far fuggire in Svizzera ebrei e perseguitati politici. Il 10 agosto 1944 come diacono benedice i partigiani uccisi in piazzale Loreto. Nel 1944 celebra la sua prima Messa, la notte stessa viene arrestato perché stava cercando di far scappare alcuni ebrei verso il Canton  Ticino.  Viene liberato grazie all'intercessione del cardinal Schuster, dopo qualche giorno si unisce ai partigiani della Valcamonica, diventa il loro cappellano  e  per questo viene mandato nel campo di concentramento di Gries, da cui riesce a fuggire prima di essere trasferito in Germania.  Rientra a Milano e diventa l'interlocutore tra gli alleati e i tedeschi per salvare dalla distruzione gli edifici della città. In seguito lotta per salvare la vita al maresciallo Koch, il generale Wolff e il colonnello Dollmann e per evitare le rappresaglie contro i vinti.  
Il sacerdote ha salvato circa 2 mila persone ed è stato riconosciuto Giusto tra le Nazioni.
Don Giovanni ricorda il Giorno della Memoria sul Binario 21 della Stazione di Milano, dando un bellissimo messaggio di amore per la vita agli studenti che lo ascoltavano: "Sono un prete di Milano, un prete vecchio, ma non ho ancora accettato di essere un vecchio prete. A voi ragazzi dico: innamoratevi della libertà. Il primo atto di fede che un uomo deve fare è nella sua capacità di essere una persona libera". E ancora: "Negli anni della guerra ho fatto solo quello che un uomo libero avrebbe fatto. Si deve essere liberi dentro per vivere ogni giorno da uomo".
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lunedì 6 febbraio 2012

ISTANTI DA ZAMBÉZIA

PERCHÉ LA VITA È TUTTI I GIORNI!


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Problema di ponte a Mulevala... La vita è dura. E che cosa starà pensando questa mamma mentre sta in equilibrio sul ponte, con un bambino al collo e un fagotto in testa? Avrà paura?    Mulevala (Zambezia - provincia del Mozambico)
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venerdì 3 febbraio 2012

‘ESISTONO E VOGLIONO RESTARE SOLI’

Nuove immagini delle tribù incontattate

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Le fotografie diffuse oggi sono le più nitide e ravvicinate che siamo mai state fatte a un gruppo isolato.
© Diego Cortijo/uncontactedtribes.org

A un anno esatto di distanza dalla diffusione delle immagini aeree che mostravano una tribù incontattata forte e prospera nel folto della foresta amazzonica brasiliana, Survival International torna a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle minacce che incombono sui popoli più isolati del pianeta.
Le fotografie affidate oggi a Survival ritraggono una famiglia di Indiani Mashco-Piro incontattati, nel Perù sud-orientale.
L’esistenza dei Mashco-Piro nel parco nazionale di Manú era ben nota, ma negli ultimi mesi gli avvistamenti accidentali dei membri incontattati della tribù si sono moltiplicati.
A detta di molti, a costringere gli Indiani ad allontanarsi dalla foresta sarebbero il disboscamento illegale in atto dentro e fuori del parco, e i voli a bassa quota effettuati dagli addetti ai progetti energetici di gas e petrolio, al lavoro nelle vicinanze.
I Mashco-Piro sono uno dei circa 100 popoli incontattati del mondo e le fotografie diffuse oggi sono le più nitide e ravvicinate che siamo mai state fatte a un gruppo isolato.

clip_image004© Survival

Cercare di entrare in contatto con popoli che scelgono di rimanere isolati è non solo sbagliato ma anche molto pericoloso, e la morte di un uomo Matsigenka, avvenuta recentemente, lo dimostra.
Nicolás “Shaco” Flores è stato ucciso dalla freccia scagliata da una tribù incontattata nei pressi del parco di Manú. L’uomo lasciava cibo e doni per un piccolo gruppo di Mashco-Piro da ormai vent’anni.
“La morte di Shaco è una tragedia” ha scritto sul suo blog e sulla rivista Anthropology News, l’antropologo Glenn Shepard, amico della vittima. “Era un uomo gentile, coraggioso e intelligente. Pensava di aiutare i Mashco-Piro. Ma la tribù ha espresso ancora una volta la ferma volontà di essere lasciata sola.”

clip_image002[4] Nicolás “Shaco” Flores è stato ucciso da una tribù di Indiani isolati del Perù con cui lui aveva cercato di entrare in contatto.
© Diego Cortijo/uncontactedtribes.org

Secondo Beatriz Huertas, un’esperta peruviana di Indiani incontattati, il caso è “insolito, complesso ed estremamente delicato”.
“Potrebbero verificarsi dei contatti in qualunque momento” ha commentato la Huertas, “e per evitare che accada dobbiamo prendere al più presto misure preventive e studiare un piano d’emergenza insieme alle autorità locali”.
L’anno scorso Survival aveva scritto al SERNANP, il Ministero peruviano per le Aree Protette, esprimendo la sua preoccupazione per un video che immortalava dei turisti mentre lasciavano indumenti per gli Indiani lungo le rive del fiume.
Grazie alle pressioni, ai residenti furono distribuiti degli avvisi e ai turisti venne interdetto l’accesso all’area.

clip_image002[6]A detta di molti, a costringere gli Indiani ad allontanarsi dalla foresta sarebbe il disboscamento illegale in atto nel Parco nazionale di Manú.
© Gabriella Galli/uncontactedtribes.org

Il Dipartimento degli Affari Indiani INDEPA progetta ora di istituire un avamposto di guardia per proteggere sia la popolazione locale sia il gruppo incontattato.
“A un anno di distanza, queste fotografie forniscono un’ennesima prova lampante dell’esistenza delle tribù incontattate” ha commentato Stephen Corry, Direttore Generale di Survival International. “È inaccettabile che governi, aziende e antropologi continuino a negare. E il primo contatto è sempre pericoloso e spesso fatale, sia per la tribù sia per chi cerca di stabilirlo. La volontà degli Indiani di essere lasciati soli deve essere rispettata.”
Fonte

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