martedì 21 febbraio 2012

I GRECI CADUTI NELLA SVENTURA

“Allevati e nutriti per la morte,
noi siamo come branchi di maiali
da scannare a sorte.”

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L' Olivo nell' antica Grecia era l' albero consacrato ad Atena, e le corone di olivo consacravano i vincitori dei giochi olimpici

Chi scrisse questi versi soffriva di un tormento. Era  Pallada, tardo poeta ellenistico. La traduzione è di Salvatore Quasimodo, tormentato poeta italiano che per le sue traduzioni dei Lirici Greci vinse il Nobel. Molti dissero che Quasimodo non sapeva il greco. Poco importa, se si capisce lo spirito dei poeti, se si condivide il tormento. Noi invece non ci tormentiamo vedendo ciò che accade alla Grecia. Dovremmo, mentre invece ci uniamo al coro dei lamenti verso gli sprechi dei greci, i lussi dei greci, gli sbagli dei greci. Come se non fossimo in alcun modo imparentati con loro, come se fossimo lontani anni luce da loro. Ci teniamo anzi a dimostrare la nostra abissale distanza. Noi non siamo come i greci, per carità. Loro sono finiti, noi no. Evviva.

“Sette a terra eran caduti;
inseguiti li afferrammo.

Fummo in mille ad ammazzarli.”

Lo diceva Archiloco di Paro nel VII secolo a.C. Non conosceva l’UE, non sapeva nulla della moneta unica, era all’oscuro del Pil. Chissà come aveva fatto a intuire che qui, quando uno perde l’equilibrio, siam tutti bravi ad aiutarlo a restare a terra.

“Non è che commedia la vita e gioco.
O lasci la saggezza e impari il gioco,

o sopporti i dolori.”

(sempre Pallada, sempre tradotto da Salvatore Quasimodo). D’altronde dobbiamo sopravvivere in qualche modo, dobbiamo essere astuti e piegarci alle regole del gioco, appunto. Mica possiamo soccombere anche noi. O no?

“L’uomo buono più d’ogni cosa povertà lo piega,
più  della grigia vecchiaia, più della febbre.

Un uomo da povertà  oppresso, nulla dire
né  fare può, ma la lingua ha legata.”

(Teognide, VI secolo a.C.) Non possiamo quindi fare altrimenti che abbandonarli al loro destino, questi greci, se loro non intendono sottostare alle severe condizioni che si sono cercati con la loro scelleratezza. I poveri sono loro, adesso. Cosa ci possiamo fare, se non ratificare il disastro? Se non guardarlo con desolazione, certo, ma anche con distacco? Ci diano garanzie, per la miseria, tutte quelle che chiediamo. Si adattino alla sopravvenuta indigenza e alle mutate condizioni. Colpa loro, che tanto hanno sprecato mentre noi invece ci siamo fermati per tempo. Non possiamo permetterci la clemenza. Non siamo sulla stessa barca, in fin dei conti. La loro è piegata in mare, la nostra ancora galleggia. E quindi ci tocca galleggiare. Devono farsi un esame di coscienza, loro. Noi non siamo disgraziati quanto gli elleni e non vogliamo provare troppa pietà per loro, giacché tutta la compassione del mondo non li potrebbe salvare dal loro fato. Davvero quei poveracci per strada ad Atene sono così distanti da noi? Non ci hanno sempre insegnato che noi siamo il retaggio degli antichi greci, nel bene e nel male? Non ci sono più i greci di una volta, evidentemente.

“Forse che morti non viviamo solo
in apparenza noi greci caduti
nella sventura, immaginando il sogno
vita? O viviamo ora che vita è morte.”


Questo lo diceva Paolo Silenziario, che scriveva in greco ma era un bizantino e quindi alla fine un romano. Che fosse un europeo dei primordi? Tutti i bei versi sopraccitati non sono andata a cercarli chissà dove. Stavano stampati sopra la mia antologia del liceo, che conservo da trent’anni. Leggendo quello che pensavano i greci più di 2500 anni fa, vacilla la convinzione che sia giusto trattarli come li stiamo trattando. Ho come l’impressione che finché non aiutiamo il greco che c’è in ognuno di noi (ce ne sarà traccia anche nei tedeschi, magari) tutti i discorsi sull’Unione Europea sono e restano parole a vanvera. Dicono che non bisogna mischiare l’economia con la poesia. Chi lo dice sarà in buona fede, non si discute. Ma sarà vero? Intanto questi versi sono arrivati fin qui, intanto.
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