venerdì 31 luglio 2009

DALLO «IUS MIGRANDI» AL REATO DI IMMIGRAZIONE

Agli inizi del XVI secolo i giuristi europei si cimentarono nella ricerca di titoli di legittimazione giuridica della conquista del Nuovo Mondo: risale a quell’epoca l’elaborazione dello ius migrandi, uno dei diritti che, come ha scritto Luigi Ferrajoli, erano proclamati astrattamente uguali e universali allorché erano concretamente disuguali e asimmetrici, essendo impensabile la migrazione degli indios in Occidente.

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Ricordare oggi le origini dello ius migrandi può servire a mettere a fuoco il segno delle risposte date ai fenomeni migratori della nostra epoca. Sulla base dell’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alcuni giuristi hanno cercato di ricostruire un diritto di circolazione transnazionale, uno ius migrandi per i nostri tempi, ma non si è andati oltre lo sforzo dottrinale. La condizione giuridica del migrante resta infatti sospesa tra il riconosciuto diritto di lasciare qualsiasi paese e il divieto di migrare nei paesi dell’Occidente: un paradosso che, tuttavia, fotografa bene la realtà della condizione dei migranti, una condizione di sospensione ben rappresentata da quei luoghi (i mari che circondano le nostre coste, prima di tutto) in cui la negazione dello ius migrandi si traduce in tragedie che qualche volta riescono a catturare lo sguardo altrimenti distratto delle nostre società.

E quando il suo lungo viaggio non finisce in una tragedia, il migrante – l’irregolare, ma anche quello regolare – è destinato a conoscere una nuova condizione di sospensione, in bilico tra la sua aspirazione all’integrazione e la spinta verso la clandestinizzazione, una spinta che gli orientamenti più recenti delle politiche del diritto stanno ulteriormente esasperando. Alla base di questi orientamenti vi è una doppia equazione: l’immigrazione, in generale, come problema di ordine pubblico; l’immigrazione irregolare come sinonimo di criminalità.

I risultati fallimentari delle politiche guidate da questa doppia mistificazione sono sotto gli occhi di tutti: l’assoluta ineffettività di un sistema degli ingressi incentrato sull’assurda pretesa dell’«incontro a livello planetario» tra domanda e offerta di lavoro; un governo dell’immigrazione affidato, in realtà, da un lato, a sanatorie ufficiali ed eccezionali e, dall’altro, a sanatorie ufficiose e periodiche, ossia all’utilizzo dei meccanismi di ammissione imperniati sui decreti flussi per consentire (non, come pretenderebbe la legge, l’ingresso di chi si trova all’estero al momento della richiesta di assunzione del datore di lavoro, ma) la prosecuzione legale della permanenza dello straniero già irregolarmente presente in Italia; la realtà della condizione di irregolarità del migrante come passaggio necessario verso la condizione di legalità.

A fronte di questo bilancio fallimentare il diritto speciale dell’immigrazione irregolare si espande ulteriormente e conosce nuove, più gravi, torsioni: è in questa direzione che si muove la proposta volta alla criminalizzazione di chi, essendo magari scampato a un naufragio, fa ingresso ovvero si trattiene da irregolare nel territorio dello Stato.

La finalità proclamata del nuovo reato di ingresso e soggiorno illegale è l’effettività degli allontanamenti, ma rispetto ad essa è manifestamente inutile, essendo destinato ad operare in un’area di casi già integralmente coperta dall’espulsione amministrativa. Ma l’introduzione del nuovo reato (approvata dal Parlamento il 2 luglio scorso, ndr) non resterà senza effetti: costruirà ope legis (per effetto di legge) la persona del migrante irregolare come criminale, consolidando ulteriormente nel senso comune la falsa equazione immigrazione/criminalità; inoltre, farà terrà bruciata intorno ai migranti irregolari etichettati come criminali e spingerà l’ordinamento verso il piano inclinato di una razionalità orientata alla disuguaglianza, ossia alla costruzione di doppi livelli di cittadinanza. Tutto questo non riguarda solo gli stranieri, ma la qualità della nostra democrazia. Diceva Luigi Di Liegro che nulla come la normativa sugli stranieri ci dice in maniera profonda che cosa siamo. Che cosa siamo e – possiamo aggiungere – che cosa stiamo diventando.

Angelo Caputo

Fonte: Confronti

giovedì 30 luglio 2009

IL VOTO RUBATO DEGLI SCHIAVI

Mentre l'opposizione ricorre contro i risultati elettorali, Boubacar Messaud, di "Sos Esclaves" denuncia il voto pilotato degli schiavi

"Una frode massiccia". "Una farsa volta a legittimare il colpo di stato militare". "Un golpe elettorale". Sono solo alcune delle espressioni usate dai rappresentanti del Fronte nazionale per la difesa della democrazia (Fndd), che hanno annunciato ricorso contro la clamorosa vittoria elettorale del generale Mohamed Ould Abdel Aziz, autore, nell'agosto scorso, del golpe che depose l'unico presidente democraticamente eletto in Mauritania. Durante la conferenza stampa, indetta a Nouackhott, Ahmed Ould Daddah, capo del principale partito d'opposizione, Messaoud Ould Boukheir, secondo eletto con il 16,2% delle preferenze, e, a riprova del fermento politico attuale, il colonnello Ely Ould Mohamed Vall, che nel 2005 prese il potere con un colpo di stato per spianare la strada alle prime elezioni libere, hanno sostenuto di avere prove tangibili delle frodi elettorali: in particolare, i tre hanno fatto riferimento ad alcune schede false ritrovate nelle urne e a manomissioni nei registri elettorali.
In attesa di sapere se il Consiglio costituzionale accetterà di metter in discussione una votazione che gli osservatori internazionali hanno dichiarato sostanzialmente regolare, Boubacar Messaud, uno dei fondatori di "Sos Esclaves", un'organizzazione che lotta per l'abolizione della schiavitù, denuncia un altro genere di "frode" elettorale: il voto degli schiavi.

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"In Mauritania esistono ancora seicento mila schiavi, che corrispondono al 18 percento della popolazione- ha esordito Boubacar Messaud al telefono con PeaceReporter - Seicento mila persone che possono prendere parte alle elezioni, perché ufficialmente la schiavitù è stata abolita nel 1981, ma che in realtà sono costretti a votare per i propri padroni o per i candidati da loro indicati. Il loro voto non può essere definito un atto democratico vero e proprio. La schiavitù diventa così un problema politico, che il ceto dirigente, formato dalle più importanti famiglie del Paese, spesso proprietarie di schiavi, non ha alcun interesse a risolvere. Ma se il futuro della Mauritania è quello di diventare un paese moderno, dove i governi vengono democraticamente eletti, si capisce che abolire la schiavitù diventa fondamentale, perchè seicentomila persone, libere ed indipendenti possono cambiare il volto di questa nazione.

Cosa intende esattamente quando parla di schiavi?
Essere uno schiavo significa letteralmente appartenere ad un'altra persona, il "maestro", e lavorare tutto il giorno per lui senza ricevere alcun compenso che non sia il sostentamento. Spesso vivono nella casa del padrone come servi domestici, ma in alcuni casi possono anche essere indipendenti, vivere in città, ricevere un'educazione e lavorare un proprio campo corrispondendo un affitto. In ogni caso, se vogliono sposarsi devono chiedere il permesso al padrone che, potrà sempre pretendere delle giornate di corvées e che, alla loro morte, erediterà i loro pochi averi al posto dei figli. E' una situazione che viene comunemente accettata e riconosciuta sia dai mori bianchi, che costituiscono l'elite schiavista del Paese, che dalle popolazioni afro-maure, che sono state assoggetate e schiavizzate. Abolire la schiavitù significherebbe quindi porre fine anche al problema delle discriminazioni razziali, perche in Mauritania capita spesso che una persona venga stigmatizzata per il solo fatto di essere nero, anche se oramai è un professionista affermato o si è affrancato da tempo.

Scusi, ma se gli schiavi possono vivere anche lontano dal padrone e addirittura studiare, cosa li trattiene dal ribellarsi?
Schiavi si nasce. E' una condizione che si eredita dalla madre. Fin dalla più tenera età al bambino viene insegnato che il suo posto all'interno della società è quello e ribellarsi significa contravvenire all'ordine costituito e a un precetto religioso. Ufficialmente l'islam proibisce di ridurre in schiavitù un altro musulmano, ma questo non ha mai portato all'affrancamento di nessuno, anche se in Mauritania siamo tutti musulmani. Gli ulema legati al potere offrono sempre un'interpretazione del Corano che mette in risalto il valore dell'obbedienza e della sottomissione come virtù che conducono in paradiso. Ribellarsi significa quindi incominciare a pensare in maniera differente dagli altri, entrare in conflitto con il proprio clan, diventare degli emarginati. Oltre a tutto ciò, per le donne è molto difficile lasciare tutto e andarsene. Gli uomini, se hanno maturato consapevolezza della situazione possono semplicemente allontanarsi, dal momento che non hanno alcuna responsabilità nei confronti di mogli e figli, che, del resto, appartengono al padrone. Ma per le donne lasciare la casa del "maestro" può significare non vedere più i figli, che magari sono già stati divisi fra i vari rami della famiglia padronale, o la vecchia madre, che spesso hanno in carico. Oltre a rischiare di attirare la vendetta del padrone su di loro.
E se qualcuno trova il coraggio di contestare l'assegnazione dell'eredità dei genitori al padrone, difficilmente vince in tribunale. Di solito i giudici, che provengono dalla casta privilegiata o ne condividono la mentalità, archiviano questi casi per mancanza di prove. Spesso sono loro stessi proprietari di schiavi o semplicemente non hanno il coraggio di far rispettare la legge. Dal 1981 ad oggi si sono succedute numerose leggi contro la schiavitù, ma sono servite solo per gridare al mondo che la Mauritania combatteva il problema. L'ultima, approvata nel 2007, è arrivata a criminalizzare la riduzione in schiavitù, ma ad oggi nessuno è ancora stato condannato e probabilmente anche questa resterà lettera morta.

E' un caso che questa legge sia stata approvata sotto il governo dell'unico presidente democraticamente eletto, Sidi Ould Cheikh Abdallahi, poi rovesciato dal generale Abdel Aziz che oggi sembra aver vinto le elezioni?
No. I militari, che sono stati al potere quasi ininterrottamente dal 1978, sono i maggiori proprietari di schiavi, ma soprattutto, attraverso la loro mentalità e la formazione militare, protraggono il concetto di sudditanza. Tutto si pone per loro in termini di rapporti di forza.

E per il futuro, ora, cosa prevede?
La società mauritana si sta avviando sempre di più verso una crisi fra quanti vogliono cambiare ed entrare nella modernità e quanti vogliono mantenere lo status quo attuale. Presto le nuove generazioni non accetteranno di sottostare ad un potere feudale che non ha più ragione d'essere. E il rischio è quello di andare incontro ad una guerra civile.

Chiara Pracchi

mercoledì 29 luglio 2009

SOVRANITÀ POPOLARE E RICCHEZZE NATURALI

Agrobusiness per chi?

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La violenza del modello dell'agrobusiness si manifesta ormai quotidianamente: espulsione dei contadini dalle loro terre, militarizzazione delle campagne, espropriazione dei terreni ai danni delle comunità agricole, saccheggio delle risorse naturali, investimenti pubblici al servizio delle multinazionali con la conseguente crescita del debito estero, concentrazione delle terre, desertificazione, contaminazione da agrotossici, cibi transgenici a discapito delle colture convenzionali, distruzione della biodiversità, deruralizzazione e ampliamento delle aree periferiche dei grandi centri urbani ecc.

Il 25% dei boschi e il 40% della fauna e flora mondiali si trova in America Latina. Le multinazionali, con la complicità di governi conniventi, si appropriano delle risorse naturali e calpestano impunemente i diritti delle comunità contadine e indigene. La fame e l'indigenza sono le principali conseguenze di questo modello, che pregiudica gravemente la sovranità alimentare dei popoli e il loro diritto a usufruire dei beni comuni e delle risorse naturali messe a disposizione dal pianeta. Il paradosso è che il problema dei paesi sudamericani non è la mancanza di risorse quanto piuttosto la loro abbondanza.

Lo sviluppo selvaggio e indiscriminato delle monocolture di soia è stato presentato dal governo argentino come il motore del superavit fiscale mentre, in realtà, ha prodotto solo conseguenze negative per il paese: riduzione nella produzione di alimenti di base, che stanno portando a un aumento preoccupante di casi di sottoalimentazione e denutrizione, non solo nelle campagne ma anche nei centri urbani; aumento dei prezzi dei generi alimentari; trasferimento coatto di numerose comunità contadine; deforestazione e degradazione dei suoli agricoli; uso massiccio di agrochimici, con conseguenze devastanti per la salute umana e l'ambiente. In poche parole, in Argentina si sta affermando un modello di agricoltura senza agricoltori: in 10 anni sono scomparsi 160mila piccoli coltivatori.

La monocoltura della soia ha annullato tutte le pratiche di tutela dell'ambiente, come la rotazione agricoltura-allevamento e l'alternanza delle produzioni, provocando un impoverimento dei suoli che richiede una sempre maggiore quantità di sostanze chimiche per mantenere alto il livello della produzione. Tutto questo non fa che consolidare un modello di dipendenza: dalle multinazionali, dalle sementi che arrivano da fuori, dagli agrochimici, dai macchinari acquistati all'estero ecc.

E l'ambiente? E le persone? E l'agricoltura? Sembrano scomparire difronte al dilagare, apparentemente inarrestabile, del modello delle monocolture e dell'agrobusiness.

Fonte: Frente Popular Dario Santillan

Per scaricare il documento completo:
http://www.biodiversidadla.org/Objetos_Relacionados/file_folder/Archivos_pdf_2/Catedra_abierta_sobre_Soberania_popular_y_riquezas_naturales

martedì 28 luglio 2009

ECOSOCIALISMO O BARBARIE?

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La Germania premia la lotta di Don Cappio. Non capita molto spesso di ascoltare un vescovo che parli di socialismo e di ecosocialismo. Eppure è questo che è avvenuto a Friburgo, il 9 maggio scorso, durante il conferimento del Premio “Cittadino del mondo” della Fondazione Kant al vescovo brasiliano dom Luiz Cappio, della diocesi di Barra, per la sua lotta in difesa del fiume São Francisco e del popolo che ne abita le sponde. “Credo fermamente che una società internazionale giusta, sostenibile e pacifica – ha affermato il vescovo francescano nel discorso pronunciato alla cerimonia di premiazione - sia possibile solo in una prospettiva ecosocialista. Sono un modello di produzione ecologico e un accesso solidale ai beni necessari, in condizioni socialiste, che ci condurranno al superamento dell’attuale crisi”.

Ma se suonano inconsueti gli accenti del vescovo, non meno inconsuete sono state le modalità della sua lotta. Contro il progetto di deviazione delle acque del São Francisco e in difesa di un progetto alternativo rispettoso delle leggi del fragile ecosistema del Nordest brasiliano, dom Cappio non aveva esitato, per due volte in due anni, a ricorrere allo sciopero della fame. Nel primo caso, nel settembre del 2005, lo aveva interrotto dopo 11 giorni (v. Adista nn. 69 e 73/05), in seguito all’impegno di Lula di sospendere il progetto, avviando su di esso un ampio, trasparente e partecipativo dibattito con la società civile. Dibattito, tuttavia, che era stato interrotto molto presto (v. Adista n. 85/07).

Il vescovo era tornato allora alla carica, sollecitando il rispetto dell’impegno preso con una lettera al presidente, nel febbraio del 2007 ma, per tutta risposta, il governo aveva mandato l’esercito a iniziare i lavori, incurante del fatto che, nel frattempo, fossero state presentate alternative concrete, praticabili ed economiche, come quelle previste dall’Atlante del Nordest dell’Agenzia nazionale delle Acque: 530 opere per più di mille municipi, destinate a rifornire d’acqua 34 milioni di persone (con un costo di 3,6 miliardi di reais, contro i 6,6 miliardi del progetto di deviazione del corso delle acque). Una soluzione vantaggiosa da tutti i punti di vista, ma osteggiata dalle imprese legate al capitale internazionale, che del megaprogetto governativo hanno bisogno per promuovere l’allevamento di gamberetti e la produzione di frutta per l’esportazione (secondo gli studi di impatto ambientale, il 70% delle acque sarebbe destinato infatti alla frutticoltura, il 26% al rifornimento delle città e solo il 4% alla popolazione dei campi). Così il vescovo, nel novembre del 2007, aveva ripreso lo sciopero della fame, stavolta interrompendolo dopo ben 24 giorni, appena prima che la sua salute ne fosse irreversibilmente compromessa, su richiesta della famiglia, degli amici, dei compagni di lotta (difficile valutare quanto abbiano pesato le pressioni del Vaticano, che a sua volta aveva ricevuto quelle del governo Lula; v. Adista n. 1/08).

La fine del digiuno non aveva però comportato in alcun modo un allentamento della lotta contro il progetto governativo. Non a caso, dom Cappio, nel suo discorso pronunciato durante la cerimonia di premiazione, rivolge un duro attacco al governo Lula, colpevole ai suoi occhi di aver frustrato “le enormi aspettative della maggioranza che lo ha eletto”, prestandosi “a sussidiare la riproduzione di un modello fallito”.
Di seguito il discorso pronunciato da dom Luiz Flávio Cappio in una nostra traduzione dal portoghese. (claudia fanti)

UN PREMIO PLURALE

di Luiz Flávio Cappio

Quando mi è giunta la notizia del Premio “Cittadino del Mondo” della Fondazione Kant, mi sono subito chiesto il perché. Quale legame dovrebbe avere la nostra lotta nella Vale do Rio São Francisco, nel Nordest del Brasile, con la filosofia di Immanuel Kant e i propositi della Fondazione che ne custodisce gli ideali? Sono andato a rivedere i miei studi di Filosofia dei lontani anni ’60. Non è stato difficile cogliere l’intenzione della Fondazione nelle proposizioni etico-filosofiche di Kant, luminosamente attuali, di una cittadinanza cosmopolita, basata su diritti umani universalizzati, sull’unione di morale e politica.

Il fatto di venire associato a questa filosofia mi onora, ma non mi rende superbo. Perché l’oggetto della premiazione non è una persona o quello che da sé, in maniera solitaria, avrebbe fatto. Non è merito di uno solo, ma di una legione di uomini e di donne, di giovani e di anziani, di movimenti, di organizzazioni e di organismi sociali, che operano – potremmo dire – sotto l’imperativo categorico kantiano: cercare per tutti quello che desidereremmo che tutti facessero a tutti.

Atteggiamento che direi rivoluzionario, considerando l’estensione e la profondità della crisi che viviamo, crisi di civiltà, di paradigma, in fondo la più grave crisi etica. È il fatto di non lasciarsi guidare da principi universali (in quanto fondamentali), ma da fini meramente individualisti e utilitaristi che ha disumanizzato l’essere umano e lo ha condotto a corrompere la natura. Stiamo sotto il giogo di un inedito relativismo di valori e punti di riferimento dell’esistenza umana, una perdita collettiva del senso della vita, della società, dell’umanità. Realmente, senza esagerazioni, non siamo lontani da uno stato di anomia e di barbarie.

Verso un ecosocialismo

Come e perché siamo arrivati a questo punto? Dobbiamo avere il coraggio di rispondere e non temere la risposta.

Il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2007/2008, del Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) rivela: il 20% più ricco del mondo assorbe l’82,4% di tutte le ricchezze del pianeta a fronte del 20% più povero che deve accontentarsi appena dell’1,6%. Questa macchina di produzione di disuguaglianza non si sostiene più politicamente, né si accetta eticamente.

È evidente che la sua radice affonda nel sistema dell’eco-nomia di libero mercato autoregolato e assoluto - il cosiddetto neoliberismo con la sua globalizzazione mercantile - eretto sul dogma del massimo profitto a qualunque costo, anche al costo della malattia e della morte di milioni di esseri umani (come avviene in Africa con l’Aids, come minaccia di avvenire con l’Influenza A). Questa pretesa a-etica non si arresta di fronte alla dannazione dei simili. Ma i limiti della natura, l’esaurimento delle risorse naturali e il riscaldamento globale causato da questo modello di civiltà si incaricano di offrire all’umanità un’occasione, forse l’ultima, per rivedere questo sistema di morte e reinstaurare relazioni libere e solidali con tutte le forme di vita. Come dice il mio maestro e fratello Leonardo Boff,

“la nuova era o sarà l’era dell’etica o non sarà”.

Questo il compito a cui tale premiazione ci convoca. Se le alternative storiche al capitalismo si sono rivelate frustranti, riproducendo la dominazione umana e la devastazione della natura, si tratta, apprendendo dall’esperienza storica, di reinventare il nostro modo di vita sulla terra.

Credo fermamente che una società internazionale giusta, sostenibile e pacifica, che viva e consenta di vivere, sia possibile solo in una prospettiva ecosocialista. Un modello di produzione ecologico e un accesso solidale ai beni necessari, in condizioni socialiste, sono ciò che ci condurrà al superamento dell’attuale crisi. Credo che l’Europa, malgrado le contraddizioni del colonialismo, per la sua tradizione di democrazia e di rispetto dei diritti umani, abbia in tutto questo un ruolo importante.

Credo anche che i popoli originari, sopravvissuti alla co-lonizzazione e in resistenza, e le comunità impoverite del Sud e di tutto il mondo abbiano un enorme contributo da dare. Perché nutrono il desiderio di cambiamento e conservano pratiche tradizionali di relazione con la natura e tra di essi, mostrando i più nitidi segnali di interazione rispettosa e solidale.

Cittadini del mondo

È per questo che intendo e accetto il Premio “Cittadino del Mondo” della Fondazione Kant: perché nella mia persona voi e io vediamo tutti coloro che incarnano questa utopia, ideale di vita e impegno storico. Concretamente, siamo Cittadini del Mondo tutti noi che ci uniamo nella difesa del “São Francisco – terra e acqua, fiume e popolo”, ci mobilitiamo attorno ad un modello di vita comunitaria nell’impo-verito Semiarido brasiliano, ci dedichiamo a riscattare la di-gnità dei poveri esigendo con loro, attivamente e pacificamente, la giustizia e il diritto, giustizia e diritto che dovrebbero esistere universalmente.

Ho cercato questi Cittadini del Mondo nella mia traiettoria di vita degli ultimi 40 anni, da quando, rispondendo alla chiamata di Gesù ad uno stile di vita proposto e testimoniato da Francesco di Assisi, lasciai il ricco Sudest del Brasile per l’impoverito Nordest. Li ho trovati nelle comunità e nei popoli impoveriti e in resistenza del sertão semiarido del fiume São Francisco.

Ho compreso che i Cittadini del Mondo qui premiati sono i poveri di questa regione, con cui ho imparato, più che insegnarle, la dignità del lavoro, la gioia della condivisione anche nella più grande povertà, la cura dei doni della terra, delle acque, delle foreste e degli animali, il diritto alle condizioni materiali e immateriali imprescindibili a una vita in abbondanza e in pace. Per esempio, i ribeirinhos (popoli tradizionali ai margini dei fiumi, ndt) in lotta per il fiume e per i propri diritti che abbiamo incontrato tra il 1993 e il 1994 peregrinando per un anno per le sponde dei quasi 3 mila chilometri del terzo maggiore fiume del Brasile. O gli abitanti del Semiarido che, malgrado gli abusi e la corruzione, imparano e insegnano a convivere con il clima, in condizioni ambientali avverse.

I Cittadini del Mondo premiati dalla Fondazione Kant sono anche le innumerevoli persone e organizzazioni, molte delle quali qui in Germania, che hanno espresso solidarietà alle iniziative di digiuno e di preghiera che abbiamo intrapreso, nel 2005 e nel 2007, contro il Progetto di Trasposizione delle acque del fiume São Francisco. Hanno compreso il nostro gesto: tale progetto riassume la fallacia del sistema, poiché in nome dei poveri e assetati intende creare sicurezza idrica per grandi imprese private di produzione ed esportazione di prodotti ad alto consumo d’acqua e socialmente dannosi, come la canna da zucchero per l’etanolo.
È per me sempre motivo di angoscia questa domanda: perché dobbiamo lottare contro quando abbiamo molte più cose a favore delle quali lottare? Ma, se è vero che “un fiume è come uno specchio che riflette i valori di una società”, la nostra non vale quello che beve e mangia...

Si resiste all’evidenza della fallacia di questo modello. In Brasile, con tante benedizioni della natura, potenziale straordinario per servire il popolo, l’umanità e il pianeta in questo momento difficile, la crisi economica e quella ecologica sono state affrontate persino entusiasticamente come opportunità di lucro: una posizione cieca, meschina e irresponsabile. L’attuale governo del presidente Lula, frustrando le enormi aspettative della maggioranza che lo ha eletto, si presta a sussidiare la riproduzione del modello fallito. Il Pac, il Programma di Accelerazione della Crescita (di circa 178 miliardi di euro) dà la priorità a opere di infrastruttura per la crescita economica a qualunque costo, fino a venir meno al rispetto della legge, dei popoli tradizionali, delle istituzioni dello Stato.

Non c’è più posto, in Brasile come in ogni altro luogo, per una crescita illimitata e ossessiva. È urgente trasformare il nostro modo di produzione e i nostri modelli di consumo, assumendo come criterio quello della destinazione universale dei beni fondamentali. Dobbiamo apprendere a “vivere di più con meno”. Per far fronte all’emergenza, dobbiamo ampliare iniziative come la tassazione delle attività distruttive, del capitale speculativo e dei grandi profitti, e l’uso di tali risorse in programmi di prevenzione dei disastri ecologici e in appoggio alle vittime della fame, della sete, delle malattie e dei cambiamenti climatici.

da: Adista

lunedì 27 luglio 2009

DECODIFICAZIONE DELL'INFORMAZIONE

Ad ogni guerra, colpo di stato, aggressione condotta dall'Occidente, i grandi media applicano cinque “regole della propaganda di guerra”. Usate voi stessi questa griglia di lettura durante i prossimi conflitti, sarete colpiti di ritrovarle ogni volta: 1. Nascondere la Storia. 2. Nascondere gli interessi economici. 3. Demonizzare l'avversario. 4. Discolpare i nostri governi e i loro protetti. 5. Monopolizzare l'informazione, escludere il vero dibattito.



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Applicazione al caso dell'Honduras nel luglio 2009...
1. Nascondere la Storia. L'Honduras è l'esempio perfetto della “repubblica della banane” nelle mani statunitensi. Dipendenza e saccheggio coloniale hanno portato a un enorme abisso tra ricchi e poveri; secondo l'ONU, 77% della popolazione sarebbe povera. L'esercito honduregno è stato formato e guidato -fin nei peggiori crimini- dal Pentagono. L'ambasciatore statunitense John Negroponte (1981-1985) era soprannominato “il viceré dell'Honduras”.
2. Nascondere gli interessi economici. Oggi, le multinazionali statunitensi (banane Chiquita, caffè, petrolio, big pharma...) vogliono impedire a questo paese di ottenere l'indipendenza economica e politica. L'America del Sud si è unita e si dirige a sinistra, e Washington vuole impedire all'America Centrale di prendere la stessa strada.
3. Demonizzare l'avversario. I media hanno accusato il presidente Zelaya di volersi far rieleggere per preparare una dittatura. Silenzio sui progetti sociali: aumento del salario minimo, lotta all'ipersfruttamento nelle fabbriche-inferno delle ditte statunitensi, diminuzione dei prezzi dei medicinali, aiuto ai contadini oppressi. Silenzio sul suo rifiuto di coprire gli atti terroristici made in USA. Silenzio sull'impressionante resistenza popolare.
4. Discolpare i nostri governi e i loro protetti. Viene nascosto il finanziamento del golpe da parte della CIA. Obama è presentato come neutrale, quando in realtà rifiutava di incontrare e sostenere il presidente Zelaya. Se avesse applicato la legge e soppresso l'aiuto statunitense all'Honduras, il colpo di stato sarebbe stato fermato in fretta. Le Monde e gli altri media hanno discolpato la dittatura militare parlando di “conflitto tra poteri”. Le immagini di repressione cruenta non vengono mostrate al pubblico. Insomma, una contrapposizione sorprendente tra la demonizzazione dell'Iran e la discrezione sul colpo di stato in Honduras “made in CIA”.
5. Monopolizzare l'informazione, escludere il vero dibattito. La parola è riservata alle fonti e agli esperti “accettabili” per il sistema. Qualsiasi analisi critica sull'informazione è censurata. In questo modo, i nostri media impediscono un vero dibattito sul ruolo delle multinazionali, degli USA e dell'UE nel sottosviluppo dell'America Latina. In Honduras, i manifestanti gridano “TeleSur! TeleSur!” per salutare l'unica televisione che li informa correttamente.
Michel Collon
Fonte: /www.michelcollon.info
Link: http://www.michelcollon.info/index.php?view=article&catid=1&id=2181&option=com_content&Itemid=2
6.06.2009
Traduzione di MARINA GERENZANI per www.comedonchisciotte.org

domenica 26 luglio 2009

CHIQUITA 10 E LODE IN.....

Quando i militari Honduregni hanno abbattuto il governo democraticamente eletto di Manuel Zelaya 2 settimane orsono, i vertici della multinazionale delle banane "Chiquita" hanno probabilmente tirato un sospiro di sollievo.

All'inizio di quest'anno la grande compagnia ortofrutticola si è unita alla "Dole" nel criticare il governo di Tegucigalpa quando quest'ultimo ha alzato la paga base del 60%. La Chiquita ha fatto presente che la nuova regolamentazione statale avrebbe drasticamente abbassato i loro profitti, imponendo alla ditta di sostenere costi maggiori di quelli ad esempio del Costarica: 0.20$ in piu` per gli ananas e 0.10$ per le banane, per ogni 15 Kg circa, tanto per essere precisi. Chiquita si è dunque lamentata della possibile perdita di milioni di dollari se fosse passata la riforma sindacale di Zelaya, considerando che la produzione complessiva si aggira sugli 8 milioni di quintali di ananas e sui 22 milioni di quintali di banane all'anno.
Nella foto: Una fase della lavorazione della banane in Honduras
Quando il decreto sulla paga minima Ë stato approvato, la Chiquita ha cercato aiuto e si Ë appellata al "Honduras National Business Council" (COHEP in spagnolo) e il COHEP si è mostrato contrario tanto quanto la Chiquita.
AmÌlcar Bulnes, il presidente del gruppo ha argomentato che l'aumento della retribuzione base avrebbe comportato inevitabilmente la perdita di posti di lavoro e l'aumento della disoccupazione. COHEP riunisce in Honduras circa 60 associazioni di industriali e camere di commercio, con una vasta ramificazione in ogni settore dell'economia. Secondo lo stesso sito web della organizzazione la COHEP sarebbe il braccio tecnico e politico del settore privato in Honduras, favorirebbe gli accordi commerciali e fornirebbe "supporto critico" al sistema democratico locale.
Secondo la COHEP, la comunita' internazionale non dovrebbe imporre sanzioni economiche al governo golpista di Tegucigalpa, perchè questo peggiorerebbe i gravi problemi politici del paese. Nel suo "nuovo" ruolo di portavoce del ceto povero honduregno, la COHEP dichiara che l'Honduras ha gia' sofferto abbastanza per i terremoti, le piogge torrenziali e le crisi economica globale.
Prima di punire il nuovo regime, insomma, l' ONU e l'Organizzazione degli Stati Americani dovrebbero mandare osservatori in Honduras per quantificare il danno che le sanzioni porterebbero al 70% degli honduregni che vivono sotto la soglia di povertà. Bulnes nel frattempo ha espresso il suo supporto per il regime golpista di Roberto Micheletti e rileva come le condizioni politiche del paese non siano favorevoli ad un ritorno del presidente legittimo Zelaya.

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Nella foto: Una fase della lavorazione della banane in Honduras

Chiquita: Da Arbenz al "Bananagate"
Non Ë sorprendente che la Chiquita cerchi alleanze tra le le forze conservatrici dell'Honduras. Colsiba, il sindacato degli operai agricoli honduregni, afferma che la grande corporation americana non abbia nel passato adempiuto all'obbligo di fornire abbigliamento di sicurezza ai lavoratori e abbia puntato i piedi quando costretta a firmare accordi collettivi di lavoro in tutto il centro America.
Cosliba paragona le infernali condizioni di lavoro nelle piantagioni Chiquita a quelle dei campi di concentramento. Un paragone provocatorio che potrebbe contenere degli elementi di verit‡. Lavorando dalle 6.30 del mattino alle 7.00 di sera, le mani degli operai bruciano dentro i guanti di gomma. Alcuni di loro hanno solo 14 anni. Alcuni lavoratori hanno addirittura fatto causa per danni alla multinazionale americana per averli esposti agli effetti del DBCP, un pericoloso pesticida che puo' provocare sterilità, cancro e malformazioni fetali. La Chiquita, gia' conosciuta come "United Fruit Company and United Brands" ha avuto una lunga e poco chiara storia politica nel centro America. Guidata da Sam "Banana Man" Zemurray, la United Fruit si è lanciata nel mercato della frutta tropicale all'inizio del XX secolo. Zemurray una volta ebbe a dire in una frase rimasta celebre: "In Honduras, un mulo costa più di un membro del parlamento." Nel 1920 la United Fruit controllava 650.000 acri della migliore terra dell'Honduras e quasi un quarto della terra arabile della nazione. Inoltre la compagnia controllava importanti strade e autostrade.
In Honduras le compagnie ortofrutticole emanano la loro influenza quasi in ogni settore della vita politica e militare e per la loro strategia "tentacolare" sono state definite delle autentiche "piovre". Coloro che non avevano un atteggiamento compiacente venivano a volte ritrovati a faccia in giù nei campi.
Nel 1904 l'umorista O.Henry coniò il termine "Repubblica delle Banane" proprio per sottolineare il comportamento della United Fruits in Honduras. Nel Guatemala la United Fruit supportò il golpe, spalleggiato dalla CIA, attuato ai danni del presidente Jacobo Arbenz, un riformatore che aveva osato portare avanti un pacchetto di riforme agrarie. La cacciata di Arbenz portò a un trentennio di guerra civile nel Guatemala. Nel 1961 la United Fruit inoltre prestò le proprie navi per il tentativo di sbarco della CIA nella Baia dei Porci a Cuba.
Nel 1972 la United Fruit (ormai United Brands) appoggiò l'ascesa al potere del generale honduregno Oswaldo Lòpez Arellano. Il dittatore comunque fu costretto alle dimissioni dopo il noto scandalo "Bananagate", che mise in luce i legami di corruzione tra la corporation e il presidente Arellano.
Una corte federale accusò la United brands di avere fornito illegalmente 1.25 milioni di dollari con la promessa di altri 1.25 milioni se fossero state abbassate le tasse sull'export di frutta. Durante il Bananagate il presidente della "United" cadde da un grattacielo di New York in quello che fu definito un "suicidio".
Gli Anni di Clinton e la Colombia
La United entrò in affari anche in Colombia e nel 1928 3.000 lavoratori iniziarono uno sciopero per chiedere migliori retribuzioni e condizioni di lavoro. All'inizio la compagnia si rifiutò di trattare e solo successivamente acconsentì ad alcune rivendicazioni minori, bollando le altre richieste come "illegali" o "impossibili". Quando gli scioperanti rifiutarono di disperdersi i militari spararono sugli operai provocando delle vittime.
Magari penserete che la compagnia abbia riconsiderato il suo atteggiamento sindacale dopo questi fatti, ma già nel 1990 la compagnia strinse delle alleanze con gruppi paramilitari della estrema destra. Chiquita si spinse a pagare più di un milione di dollari il personale, sostenendo di averlo fatto solo per ottenere servizi di protezione.
Nel 2007 Chiquita sborsò 25 milioni di dollari per regolare l'inchiesta del Dipartimento di Giustizia Americano su quei pagamenti. La Chiquita ha così avuto l'onore di essere la prima compagnia accusata di stringere accordi finanziari con una organizzazione terroristica.
In un processo intentato contro la Chiquita, le vittime della violenza paramilitare affermarono che l'azienda aveva fomentato reati gravissimi come il terrorismo, i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità. Un avvocato della parte civile affermò che le relazioni della Chiquita con i paramilitari "coinvolgevano quasi ogni apetto della vendita e della distribuzione delle banane grazie ad un autentico regno del terrore".
Tornato a Wahington Charles Lindner, presidente della Chiquita, si interessò a migliorare i suoi rapporti con la Casa Bianca. Lindner era stato un importante sostenitore del Partito Repubblicano ma saltò dall'altra parte e cominciò a finanziare la campagna di Bill Clinton e dei Democratici. Clinton ripagò Lindner diventando un accanito sostenitore del governo di Andreas Pastrana, responsabile della proliferazione degli squadroni della morte di estrema destra. In quegli anni gli USA stavano seguendo una politica di libero commercio in America Latina, una strategia portata avanti dal un vecchio amico d'infanzia di Clinton, Thomas "Mack" McLarty. Nella Casa Bianca McLarty lavorarava come inviato speciale in America Latina: si tratta di un personaggio dal profilo interessante su cui torneremo a breve.
La Holder-Chiquita "Connection"
Considerando la politica di alleanze sottobanco della Chiquita in America Centrale e in Colombia, non appare sorprendente che la compagnia abbia in seguito cercato l'appoggio del COHEP in Honduras. In aggiunta al lavoro di lobbing locale, Chiquita non trascurò neppure di stringere forti relazioni con importanti uffici legali di Washington. Secondo il "Center for Responsive Politics", la Chiquita ha pagato oltre 70.000 dollari in finanziamenti alla Covington e Burling negli ultimi tre anni.
La Covington è una importante azienda che fornisce consulenza a svariate corporation multinazionali. Eric Holder, l'attuale procuratore generale, assistente per la campagna di Obama ed ex vice procuratore generale sotto Bill Clinton, ha difeso la Chiquita come capo dei consulenti nella causa intentatale dal Dipartimento di Giustizia. Dal suo ufficio nell'elegante quartier generale della Covington a Manhattan, Holder ascoltò Fernando Aguirre, presidente della Chiquita, per una colloquio di sessanta minuti sugli squadroni della morte colombiani.
Holder apprese che la compagnia era stata accusata di "collusione con una organizzazione considerata ufficialmente terroristica". L'avvocato che già percepiva un sostanzioso salario dalla Covington (oltre 2 milioni di dollari) negoziò una transazione bonaria in cui la Chiquita pagò soltanto 25 milioni di dollari in 5 anni. Scandalosamente nessuno dei 6 dirigenti della compagnia che avevano approvato i finanziamenti fu mai arrestato.
Il Curioso Caso della Covington
Guardando un poco più in profondità scoprirete che non solo la Covington rappresenta la Chiquita, ma si fa carico di spingere il governo verso una politica aspramente conservatrice in America Latina. Covington ha cercato e ottenuto una alleanza strategica con Kissinger (Chile, 1973) e con la "McLarty e Associati" (lo stesso "Mack" McLarty dell'era Clinton), affermato studio di consulenza strategica.
Dal 1974 al 1981 John Bolton lavorò come associato alla Covington. Come ambasciatore degli USA sotto George Bush, Bolton fu un duro avversario della sinistra in America Latina, in particolare di Hugo Chavez. Inoltre John Negroponte è da poco diventato vicepresidente della Covington. Negroponte Ë un ex Vice Segretario di Stato, direttore della "National Intelligence" ["N.I.S.", ndt] e rappresentante degli USA alle Nazioni Unite.
Come ambasciatore in Honduras dal 1981 al 1985, Negroponte ebbe un ruolo chiave nell'assistere i ribelli Contras, spalleggiati dagli USA, nel tentativo di abbattere il regime Sandinista in Nicaragua. Gruppi per la difesa dei diritti umani hanno duramente criticato Negroponte per avere ignorato le violazioni dei diritti umani compiute in Honduras dagli squadroni della morte, terroristi sostenuti e parzialmente addestrati dalla CIA. Inoltre quando Negroponte servì come ambasciatore nella capitale Tegucigalpa, il suo ufficio divenne uno dei centri nevralgici della CIA in America Latina, grazie ad un cospicuo aumento degli addetti.
Seppure non vi siano evidenti legami tra la Chiquita e il recente colpo di stato in Honduras, esiste un sospetta confluenza di personaggi ambigui e pezzi grossi della politica, tale da far sperare in nuove e più accurate indagini. Dalla COHEP alla Covington a Holder a Negroponte a McLarty, la Chiquita ha sempre cercato le sue amicizie nelle alte sfere, amicizie che non hanno alcuna simpatia per il progetto politico di Zelaya a Tegucigalpa.
Nikolas Kozloff (senorchichero.blogspot.com), è autore di: "Revolution South America and the Rise of the New Left" (Palgrave-Macmillan, 2008)
NIKOLAS KOZLOFF
Fonte: www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/kozloff07172009.html
17/19.07.2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SEBADIMA

sabato 25 luglio 2009

DONNE ALL’OPERA PER RIDURRE LA VIOLENZA NELLE FAVELAS

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Il contrasto fra ricchi e poveri

Per combattere la criminalità è necessario comprenderne le cause. Considerando che i poveri in media in America latina sono 3 o 4 volte di più dei ricchi, la delinquenza non deriverà forse dal grosso divario fra ricchi e poveri? Succede allora che chi possiede di meno sottrae illecitamente al ricco. Da un lato è vero che il sistema, così come è architettato, non dà la possibilità a molti poveri di uscire dal proprio stato di miseria, dall’altro è vero che uscirne dipende anche molto dalla volontà e tenacia del singolo. I furti e le rapine derivano sicuramente anche da un sistema di valori in vigore nella società, per cui la felicità si raggiunge solo attraverso il consumo di beni. Il governo di Lula ha tentato di sconfiggere la delinquenza istruendo le donne che vivono nelle ‘favelas’. Sono state scelte le donne per la loro sensibilità, la loro capacità di ascolto e la loro capacità di farsi ascoltate senza imporsi. Le donne hanno il compito, secondo il programma, di individuare i giovani a rischio-criminalità e di portarli sulla buona strada offrendogli la possibilità di seguire corsi formativi tecnici.

SAN PAOLO – In una città con oltre 6 milioni di persone, dove circa 1,5 milioni vivono nelle ‘favelas’, la violenza e il narcotraffico è all’ordine del giorno. E’ per questo che il governo brasiliano ha creato un piano conosciuto come ‘Territori di Pace’ che coinvolge 2.500 donne responsabili della prevenzione dei conflitti locali senza l’uso della violenza. Il piano, dotato di oltre 6 miliardi di dollari, è stato lanciato alla fine di 2008 dal governo di Lula e adesso si iniziano a vedere i primi risultati.

“Ci sono riprese per tutto il tempo, durante le ore di scuola, quando si va al lavoro,…in questa guerra tra trafficanti e polizia, purtroppo, le persone sono quelle che subiscono le conseguenze e questo si riflette nella nostra vita”, afferma Alessandra Da Cunha, una delle donne che partecipa in questo progetto. Nella pratica la loro funzione è quella di rilevare giovani in rischio e portarli nei programmi per lo sviluppo professionale. L’obiettivo è sviluppare una cultura di pace attraverso un gruppo di donne. Secondo quanto assicura Rita Lima, coordinatrice di questo programma “l’obiettivo è quello di ridurre l’insicurezza nella zona attraverso i cittadini e non attraverso la repressione della polizia”.

“La pace in un territorio dove c’è la violenza è solo possibile se è nata dai propri abitanti”, afferma Lima. Le donne sono state selezionate e formate e ricevono un piccolo stipendio di 80 euro al mese. “Questo programma è una vera e propria rivoluzione per migliorare la sicurezza delle baraccopoli” disse Lula durante la presentazione a dicembre 2008. ‘Territori per la Pace’ è parte di un piano di 3.000 milioni di euro lanciato nel 2007 dal ministero della Giustizia, con l’obiettivo di lottare contro la criminalità.

Sergio Santos, residente in uno dei quartieri più colpiti dalla droga e dalla delinquenza ha assistito ai primi risultati del progetto. “Le strade sono asfaltate, sono state costruite nuove scuole, insomma, la tranquillità è tornata”. Secondo i dati ufficiali, in Brasile ci sono circa 45.000 omicidi l’anno.

www.meoevoli.eu

venerdì 24 luglio 2009

SALVARE L'AFRICA PUÒ ESSERE UN BUON AFFARE PER IL MERCATO

Prendete una carta geografica sulla quale siano rappresentate l’Europa e l’Africa e rovesciatela. Con l’Africa in alto e l’Europa in basso, i due continenti acquistano un profilo assai poco familiare: la sterminata massa africana sembra quasi schiacciare un’Europa striminzita. Questo rovesciamento non è una stranezza ma il tentativo di uscire dalla nostra gabbia concettuale che, quasi «naturalmente», colloca l’Europa in alto e l’Africa in basso.


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Con la carta girata così, è più facile rendersi conto di che cosa significa che gli africani siano circa novecento milioni e diventeranno quasi due miliardi nel giro di qualche decennio, mentre gli europei rimarranno all’incirca cinquecento milioni. A questo punto non è neppure necessario un (auspicabilissimo) senso di solidarietà umana per concludere che non è nell’interesse dell’Europa ignorare un vicino di casa così grosso, così giovane, così privo di tutto. Se agli africani viene negata la prospettiva di raggiungere un livello di vita ragionevole, la «fortezza Europa» con la sua vecchia popolazione e la sua antica ricchezza non può resistere all’onda d’urto di un’Africa giovane, povera e disperata. Molti lettori saranno sicuramente d’accordo ma si chiederanno che cosa è possibile fare. Il pensiero economico dell’ultimo mezzo secolo ha messo a punto due ricette, spesso considerate, probabilmente a torto, alternative.
La prima va sotto il nome di «trade» (commercio), la seconda sotto il nome di «aid» (aiuto). La ricetta commerciale richiede l’abolizione delle barriere doganali e in questo Europa e Stati Uniti hanno mostrato una buona dose d’ipocrisia. Apparentemente il commercio internazionale è molto più libero perché i dazi doganali sono diminuiti; i dazi, però, sono spesso stati sostituiti da altre, forse più impenetrabili, barriere, in particolare da sussidi ai produttori. Il sussidio americano a circa 150 mila coltivatori di cotone consente a questi ultimi di praticare, a spese dei contribuenti, prezzi così bassi da mettere fuori mercato, e, in pratica, condannare alla povertà, milioni di produttori africani di cotone. Ancora: è molto facile per gli africani vendere in Europa e in America il loro caffè verde e il loro cacao, assai meno facile – per una serie di dazi specifici e di normative tecniche – vendere il caffè tostato e il cioccolato. L’apertura commerciale ai Paesi poveri ha un costo per l’agricoltura dei Paesi ricchi. Se importati liberamente, vino sudafricano, riso egiziano e olio d’oliva magrebino, a esempio, con i loro bassi prezzi riducono lo spazio per gli analoghi prodotti dell’agricoltura europea. Gli agricoltori europei vanno sostenuti non perché possano abbassare i prezzi ma perché diversifichino la loro produzione. Nel lungo periodo, gli africani, diventati meno poveri, «ripagheranno» acquistando una maggiore quantità di prodotti europei. Anche la seconda ricetta, quella degli aiuti, dev’essere aggiornata. Troppo spesso europei e americani sono andati in Africa pensando di di avere in tasca la formula sicura della crescita economica. Questa forma di colonialismo culturale ha fatto soprattutto disastri ed è necessaria un’iniezione d’umiltà: abbiamo relativamente poco da insegnare e molto da imparare assieme agli africani. Occorre quindi un «mix» di nuove aperture commerciali e nuove forme di aiuti. Se l’Africa raggiungerà così un ragionevole livello di benessere, gli imprenditori e i consumatori africani non saranno semplicemente la copia degli europei o degli americani.
Come mostrano le esperienze della Cina e dell’India, daranno origine a varianti autonome del sistema attuale. Aspettiamoci perciò una variante africana che potrebbe essere legata a una particolare dimensione familiare anziché all’individualismo esasperato. Come ha scritto Visay Mahajan, professore di Business all’Università del Texas in Africa Rising, un libro che finalmente fornisce una visione positiva di questo continente, l’Africa è ben di più di un’occasione per aiuti umanitari, è un’opportunità di mercato. Ma il mercato globale con novecento milioni di africani in più sarà un mercato diverso da quello di oggi e – possiamo sommessamente sperare – anche un mercato migliore.
mario.deaglio@unito.it


MARIO DEAGLIO

giovedì 23 luglio 2009

LA CARICATURA DELL' HONDURAS

Tegucigalpa, una sera alla fine di giugno 2009, che presto sarà solo un brutto ricordo nella giungla della storia

di Allan McDonald*

Fare caricature è un mestiere molto simile, nella percezione dei lettori, alle piroette di un arlecchino. Normalmente, noi che ci dedichiamo a questo isolato e inuitle mestiere, incontriamo ogni giorno gente che ti chiede il favore di un autografo sulle vignette per farli sorridere anche solo un momento, o di improvvissare un Garfield per i figli, che non hanno idea di chi sei, né di cosa fai. Per questo preferisco non uscire molto per strada, perché la mia generosità può senza ombra di dubbio erodere i voli limitati della mia cratività e farmi perdere la prospettiva del compromesso che quotidianamente devo fare con la realtà e con la condizione umana.

In Honduras occuparsi di vignette politiche è raccontare pettegolezzi.
Il nostro paese è surrealista e già lo era prima di apparire su portali e schermi al plasma di tutto il mondo. Ma il bello è che ci è voluta questa esperienza cruenta perché si sapesse che un occhio iniettato di sangue può esserci anche nell'atto di un gendarme. E che rivolgersi al popolo per chiedergli se appoggia qualcosa o no in modo da scrivere una pagina di cambiamenti può provocare esilio, detenzioni, morti, repressione, isolamento, perché nelle loro menti quadrate di petulanza occidentale, il popolo non è preparato a pensare, e la democrazia non può commettere l'assurda irresponsabilità di concedergli uno spazio di decisione. O che per esempio molti honduregni stanno difendendo la costituzione nelle strade con la loro indignazione e il loro sangue versato nei viali pavimentati di verde olivo, mentre nei televisori nazionali appaiono le lacrime nere di rimmel scolorito di Verónica Castro nelle telenovelas messicane. Perché è molto più interessante il dramma di celluloide che il dramma umano. E che alcuni intellettuali bellocci trascorrono le ore discutendo di tragedia greca, senza considerare la tragedia nazionale, e i vecchi, pensionati di nostalgia che perdono gli ultimi giorni giocando d‘azzardo con le carte fregandosene che la patria sia perduta, trafitta da un re di cuori. E i giovani light che passeggiano nei centri commerciali, tristi per la morte del re bianco e nero del pop.

Guardi il paese, ti inoltri nel paese e come Henry Bergson senti che ti ingolfi in una imbarcazione allucinante, senti che non distingui la combinazione difettosa nella geometria architettonica dei disegnatori borghesi tra un edificio di una catena alberghiera di prestigio internazionale e "l'altro da sé" (otredad) configurato con un tratto ineguagliabile di miseria, un landrone dove si nascondono tutte le porcherie di una società che vede la povertà come un difetto e il povero come un ostacolo urbano. Qui dove la vita è nelle mani della volontà dell'altro e la povertà nel borsellino ignominioso di alcuni ricchi. Questa mappa, fondo di disuguaglianze, è il tema del mio lavoro.L'eterno ritorno di Nietzsche alla disuguaglianza, ritorno della disuguaglianza in una vecchia viuzza di Tegucigalpa, segnata dai graffiti delle giovani generazioni che per la prima volta sanno che il mondo è nelle loro mani e non su google, e l'utopia nel compromesso permanente. Questa benedetta gioventù che si è scagliata contro le stupidità di una vecchia generazione che ci ha trascinati in una ridicola guerra di calcio, colpi di Stato e militari con medaglie come schegge impazzite. E nell'algidità senile, questa pazzia del golpe è come un modo di dire a se stessi che ancora si può giocare la finale di scacchi, proprio mentre la violenza militare ci dà scacco matto.
La volontà di potere, mal assimilata di Schopenahuer come germe dell'attuale pazzia, ma soprattutto una vita e una eterna commedia di personaggi che non si stancano di interpretare sempre il medesimo ruolo di uccelli rapaci.

Per tutto questo la vita ha perso valore e la dignità è un macabro scherzo che solo risiede nello spirito di noi che siamo malati di realtà. La solidarietà mondiale che ho ricevuto mi ha commosso così come l'indifferenza e l'ironia della stampa locale, sempre pronta a denigrare con sotterfugi pur di mascherare quello che è stato un golpe. Sono stato arrestato, che importa se per cinque ore o più, altri compagni sono stati feriti, altri uccisi e la maggioranza messa sotto silenzio con minacce e sequestri. Questo è uno Stato che aggredisce l'individuo, il legittimo bene supremo delle costituzioni borghesi, che a volte ricorre alle armi per ricordarci che siamo solamente persone, e che traccia geometricamente la misura dei nostri silenzi. Tegucigalpa, il vecchio bel bordello, contraddistinto dalla logica superlativa di sopravvivere alla giornata, con ponti pieni di fango a ricordare gli uragani. Le strade sconnesse, gli strilloni, i venditori di vestiti usati che diffidano della logica del libero mercato, i venditori di cd pirata, che gridano che già hanno l'ultimo di Michael Jackson. Questa è la Tegucigalpa coloniale, un ammasso di casette miserabili, una città piena di fantasmi del secolo scorso che vivono aspettando un miracolo per sentirsi capitale, e oggi centro del club degli ultimi gorilla del Ventunesimo secolo. Tegucigalpa dei miei amori, oggi congestionata da marce di ricchi che gonfiano le masse di guardie del corpo e nelle altre strade ragazzi con i loro zaini in spalla combattendo la battaglia della loro vita. Contadini scalzi a petto nudo, ragazze madri che fanno a pugni con militari dalle facce di bambini contadini sfruttati dal sistema, con uniforme e bastone presi in prestito, militari poveri che non sanno che guerra combattono, che mai hanno letto teorie né di sinistra né di destra, la cui unica ideologia è mettersi un casco che li protegga dalle pietre tirate con la forza dalle barricate della resistenza.

Questa è la Tegucigalpa che oggi ritarda i suoi doveri quotidiani per litigare con il fervore cieco di alcuni fanatici che come tigri affamate vedono nel rito del sangue la conferma sadica del loro essere selvaggi.
Hans Arp e Chirico potrebbero ritagliare il quotidiano e fare collage di taxi pieni di taniche di sangue o di ragazzini strappati dalle etnie millenarie per sparare l'odio che non poterono scongiurare con la vendetta di secoli. O una donna che cammina con il lusso di un'attrice e un bambino che urla tra la gonna di seta il prossimo numero della lotteria. Questa è Tegucigalpa, queste le disuguaglianze, questa la tenerezza dell'utopia quotidiana. Questo l'amore per la vita, questa la necessità di cambiamento. Questo lo lesse il nostro presidente del quale quotidianamente si prendevano gioco perché non si comportava con la delicatezza e il savoir faire di un ministro europeo e perché ha promosso riforme che hanno toccato portafogli chiusi ermeticamente. Questo è l'Honduras privato della sua voce, perché nelle strade si permette solo che venga detto che abbiamo un messia con cognome italiano, ma con un cuore appartenente alle peggiori mafie napoletane.

Ero e sarò sempre un povero ragazzo che fa caricature, che non fa male a una mosca, che nessun poltico di Honduras si disturberà a reprimere perché che danno potrebbe fare questa ragnatela spaventosa che ha disegnato? Se disegna meglio mio cugino di quattro anni, diceva questo pomeriggio un giornalista di una radio golpista, ed è vero, perché la mia detenzione "accidentale", è stata condannata da migliaia di persone nel mondo da centinaia di canali televisivi e giornali di decine di paesi nel mondo intero, ma in Honduras è una gran risata ciò che si chiama coscienza. Essere rispettato nel mondo per il tuo lavoro ti dà questa sensazione grigia e totale che uno qua non è indispensabile, come la democrazia che alla fine dei conti è anche lei una caricatura.

Testo raccolto e tradotto da Stella Spinelli

*Allan McDonald è uno dei vignettisti più importanti e famosi d'Honduras. Irriverente e graffiante è uno dei personaggi scomodi che il regime golpista ha tentato di azzittire. Domenica notte è stato prelevato dalla sua casa dai militari. Con lui la figlia di due anni, Abril. E' stato rilasciato grazie alla pressione internazionale. Questo documento lo ha inviato a Peacereporter pochi istanti prima di partire per il Costarica.

mercoledì 22 luglio 2009

IL TAG CLOUD DEL PD

Al Foglio hanno fatto una cosa interessante.

Hanno trasformato in Tag Cloud tre discorsi di Dario Franceschini, Pierluigi Bersani e Ignazio Marino. Si tratta di quelle nuvole di parole nelle quali quella con la maggior frequenza è scritta più grande che una volta si usava nei blog per capire con un colpo d’occhio di cosa si occupassero. L'analisi dei discorsi di candidatura di Pierluigi Bersani e Dario Franceschini e il manifesto di Ignazio Marino. Grazie a un algoritmo hanno calcolato la frequenza delle parole nei discorsi dei tre candidati alla segreteria del Pd. Più una parola è stata ripetuta, più è grande. Qui i risultati.

Il discorso di Bersani del 1 luglio 2009:

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Le parole di Franceschini il 16 luglio:

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Ignazio Marino:

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http://www.ilfoglio.it/gallerie/50

PS: Avviso, questi non dicono “sinistra” neanche se gli chiedete dov’è il bagno. E' proprio un partito moribondo.

PD

martedì 21 luglio 2009

ECOLOGIA POLITICA

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Lui che amava la natura da levante a ponente
che salvava le lumache e schivava il porcospino
finalmente l'ha rivisto dove sta sotto l'ulivo
l'incazzato nero a biscia e con l'occhio delinquente
L'è una bestia lui mi disse che non è di questo mondo
è maligna dentro dentro e fa male alla natura
m'inciprigna fiori e piante m'avvizzisce la verdura
anche il gatto se la vede mi s'arruffa furibondo
e non è di queste bande, se la tira a padreterno
passa sotto un ulivo che mi muore lì schiantato
ha un sorriso da pirana affamato sempiterno
senza dire ai né bai io gli tiro col pennato
Il Costante detto scienza per icchè lui ne sapeva
disse sempre a mala erba tocca fare mala cera
e'l rimedio al berluscone vale a dire l'appestato
è un bel giro di frullana e il finale col pennato
e vedrai che per incanto fico olivo e castagneto
e financo noce e melo tutto è bello e risanato
quanto poi al berluscone lo s'infratta nel roveto
così mangiano il gruccione e anche l'astore affamato

(Poesia pubblicata originalmente su "Il Manifesto" del 17 giugno 2009.)

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Ivan Della Mea, all'anagrafe Luigi (Lucca, 16 ottobre 1940 - Milano, 14 giugno 2009), è stato un cantautore e scrittore italiano.

http://www.sagarana.net/

lunedì 20 luglio 2009

L’IMPERO SUDAFRICANO

Il Sudafrica del dopo-aparthaid si propone come nuovo polo geopolitico del continente. Le gelosie degli altri africani. I punti deboli della nuova potenza africana. Nella carta di LImes gli assi di influenza di Pretoria, gli interventi di peacekeeping e le aree "iimperiali" contestate.

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"[...] È solo da un decennio che in Africa si stanno affermando soggetti geopolitici autoctoni, dotati degli attributi di vere e proprie potenze regionali. Uno su tutti: il Sudafrica. Accanto ai poli nordafricani (Algeria, Egitto), alla Nigeria sul ver-sante occidentale e all’Etiopia su quello orientale (se non imploderan-no), alla Repubblica Democratica del Congo e all’Angola nel quadrante centro-meridionale (se si stabilizzeranno), la terra riscattata dall’apartheid aspira a strutturare una sua sfera d’influenza. E a differenza dei concorrenti, è già molto avanti sulla strada che per la prima volta nella storia moderna dovrebbe portare alla nascita di un «impero» africano in Africa ( vedi carta a colori).
Le virgolette significano che non si tratta di una replica dell’imperialismo europeo – anche se qualche africano lo teme, perché continua a considerare i sudafricani come «mezzi bianchi». La Pax Pretoriana si propone soft, fondata sulla stabilizzazione dei territori infestati da conflitti endemici, sull’integrazione economica e sull’ideologia dell’African Renaissance. Slogan vago e fungibile, caro a Mbeki, che lega una categoria europea, primariamente italiana – il Ri-nascimento – all’africanismo. Quasi che per esistere l’Africa debba comunque riferirsi all’Europa. Lo stesso Mbeki ama paragonare la Timbuktu dell’impero Songhai alle contemporanee corti rinascimentali europee.
Nella geopolitica diacronica del leader di Pretoria il recupero del passato africano serve per dotarsi di una storia rispettabile, riscattare un radicato senso d’inferiorità e proiettarsi verso un futuro promettente. Per questo Mbeki esibisce una variopinta cornucopia di glorie africane, dalle piramidi egiziane alle rovine di Cartagine, dalle sculture rupestri di Shona ai bronzi del Benin, a testimoniare un’unica civiltà plurimillenaria. In quanto retorica dell’orgoglio africano e rimodulazione di un panafricanismo rivolto tanto ai popoli del continente quanto ai neri in diaspora, l’African Renaissance è sospettata da alcuni critici di soggiacere al fascino di un razzismo rovesciato. Ma è soprattutto uno strumento di rilegittimazione del Sudafrica nel continente, un supplemento d’anima per il nascente «impero» di Pretoria. Il quale non intende affatto contenersi nell’ambito regionale, tra Limpopo e Congo, Tropico del Capricorno ed Equatore, giacché coltiva aspirazioni continentali.
Fino a proiettarsi sulla scena mondiale come campione africano dell’Ibsa, acronimo che associa India, Brasile e Sudafrica in un «asse del Sud» transoceanico. Per sostenere tanta ambizione il Sudafrica fa soprattutto leva sulla sua economia in espansione, ancora in mano ai bianchi – in base al postulato per cui dopo l’apartheid il potere politico spetta all’African National Congress, a dominanza nera, mentre quello economico resta agli eredi dei colonizzatori (integrati da un’esigua nomenklatura nera di marca Anc). Tanto che i confini dell’area d’influenza sudafricana coincidono grosso modo con quelli della Southern African Develop- ment Community (Sadc), embrione di mercato comune regionale. Ma l’espansione economica della rainbow nation si diffonde fino al Sahara arabo e berbero, al Corno d’Africa e al Golfo di Guinea, ben dentro la sfera d’influenza nigeriana.
Le missioni di peacekeepinge le mediazioni nei conflitti, dal Sudan alle Comore, dalla Sierra Leone al Congo e al Burundi, contribuiscono a tratteggiare un ambizioso perimetro «imperiale». Pur se Mbeki ha cura di enfatizzare il ruolo delle organizzazioni regionali e della stessa Unione Africana, il suo protagonismo ingelosisce le potenze nere, a cominciare dalla Nigeria. L’accusa è che Pretoria agisce da America dell’Africa. E per incentivare un senso di appartenenza nazionale comune a tutti i colori del suo arcobaleno – dai neri d’ogni etnia agli indiani, dai boeri agli inglesi – suscita la xenofobia e pratica politiche migratorie analoghe a quelle dell’apartheid, per frenare l’immigrazione dei diseredati in fuga dalle aree devastate dai conflitti (Grandi Laghi, Nigeria, financo Etiopia).
Per molti sudafricani i neri d’oltre Limpopo sono makwere-kwere, termine xhosa che sta per «trafficanti». Spregiativo che significativamente non si estende agli stranieri bianchi. È possibile che nei prossimi anni Pretoria debba ridimensionare le sue velleità egemoniche. Un paese di appena 47 milioni di abitanti, assai decentrato rispetto al resto del continente, che non ha ancora sciolto decisivi nodi identitari (le «due nazioni», bianca e nera, che Mbeki proclama di voler ricomporre), con una disoccupazione ufficiale al 27%, difficilmente sarà il Piemonte dell’unità africana. E comunque, più che a integrarsi in un unicum, lo spazio africano tende a strutturarsi in blocchi regionali. Periodicamente destrutturati dalle rivalità, dalle guerre e dalle ingerenze neocoloniali. Una tela di Penelope. Rispetto allo scorso secolo, la differenza è che oggi nessuno, nemmeno l’America o la Cina, può considerare il continente nero come un continente impotente. Il mondo dovrà abituarsi a fare i conti con protagonisti africani. Per cominciare, sarà bene imparare a conoscerli."
Citazione da "Appuntamento a Timbuktu"

L'ESSENZIALE È INVISIBILE AGLI OCCHI



DALL’ACCADEMIA DELL’IMMAGINE DELL’AQUILA UNA LEZIONE DI VITA
Grazie a Miss Kappa per la segnalazione

domenica 19 luglio 2009

YARCHAGUMBA, BUSINESS SULL’HIMALAYA

Le scuole si chiudono per due mesi nei distretti occidentali del Dolpo, nelle alti valli del Manang di Darchula e del Rolpa, tutti, compresi, vecchi donne e bambini salgono montagne e colline per raccogliere il magico (e costoso) fungo-larva del Yarchagumba.

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Una muffa-fungo, (Cordyceps sinensis) durante i mesi invernali, fagocita il corpo di una specie di bruco\larva (Thitarode) mummificandolo. La reputazione della Yarchagumba come revitalizzante è vecchia di 1500 anni. Nei villaggi tibetani si fanno fanno infusi nel tè e nelle zuppe per migliorare le prestazioni sessuali, purificare il fegato e rafforzare l’energia vitale.

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Anche in Himachal Pradesh, Uttarakhand, Sikkim and Arunachal Pradesh si trova questa muffa, il cui nome deriva da “estate pianta e inverno insetto”, anche lì utilizzato dalla medicina tradizionale ed esportato in Cina, Giappone e mezzo mondo. Si lasciano una decina di funghi\muffe biancastre in infusione nel chang (orzo o riso fermentato) per un mese e poi si beve la pozione. Risultati: stile quelli del ginseng, un po’ più di tonicità. Molti, anche fra gli espatriati di Kathmandu, ne parlano come una svirgolata di potenza ma a me non è sembrato.

Queste qualità energetiche (vere o presunte) hanno creato un vasto mercato (enormemente cresciuto dal 2001 quando il governo nepalese liberalizzò la raccolta, chiedendo una tassa formale) portando reddito fra i raccoglitori. Intere famiglie salgono fra le montagne (il fungo nasce fra i 3000-5000 metri), costruiscono tendopoli di plastica o si rifugiano nelle grotte. Lassù fa ancora freddo e c’è rischio di valanghe. Per questo i brokers attendono nei villaggi per poi veicolare la muffa bianca verso il Tibet (Cina), Kathmandu e l’occidente. La Yarchagumba inizia ad essere raccolta quando si scioglie la neve da metà giugno. Non è facile trovarla fra l’erba e deve essere poi ripulita con uno spazzolino da denti. Un chilo viene venduto dai raccoglitori per euro 500 e poi rivenduto per il doppio dai brokers, per finire a un costo finito di oltre euro 15.000 per la migliore qualità. Un chilo è composto da circa 4200 funghetti. Ogni cercatore si porta a casa una trentina di euro al giorno, se è fortunato, racconta l’amico Gyathsen che arriva da quei villaggi, una cifra enorme che permette di comprare casa, terra, mandare i figli a studiare. Come sempre accade c’è chi la produce in casa con funghi marci e cerca di rivenderla.

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Si racconta che parte di fondi utilizzati dai maoisti per le armi provenissero dal controllo del commercio della Yarchagumba nelle aree da loro controllate in Rolpa e Dolpo. In Tibet i profitti derivanti dal fungo (nelle poche aree in cui si raccoglei) hanno provocato, nel luglio 2007, scontri fra cercatori a Dabba (Sichuan) con una decina di morti e qualche centinaio di feriti. In Tibet la raccolta è controllata (almeno dove può, dal Governo) e naturalmente limitata. Durante i giochi olimpici diversi atleti utilizzarono il fungo sollevando qualche problema di anti-doping. Poiché il business non conosce frontiere (specie quelle bucate nepalesi) è iniziato un fiorente contrabbando del fungo verso la Cina (dove vi è grande richiesta e poca produzione) con al centro l’antica città mercato tibetana di Taklakot. Qui si commercia di tutto (illegalmente), pelle di animali protetti, muschio di gazzella, droghe varie e anche la Yarchagumba.

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Business crescente e lucroso, tant’è che nello sperduto villaggio di Nar, fra i bellicosi manangi, un gruppo di sette cercatori estranei è stato fatto fuori. Di norma, come in Italia per i cercatori di funghi, si poteva arrivare a qualche bastonata per chi si avventurava a cercare il costoso fungo fuori dalle sue zone. Ma ora con la crescita dei guadagni anche i cittadini (o gli abitanti delle pianure, 2000 solo in quest’area) s’avventurano a cercare fortuna in assenza di opportunità di lavoro e reddito. E’ una lotta per la soppravviveza e, chiaramente, i montanari s’incazzano dalle botte sono passati a metodi più spicci. La polizia ne ha arrestato 63, la conseguenza sarà proteste a non finire nei prossimi giorni.

Chi vive nelle città nepalesi è un po’ allo stremo con un inflazione (ufficiale) del 13% che si concentra sui generi alimentari primari (riso, verdure, zucchero) dove i prezzi sono aumentati nell’ultimo anno di oltre il 30% e un economia sempre più basata sulle rimesse degli emigranti e gli aiuti internazionali. Lo sviluppo del sistema produttivo, delle piccole medie-industrie, dell’agricoltura moderna sono rimaste nei papiri delle organizzazioni internazionali. L’unica politica economica è “si salvi chi può” come è ben rappresentato dall’affaire Yarchagumba nel Manang.

sabato 18 luglio 2009

BAMBÙCICLO

Biciclette costruite con il bambù: ecologiche e funzionali. Ma soprattutto un'occasione di sviluppo e impiego per lo Zambia

Dare lavoro, sviluppare un territorio senza stravolgerne gli equilibri ambientali. Un sogno per molti, che quattro giovani, dalla California e dallo Zambia, stanno cercano di attuare. La loro società si chiama Zambike e costruisce telai per biciclette in bambù.

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I ciclisti occidentali sono costantemente alla ricerca di nuove leghe metalliche, sempre più leggere e sempre più resistenti. La soluzione, però, potrebbe risiedere nel bambù. O almeno questo è quanto sostiene il designer californiano, Craig Calfee, che ne ha testato la resistenza e la capacità di assorbire gli urti. Il prototipo ha dimostrato che il bambù può essere un ottimo materiale per costruire il telaio di una bicicletta, forte e leggero ad un tempo, adatto alle lunghe percorrenze. Così ha messo su un laboratorio ad Accra, in Ghana e ha iniziato a guardarsi intorno per cercare nuovi bambooseros, gli artigiani capaci di piegare le canne di bambù ai loro voleri. Fino a quando la sua strada non ha incrociato quella di Vaughn Spethmann.

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Tutto è incominciato durante uno scambio culturale organizzato dall'università, ricorda Spethmann, quando l'incontro con i coetanei lo ha posto di fronte al problema della disoccupazione in Zambia. Da lì è partita l'idea di creare una società che potesse dare lavoro alla manodopera locale e creare delle professionalità in grado di sviluppare il territorio. Il tutto, possibilmente, senza eccessivi danni per l'ambiente. Il risultato è stato la Zambike, che non produce solo telai per bici da strada e mountain bike, che vengono vendute negli Stati Uniti, ma anche carretti e ambulanze a pedali, già adottate da una decina di cliniche di Lusaka.

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Una sfida vinta quella della Zambike, se si considera la difficoltà di raccogliere il capitale iniziale e gli impedimenti posti dalla burocrazia in Zambia, anche se la società non ha ancora prodotto utili.
"Ma non si è mai trattato solo di biciclette - sostiene Mwewa Chikamba, un altro dei fondatori della società - ciò che vogliamo è formare il nostro personale e premiare la loro abilità. Vogliamo cambiare la loro vita". Come è successo con Divilance Machilika, uno degli impiegati che dalla Zambike ha ottenuto un piccolo prestito. Con quei soldi si è comprato un po' di terra. Conta di costruirci tre case e con i proventi dell'affitto spera di poter intraprendere una attività propria e dare lavoro a sua volta. Invece di chiedere gli interessi sui soldi dati in prestito, la Zambike chiede di dimostrare che sono stati ben investiti e che l'investimento avrà un ritorno sulla società.
Nei dintorni di Lusaka, Benjamin Banda, il responsabile della Zambike, continua ad annaffiare le canne di bambù.

IL CONDOR VOLA SULL’HONDURAS

di Gennaro Carotenuto
Mentre la Resistenza popolare al colpo di Stato in Honduras sta scrivendo la storia del paese e di una regione, il Centroamerica, più indietro rispetto al Sud della Patria Grande, e il presidente legittimo Mel Zelaya, anche per non restare indietro a destra del movimento che sostiene la democrazia chiama all’insurrezione popolare, un’internazionale nera di terroristi, torturatori, assassini, neonazisti, spie, reduci del Plan Condor e della guerra sporca corre in soccorso della dittatura di Roberto Micheletti.


GOLpe


Le linee del complotto in appoggio al golpe sono molteplici, politico-diplomatiche, mediatiche, economiche. In questo articolo evidenziamo alcune presenze che fanno capire come fermare il golpe in Honduras è ancora più indispensabile per impedire che l’epoca più nera della storia dell’America latina possa tornare.
Avevamo già denunciato che uno dei più stretti collaboratori del dittatore di Bergamo alta è Billy Joya Améndola, attivo con il nome di dottor Arrazola come sicario, torturatore e sequestratore di desaparecidos in Honduras, ma anche in Argentina, Cile e elemento di raccordo tra repressori honduregni, argentini e statunitensi nella guerra sporca in Centroamerica negli anni ’80. Non solo Joya Améndola non è il solo assassino sul quale si appoggia direttamente il dittatore Micheletti ma negli ultimi giorni Joya Améndola avrebbe ripreso vecchi contatti soprattutto in Cile negli ambienti dei Carabineros che collaborarono alla repressione e dai quali fu addestrato in tecniche di tortura.


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Sarebbe collegata a tali contatti l’uscita pubblica di Lucia Pinochet, figlia di Augusto, defunto dittatore cileno, incarcerata in patria come tutta la famiglia per innumerevoli furti e malversazioni di fondi pubblici, in aperto appoggio al golpe honduregno. Bertha Oliva, Coordinatrice dei Familiari di detenuti desaparecidos in Honduras (COFADEH), denuncia alcuni dei più sinistri curriculum intorno a Micheletti: Mario Hung Pacheco, sottosegretario alla sicurezza, Nelson Willy Mejía, direttore dell’ufficio immigrazione e stranieri, lo stesso direttore della polizia e molti uomini che controllano telefonia, radio, televisione, e perfino la Commissione per i diritti umani, sarebbero agenti locali della CIA tutti addestrati nella Scuola delle Americhe negli Stati Uniti negli anni ’70 e ’80. Bertha Oliva conferma anche che sono attive nel paese sia organizzazioni legate ai Carabineros cileni che organizzazioni legate ai repressori argentini.
Inoltre molti osservatori denunciano un ruolo attivo nel golpe sia da parte dell’Ambasciatore statunitense Hugo Llorens, sia del sinistro John Negroponte, che è stato sicuramente a Tegucigalpa varie volte tra fine 2008 e inizio 2009 e secondo l’avvocato statunitense-venezuelano Eva Golinger avrebbe coordinato apertamente riunioni con i golpisti.
Tra i personaggi sinistri avvistati in Honduras vi è anche il neonazista e antisemita venezuelano Alejandro Peña Esclusa, colui che pensa che tutti i partiti di destra latinoamericani siano in realtà marxisti camuffati e che solo delle dittature militari generalizzate possono salvare l’America dal comunismo, attivissimo nelle ultime settimane (è stato anche in Perù nella zona del massacro di Bagua) e vecchia conoscenza italiana. Nel marzo 2007 infatti riuscì ad incontrare, facendosi spacciare da Aldo Forbice a Zapping su Radio1Rai, come “capo dell’opposizione moderata venezuelana”, il Cardinale Renato Raffaele Martino e il segretario dell’UDC Lorenzo Cesa. Con lui in Honduras vi sarebbero l’ex organizzatore di squadroni della morte argentino Jorge Monez Ruiz, e poi carapintada (il tentativo di sedizione militare contro il governo di Raúl Alfonsin) ansioso di riprendere i vecchi panni di torturatore. Con loro a completare la delegazione viaggerebbe Hugo Achá Melgar, sedicente direttore della ONG Human Rights Foundation, in realtà copertura per i gruppi terroristi attivi a Santa Cruz in Bolivia per staccare le regioni più ricche del paese.
Il fatto curioso è che tutti questi personaggi che spesso si fanno scudo di finte organizzazioni in difesa dei diritti umani e fanno largo uso della parola “democrazia”, nel paese della United Fruits, si lamentano di presunte ingerenze straniere da parte del governo bolivariano di Caracas.

fonte http://www.gennarocarotenuto.it/



venerdì 17 luglio 2009

DAL BRASILE UNA “LEZIONE” AL MONDO SVILUPPATO

Una lezione che il Brasile ha dato al mondo sviluppato: così il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha definito una legge da lui approvata la scorsa settimana che regolarizzerà decine di migliaia di immigrati e che si muove in senso completamente opposto alla ‘filosofia’ che ha guidato il parlamento italiano all’approvazione negli stessi giorni del cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’ contenete norme restrittive e controverse sull’immigrazione.

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Lula ha parlato nel corso della trasmissione radiofonica ‘A colazione con il presidente’ che tiene ogni settimana e che in questo caso è stata spunto per un confronto tra le politiche in materia di immigrazione del grande paese latino-americano e quelle dei paesi ricchi che sempre più spesso preferiscono alzare barriere piuttosto che affrontare il fenomeno alla radice.

Daremo agli immigrati gli stessi diritti dei cittadini brasilianiha detto Lula ad eccezione del voto e della possibilità di occupare una carica pubblica che restano un’esclusiva dei detentori della nazionalità”. Con questa legge, ha continuato il presidente brasiliano, “diciamo ai migranti che sono nostri fratelli e che si trovano qui per aiutare il Brasile a crescere”.

Lula ha anche annunciato che in occasione del G8 dell’Aquila, che comincia oggi e dove sarà presente, illustrerà ai ‘grandi’ del pianeta “il modo in cui il Brasile tratta gli immigrati”.

La nuova legge consentirà di regolarizzare almeno 50.000 immigrati, secondo fonti ufficiali, fino a 200.000 secondo altre fonti. Essa prevede che gli stranieri arrivati in Brasile prima del 1° Febbraio possano ottenere un permesso di residenza provvisorio che potrà diventare permanente dopo due anni; garantisce inoltre, tra le altre cose, libertà di circolazione, pieno accesso al lavoro remunerato, all’istruzione, alla sanità pubblica e alla giustizia.

Lavoro e dignità – aveva detto Lula al momento della firma del provvedimento – sono la risposta che il Brasile offre agli immigrati di fronte all’intolleranza dei paesi ricchi”.

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