Le coste della Somalia e il Golfo di Aden sono diventati l’eldorado per i nuovi furfanti del mare. Tra le 30 mila navi all’anno che viaggiano nel golfo, le prede più prelibate sono le grandi petroliere saudite, le navi francesi che fanno arrivare il Bordeaux in Giappone, le italiane che caricano Porsche e Ferrari per Dubai. I numeri volano: un esercito di 1.500 corsari, 293 incidenti nel 2008, 889 membri di equipaggio presi in ostaggio, 32 feriti, 21 desaparecidos. È un affare enorme quello che volteggia intorno al tesoro dei pirati: 170 milioni di euro e più, secondo stime.
“Cosa nostra del mare spa” è organizzata come una vera azienda. Intanto ha calamitato nelle sue file nuovi e rapaci soci. Prime fra tutte le gang yemenite, che hanno investito un milione di euro per arricchire il parco lance degli amici (200 nuove di zecca dotate di gps). Anche gli shebab delle corti islamiche, talebani del Corno d’Africa, si sono infiltrati tra i nuovi corsari offrendo basi di protezione a terra, dotate di torrette di avvistamento. Per ultima Al Qaeda, che ha inaugurato da poco i nuovi corsi intensivi di pirateria. “Nello Yemen addestrano ragazzini all’arrembaggio, all’uso di lanciarazzi e di armi pesanti” mi dice Matt Freman, esperto di terrorismo a Londra. E proprio dal Regno Unito parte il tam-tam delle notizie. Finanziatori e sponsor eccellenti, i più conosciuti sono Mohamed Abdi Hassan e Fara Hersy Kulan, si sono piazzati a Londra dopo matrimoni “strategici” con somale emigrate. Là cercano di carpire informazioni agli agenti delle compagnie assicurative. Ottenute date e rotte, le news rimbalzano a Mombasa, dove i pirati hanno seminato cellule. Un business che rischia, però, di sgonfiarsi.
Gli armatori sono soffocati dalle polizze di assicurazione miliardarie. Ed è un momento di gloria per le agenzie di sicurezza come la Blackwater, l’italiana Start sicurezza e la Security consulting group di Roma, che forniscono kit antipirati: elettrificazione di prue e poppe, cannoni ad acqua, ma soprattutto dissuasori acustici che fino a 200 metri spaccano i timpani ai corsari. Notizie che fanno sorridere sotto il turbante Isse. “Le leggende su noi pirati corrono più delle nostre lance” mi dice, sempre arroccato sulla sua barchetta-casa. Oso: l’Onu ha approvato due risoluzioni perché i paesi più colpiti dagli attacchi possano cacciarvi come bestie feroci per terra e per mare. Perfino Barack Obama ha voluto la Task force 151 che schiererà contro di voi le navi da guerra di 23 paesi. Infine la missione europea Atalanta, che ha da poco fatto partire le sue ammiraglie. Ormai siete stretti in una morsa… Isse è pacifico come il suo mare: “Mandassero pure la flotta navale della Terra intera. Perderebbero. La nostra rabbia invece vincerà su tutti. Vogliono fermare i pirati? Restituiscano pace e dignità alla Somalia”.
Dietro le rocce sfavillano occhi di donne foderate di nero. Il villaggio intero ci spia. Sanno che l’ultima legge della pirateria ordina il taglio del braccio fino al gomito per chi parla agli occidentali.
L’uomo racconta che la pirateria somala è un baobab della cuccagna diviso in due grandi rami. Il primo cresce a nord e fiorisce soprattutto intorno al porto di Eyl, nello stato indipendente e fatato del Puntland. Altri gruppi invece crescono più a sud, tra Chisimaio e Harardhere. Fra questi ecco il mito dei gangster dell’acqua. Nome: Abdul Hassan. Lui e i suoi 350 miliziani hanno sequestrato 30 navi solo nel 2008.
“L’uomo che non dorme mai” è considerato leggenda per il coraggio, ma anche per l’ironia che gli ha fatto chiamare “Centro delle guardie costiere” la sua corte dei miracoli, affollata di briganti, avanzi di galera e mercenari. Ma oggi sta diventando importante un’altra armata di filibustieri del mare: “È cresciuta intorno al porto di Bosaso, che si affaccia proprio sul Golfo di Aden” racconta un pescatore di Buur Gaabo con un piede masticato da uno squalo. “Lì 350 uomini si sono specializzati nell’assalto alle navi più lente, che non riescono a far manovra per scappare”. L’uomo senza piede racconta che i corsari si spostano sempre con una nave madre, spesso un vecchio peschereccio russo, che segue le prede nelle acque del golfo, come un vascello fantasma. Coperti dalle reti, i corsari tengono lance veloci, cannocchiali e scanner che avvistano le navi anche a 300 miglia.
Il segreto di ogni attacco è la velocità. Shamun Indhabur, leader dei pirati somali con fama d’immortalità (”Durante gli attacchi in mare siamo lupi affamati in cerca di carne”), vanta una truppa così addestrata da conquistare una nave in 15 minuti precisi. La lancia parte, circonda l’imbarcazione e minaccia con i lanciarazzi di affondarla. Chi tocca per primo il ponte si guadagna un premio: una jeep, una moglie sotto i 18 anni o un chilo di khat. Se non ha ucciso nessuno, però. Perché nel codice d’onore del pirata l’assassinio è vietato.
La morte del capitano della nave Faina, sequestrata con un arsenale di guerra a bordo, parla da sola. “L’uomo non ha superato un brutto infarto da stress. Ma i pirati, per dimostrarne la morte da malattia, hanno tenuto il corpo nel freezer fino alla nostra liberazione, in cambio di 3,2 milioni di dollari” racconta il nuovo capitano Viktor Nikolsky, schierato con l’intero equipaggio sulla banchina del porto di Mombasa. Racconti di terrore: “Cinque mesi chiusi come topi in cabina. Kalashnikov puntati anche per la doccia. Poi un giorno ci offrono spaghetti e ci portano sul ponte” racconta Dimitri, marinaio con le cornee rosse. “Adesso ci ammazzano, ho pensato. Invece la marina americana ci voleva tutti lì per la foto di controllo”. Gli americani sono rispettati dai pirati: “Ci arrestano, ma poi ci liberano perché li lasciamo in pace”. I francesi, invece, hanno osato sfidare i briganti marini. Dopo il pagamento del riscatto per la nave francese Le Ponant, il presidente Nicolas Sarkozy ha scatenato gli elicotteri Apache catturando almeno sei membri del commando.
Oggi, comunque, i veri diavoli dell’acqua sono i marinai orientali. Forti di due ammiraglie antipirati, i cinesi hanno cominciato il 26 febbraio salvando un equipaggio italiano nel Golfo di Aden. Ferma per avaria al motore, la nave vede lontano un puntino che schizza sull’acqua. Chiede soccorso alla vicina flotta cinese e quelli partono con un elicottero. Comincia l’inseguimento cielo-acqua. I cinesi volteggiano sulla lancia come avvoltoi. I somali scappano. Per la nave Zhenhua 4, invece, il combattimento è a bordo. Il capitano Peng Weiyuan racconta: “Erano in sei, ma li abbiamo attaccati con bombe incendiarie fatte a mano e perfino con bottiglie di birra. Finché i nostri non sono arrivati con i rinforzi”. Navi gialle o fantasma, la pirateria rischia di diventare un business dannato e infinito come l’oppio in Afghanistan. E il Golfo di Aden rimane un tratto di mare senza legge. “La pirateria somala è lo specchio di questo paese martoriato che è diventato il Far West dell’Africa” dice Mahmood Noor, leader dell’Alleanza per la liberazione della Somalia. “Il governo provvisorio si nutre di quest’ambiguità e dei milioni della pirateria. E il popolo muore di fame”. Ma talvolta il popolo si vendica. Il 9 gennaio un elicottero cala un pacchetto con 3 milioni di dollari sulla tolda della Sirius Star, petroliera saudita sequestrata con 100 milioni di barili di petrolio. I banditi marini agguantano il malloppo ed esultanti puntano terra con le lance. Piroette tra le onde, la barca con i soldi si ribalta. Sei corsari affogano. L’acqua si riempie di dollari. Da terra un gruppo di poveri nomadi vede la scena. I poveretti si tuffano e agguantano i bigliettoni qua e là. I pirati perdono oltre 300 mila euro.
Di Stella Pende da Mombasa
1 commento:
Da quello che ho letto in giro, sembra che in somalia sia più facile trovare lavoro come militante che non altri più "nobili" come il meccanico e altro. E questo è già assurdo.
Poi se ci si porta ad essere pescatori, prima o poi lì si diventa pirati.
e' che comunque il mondo sembra sempre più ingiusto.
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