venerdì 20 marzo 2009

SALVARE IL PIANETA O IL CAPITALISMO?

Celebrate the World

Nel novembre 2008, il presidente della Bolivia Evo Morales ha redatto un manifesto aperto dal titolo “Cambiamento climatico: è necessario salvare il pianeta dal capitalismo”. Morales vi esprime le richieste e le preoccupazioni di molti popoli, movimenti e organizzazioni riguardo alla crisi climatica e alle decisioni che stanno prendendo coloro che si fanno chiamare “nostri leaders”. Dato che una delle principali soluzioni emerse consiste nel rafforzare il ruolo delle istituzioni finanziarie internazionali (IFIs), come la Banca Mondiale, responsabili dell’elaborazione e della realizzazione di quelle politiche che sono alla radice stessa della crisi, è possibile chiedersi se l’obiettivo sia salvare il pianeta o il capitalismo.

Anche in relazione alla crisi climatica, le pratiche delle istituzioni finanziarie multilaterali è opposta alla loro retorica. Di fronte ad una realtà preoccupante, esse creano opportunità per speculare sempre di più. Le cause del cambiamento climatico risiedono nell’eccesso di sfruttamento delle risorse naturali e di consumo, principalmente da parte dei paesi del nord. Come risultato delle attività umane, estreme modificazioni climatiche, siccità e inondazioni, ridotta produttività agricola, estinzione di specie e distruzione di ecosistemi, innalzamento del livello dei mari, scomparsa di terre, drammatico incremento di rifugiati ambientali e altri conflitti sociali possono diventare parte della vita quotidiana, se non si avviano subito radicali correzioni.
La siccità del 2005 in Amazzonia – regione che detiene oltre il 20% dell’acqua dolce del pianeta – coinvolse oltre 250mila persone negli stati di Amazzonia e Pará ed è un chiaro esempio di quanto la minaccia sia attualei. Come se non bastasse, acqua, terra e culture tradizionali saranno assoggettate al mercato. Oggi pure il riscaldamento globale è diventato un affare. Redditizio.
Contraddizioni ricorrenti
Vengono promosse sempre di più soluzioni fasulle, come il mercato del carbonio, i biocombustibili, l’energia idroelettrica e nucleare. Coloro che inquinano di più non sono interessati a rispettare gli impegni, pur scarsi, che si sono assunti. Alla data del 2006, le emissioni di gas ad effetto serra sono aumentate di circa il 9,1% rispetto ai livelli del 1990. Inoltre le proposte presentate avanzano meccanismi di attenuazione e adattamento che evitano reali riduzioni dei livelli di emissione e aprono la strada a nuovi affari. Uno dei principali architetti di questo processo è la Banca Mondiale.
Storicamente, la Banca è stata uno dei maggiori finanziatori dei grandi investimenti in campo idroelettrico, termoelettrico, nell’agronegocio [termine che fa riferimento alle politiche di massiccia esportazione di prodotti agricoli, tipo soia, e da allevamento, NdT], nei combustibili fossili e nella privatizzazione del settore energetico. Tutte scelte che, in un modo o nell’altro, contribuiscono al riscaldamento globale. La Banca continua ad investire circa due-tre miliardi di dollari all’anno in progetti di produzione di energia, che comportano emissioni di gas serra. Sebbene l’“Analisi dell’Industria Estrattiva” realizzata dalla stessa Banca Mondiale abbia raccomandato nel 2004 che il «il Gruppo della Banca Mondiale deve ridurre gradualmente gli investimenti nelle produzioni petrolifere fino al 2008», nel 2007 i suoi finanziamenti a sostegno di progetti basati su combustibili fossili sono risultati in aumento. Di contro, nel 2006 i prestiti della Banca Mondiale riservati all’energia rinnovabile rappresentavano meno del 4% dei complessivi 4,4 miliardi di dollari destinati al settore dell’energiaiii.
Un esempio in Amazzonia
Le emissioni di gas serra conseguenti alla deforestazione rappresentano il 20% delle emissioni globali e il 75% di quelle brasiliane. Mentre in Brasile risulta che la principale causa di deforestazione risiede negli allevamenti estensivi, la Corporazione Finanziaria Internazionale (CFI), agenzia del Gruppo della Banca Mondiale che finanzia le società private, ha approvato nel 2007 un prestito di 90 milioni di dollari al mattatoio Bertim, perché potesse raddoppiare i rifornimenti a Marabá (Pará) ed espandere le sue attività in Rondonia e Mato Grossoiv. Significa che la CFI sta finanziando l’emissione di CO2 che risulterà dalla deforestazione e dal metano necessari all’allevamento del bestiame.
La Banca Mondiale continua ad esternare la sua preoccupazione per il cambiamento climatico e allo stesso tempo guida il mercato internazionale del carbonio. Prima che nel luglio 2008 lanciasse il Fondo di Investimento nel Clima, la Banca già amministrava dieci differenti fondi globali dotati di oltre due miliardi di dollari, con un profitto del 13% su ciascuna transazionev.
I primi progetti legati al commercio del carbonio – come la raccolta del metano prodotto nei depositi di rifiuti tossici e delle scorie degli organismi geneticamente modificati – hanno comportato notevoli guadagni per le imprese dei rispettivi settori e opportunità per la Banca Mondiale, ma d’altro canto si sono dimostrati scarsamente efficaci nel ridurre le emissioni e hanno inoltre creato nuovi problemi socioambientali.
Tali progetti, che accordano alle imprese un “diritto a inquinare”, non introducono quelle pratiche di produzione e consumo necessarie per affrontare la questione in modo strutturale. Oggi la Banca amministra oltre 50 miliardi di dollari destinati, in forma di nuovi prestiti, ai paesi del sud affinché si adattino al cambiamento climatico. In altre parole, più debito estero, maggiore condizionalità, più elevati guadagni per le imprese transnazionali e aumento del debito ecologico e sociale del nord nei confronti del sud.
Anche la Banca Inter-Americana di Sviluppo (BIS) ha inserito nei suoi documenti pubblici il problema del cambiamento climatico. Tuttavia si registra un’altra volta un’ampia divergenza fra retorica e prassi. La BIS, per esempio, condiziona il suo appoggio finanziario alla creazione da parte delle autorità nazionali di fondi che coprano i rischi climatici. Dunque non esiste un divieto di correre rischi relativi al clima, per i quali si prevede soltanto una copertura economica, per altro finanziata dal paese che riceve il prestito e non della BIS.
Una crisi conduce all’altra
Con un contributo iniziale di 20 milioni di dollari, la BIS lanciò nell’agosto 2007 il Fondo per l’Energia Rinnovabile e il Cambiamento Climatico, costituito principalmente per finanziare i biocombustibili e le iniziative di attenuazione e adattamentovi.
La produzione di biocombustibili, richiesti dalle automobili dei paesi del nord, genera l’aumento dei prezzi degli alimenti e, in questo modo, della sovranità alimentare, in un contesto di già grave crisi alimentare. Quando si occupano aree coltivabili, sradicando l’agricoltura familiare, si distruggono terre che sono depositi di carbonio, come i boschi*.
Allo stesso modo i progetti di assistenza tecnica del Fondo Monetario Internazionale (FMI) per le «sfide macroeconomiche, fiscali e finanziarie del cambiamento climatico» sono accompagnati da condizionalità che erodono il diritto sovrano dei popoli di determinare il proprio futuro.
I “nostri leaders” dovrebbero riconoscere i paesi del sud come creditori di copiose passività ecologiche e garantire riparazioni per i crimini climatici commessi. Nella misura del 90% le emissioni di anidride carbonica provengono da imprese e paesi del nord, mentre le popolazioni che più ne patiscono le conseguenze risiedono nei paesi del sud. I colpevoli di tali crimini devono essere responsabilizzati, e non rafforzati. I progetti e i programmi che riguardano la crisi climatica devono essere pagati dai governi del nord, dalle imprese e dall’elite globale, non dai popoli.
In conclusione, l’unica soluzione reale è eliminare le cause strutturali del cambiamento climatico. Come dice il presidente Evo Morales: «il cambiamento climatico ha portato tutta l’umanità ad un bivio: continuare sul sentiero del capitalismo e della morte, o costruire il sentiero dell’armonia con la natura e il rispetto della vita». Quale strada scegliamo? Se il clima resta nelle mani delle istituzioni finanziarie internazionali, già conosciamo la risposta.
di Fabrina Furtado , economista e segretaria esecutiva di Red Jubileo Sur.
Questo articolo è stato pubblicato originalmente in lingua portoghese sulla rivista Contra Corriente: «Chi guadagna dalla distruzione dell’Amazzonia?», edizioni Rede Brasil, e presentata in occasione del Forum Sociale Mondiale del 2009

5 commenti:

Unknown ha detto...

Di fronte a questa immane disgrazia si perde in mille rivoli il pensiero di salvezza e non fa che creare ulteriori problemi alla soluzione della stessa. Per salvare il pianeta, per contrastare il clima abbrutito occorrono "soldi". Quindi occore che un altro tipo di capitalismo vìsi dia fare per controbbattere la "Banca Mondiale". Ma non è la stessa ideologia? A meno che il capitalismo, unico e assoluto, non si redima sulla strada della "deforestazione "brasiliana" e attui davvero la "salvazione" del pianeta. Non credo che Evo Morales abbia la bacchetta magica: secondo me è solo propaganda, magari sincera, ma propaganda.

Anonimo ha detto...

Evo Morales non è certamente la soluzione, ma la via da lui(e anche da altri) indicata va costruita da tutti noi, abbattendo il nostro egoismo.

Vincenzo Cucinotta ha detto...

Io credo che il rapporto del mondo sviluppato con quello sottosviluppato sia uno dei punti più delicati negli equilibri mondiali ed ambientali. A me pare che l'esperienza storica già accumulata dimostri come il contatto del capitale con popolazioni a basso tasso tecnologico sia sempre dannoso. Ciò che emerge è che mai quelle popolazioni sono state più povere di adesso. Si è cioè passati da un'economia di sussistenza ad un'economia di miseria. Se pratichi la monocoltura, tu distruggi anche la possibilità futura di autoalimentarsi di quelle popolazioni. Chi ha un piccolo orto, ha la possibilità almeno di godere dei frutti della sua propria piantagione. Quando nel tuo orto piantano caffè, non solo quell'anno non avrai i tuoi ortaggi, ma perderai la cosa più preziosa: la capacità di gestire quella terra per la sopravvivenza della tua famiglia. Gli avrai cioè tolto tradizioni di sopravvivenza elaborate e perfezionate in secoli di storia, dandogli in cambio una manciata di dollari. Magari, a condizioni di mercato variate, quella terra verrà abbandonata dal capitale, e rimarrà inutilizzata o non adeguatamente utilizzata da persone globalizzate, e pertanto inadatte a sfruttare le specificità del luogo.

Anonimo ha detto...

@ Vincenzo
Hai ragione. Lo sfruttamento sistematico della proprietà altrui continua a danno della sopravvivenza della popolazioni che sono legittime proprietarie delle risorse dei loro territori. Inpoveriamo sempre maggiormente gli ultimi della terra. Ma per cambiare tendenza dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere e qui comincia il difficile. Siamo tutti troppo egoisti ed edonisti e narcisisti. Amiamo circondarci del superfluo, che ormai riteniamo necessario. Solo una crisi nera, nerissima forse potrà farci cambiare i nostri costumi.

Anonimo ha detto...

Io ne parlai poco fa, nel mio blog, nel quale risposti mi sembra. si risposi. Io credo che le cose possono anche coesistere. Oddio, forse non sarebbe il capitalismo attuale o magari proprio non sarebbe capitalismo, però davvero credo che l'ambientalismo deve essere considerato un apporto. E non un peso.

Io salvo il pianeta. Ovvio.

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