sabato 7 marzo 2009

NAIROBI: VITA DA STREET CHILDREN

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Kenya, Nairobi, Periferia, Dagoretti Corner. Da qui prende le mosse Invisible Cities, un progetto italiano di cooperazione promosso dal Consorzio di Solidarietà di Trieste, che si propone di indagare gli effetti di una crescita urbana senza vero sviluppo. Una realtà dove migliaia di uomini, donne e bambini vivono nelle più assolute condizioni di indigenza, dimenticati da tutti, dallo Stato e dalle altre comunità urbane. «Ho deciso di partire da Nairobi - spiega Gianpaolo Rampini, responsabile del progetto - perché qua esiste la più grande baraccopoli d’Africa, Kibera. Abbiamo aperto una scuola di videogiornalismo indipendente per allievi che provengono dalle bidonville e dalle periferie degradate. Un gruppo come questo - aggiunge - ha un enorme vantaggio rispetto a qualsiasi altra troupe: può entrare in luoghi dove è impossibile normalmente realizzare interviste. Ora stiamo ultimando un documentario sul percorso di vita di un gruppo di street children, i bambini di strada, uno dei fenomeni più allarmanti di questo Paese».

Le statistiche parlano chiaro: ci sono dagli 80 ai 100 mila bambini di strada a Nairobi. Ma numeri ufficiali, forniti dal governo, non ce ne sono. Per il governo semplicemente non esistono, sono un popolo di invisibili. Racconta Kevin Otieno, uno dei ricercatori del gruppo Invisible Cities, 21 anni, con un passato da street child. «Vengo da una famiglia di dieci fratelli. Siamo nati tutti fuori dal matrimonio, nessuno di noi sa chi è nostro padre, sappiamo solo chi è nostra madre». Il suo racconto prende il via da Kibera, il più grande slum d’Africa, in una baracca: «La mamma non riusciva nemmeno a pagare l’affitto, darci da mangiare o comprarci i vestiti. Dovevamo guadagnarci la vita da soli. Così andavo per strada, a chiedere l’elemosina». A spingerlo in strada sono stati altri street children: “Ma perché vieni qua tutti i giorni, e poi te ne torni a casa?” mi chiedevano. “Potresti rimanere qua. Ti fai i soldi e te li tieni per te”».

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Kevin è solo uno dei tanti. Il settanta per cento delle madri di questi ragazzi sono sole o abbandonate dai mariti. Spesso devono scegliere tra morire di fame con i propri figli o di aids prostituendosi. I bambini scappano da tutto questo, attratti da una libertà, quella della strada, che si paga a duro prezzo.

Nairobi è una delle città più pericolose al mondo. Per sopravvivere questi bambini devono riunirsi in bande. Le gang sono composte da bambini della stessa età, queste sono legate ad altre bande di ragazzi più grandi, con una struttura verticale fino a giungere ai capi, che magari hanno più di vent’anni. Il gruppo consente la sopravvivenza del ragazzino, che sa che se un giorno va a mendicare e non racimola nulla, c’è sempre il gruppo che bene o male provvederà per lui. Ma tutto questo ha un costo. Esorbitante. Perché la legge della gang è spietata. E per farne parte si deve passare per un brutale rito di iniziazione, che va dall’esser picchiati alla sodomizzazione.

Stefania Meda, una sociologa del Centro Studi e Ricerche dell’Università Cattolica di Milano, da molti anni segue i bambini di strada, ci racconta che uno street child lo riesci a riconoscere a centinaia di metri di distanza. «C’è differenza tra un bambino povero che vive nello slum, e uno di strada. Se è povero, magari è vestito di cenci, ma capisci subito che ha qualcuno che si prende cura di lui. Si può persino permettere il lusso di essere un bambino», aggiunge. Uno street child, invece, ha un modo di camminare che è un misto tra la sfida, la durezza e il tentativo di mimetizzarsi per non dare nell’occhio. «È come se avessero una propria divisa, fatta di vestiti ingrigiti, bottigliette per aspirare colla e solventi, sacchetti di plastica per trasportare il materiale da riciclo da rivendere». Li chiamano «chocorà», spazzatura, questi ragazzi.
Il processo di riabilitazione per loro è molto complesso. La Koinonia Community di Padre Renato Kizito Sesana è uno dei progetti più innovativi creati in Kenya, con dei centri di riabilitazione per bambini di strada che passa attraverso il reinserimento nelle istituzioni scolastiche. Kevin Oteno è uno di quelli che ha avuto questa possibilità: «Gli street children sono considerati persone senza diritti. E io mi sento ancora uno di loro. Non avrei mai immaginato di andare a scuola, di andare all’università» dice. Grazie all’aiuto della struttura creata da padre Kizito questi ragazzi scoprono di avere potenzialità che non sono state incoraggiate. «Io ho sfruttato una possibilità, ma il processo di riabilitazione è davvero duro. Anche perché molti sono tossicodipendenti. Ed è difficile, se sei cresciuto in strada, imparare delle regole. Sono abituati ad una esistenza dove sono loro i padroni del loro destino. Oggi mi alzo e vado in questa direzione, domani nell’altra. Ma una volta che riescono a realizzare che esiste un futuro, iniziano a sognare».

Testo di Daniela Robecchi. Foto di Alessandra Raichi

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