martedì 23 marzo 2010

RITRATTO DI UN NON ALLINEATO, ERETICO E TEOLOGO MARXISTA

Frei Betto: frate domenicano, politico, giornalista, scrittore.

Figura storica della lotta contro la dittatura militare brasiliana, vero e proprio “motore” del movimento di Porto Alegre e dei Forum sociali, autore con Fidel Castro del best seller “Fidel e la religione”. Il suo spirito critico è indomito. Non accetta neppure la moderazione del suo amico, il presidente Lula: «Abbiamo bisogno di politiche di governo, non della politica del governo».

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Un mite, non tanto, politico e intellettuale brasiliano incontra una compagnia di danza di ex ragazzi di strada di Rio De Janeiro. Sono seduti attorno a un tavolo a poche ore dal debutto. L’uomo si aggiusta gli occhiali guardando i suoi giovani interlocutori. E inizia a parlare, scandendo le parole. «L’arte, tutta l’arte, è essenzialmente politica. Non può mai essere solo apparentemente politica. Perché la politica è tutto, è l’arma politica che vi permette di stare qui». Sorride appena, accennando a una pausa. «Pensate a questo: quando salite sul palco siete come i vostri fratelli sem terra che occupano il latifondo. Pensateci, stasera, quando salirete sul palco, anche voi starete occupando le terre del latifondo. È il vostro modo di fare politica. È il vostro modo di cambiare il mondo. Il vostro modo di cambiare la realtà ». Retorico? Demagogico? Se a pronunciare queste parole non fosse Frei Betto da Belo Horizonte probabilmente si.
Ma se a pronunciarle è proprio Carlos Alberto Libânio Christo detto Frei Betto, le cose cambiano. Frate domenicano, politico, giornalista, scrittore. Figura storica della lotta contro la dittatura militare brasiliana, vero e proprio “motore” del movimento di Porto Alegre, dei Forum sociali. Ideatore del programma Fame Zero del primo governo Lula e poi critico verso l’amico presidente (i due sono amici davvero fin dai primi anni Settanta) per le scelte neoliberiste del governo brasiliano. Uno così se lo può anche permettere di essere retorico. «Non esiste arte neutra - spiega Betto -. Ogni volta che si pretende di fare arte neutra si sta facendo solo intrattenimento, e questo fa solo il gioco della destra. L’arte non deve essere di destra o di sinistra, l’arte deve essere bella. L’artista, invece, sì. Lui deve fare la sua scelta. Ma nella sua bellezza anche l’arte ha una dimensione politica. È un linguaggio che può essere legato o meno con il cambiamento del mondo».
Essere sintonizzati con la società, con quello che la muove, che la trasforma. L’utopia? «So che questa è una parola che voi europei non amate molto, ma in America latina questo è un termine che ha invece molta forza. Credere nell’utopia significa sperare in un miglioramento ed essere capaci di lottare per questo». E Betto con l’utopia si è sempre misurato. Giovanissimo, nel 1968, si trovò coinvolto con il movimento di resistenza alla dittatura anche in relazione ai gruppi che organizzarono il rapimento dell’ambasciatore brasiliano. Nel 1969, per la seconda volta dopo un primo fermo nel 1964, venne arrestato. Catturato dopo un anno trascorso come latitante in un convento francescano a Porto Alegre sotto falso nome. Torturato in carcere. E come lui vennero torturati centinaia di militanti, fra cui moltissimi frati domenicani. Dopo quell’esperienza scrisse un libro, Battesimo di sangue, nel quale denunciava la repressione della giunta militare e raccontava la storia di un altro frate, Frei Tito, che non riuscendo più a rientrare alla normalità dopo il carcere e le torture si suicidò in Europa da esule.
Betto, prima di essere attivamente coinvolto nel governo Lula, è stato uno dei motori intellettuali dell’affermazione dei movimenti sociali e sindacali in Brasile. Amico e biografo di Fidel Castro, dopo aver lasciato alla fine del 2005 il governo Lula, è tornato al suo lavoro di scrittore e giornalista a tempo pieno. Racconta della sua amicizia con il leader cubano: «Il mio primo incontro con Fidel è stato nel luglio 1980 a Managua, nel primo anniversario della rivoluzione sandinista nel 1981. Sono poi andato a Cuba, dove si stabilì una amicizia forte che nel 1985 ho avuto l’opportunità di trasferire in un libro». Un best seller non solo a Cuba, ma in tutto il mondo, in cui Betto e Castro dialogano senza pudori ricercando il superamento degli steccati fra marxismo e cristianesimo di base, fra socialismo e teologia della liberazione.
Quella teologia della liberazione
Betto infatti, era e rimane una delle voci critiche e non allineate di quel pensiero nato a cavallo della rivoluzione cubana e della nascita della teologia della liberazione negli anni Sessanta nella Conferenza dei vescovi latinoamericani di Medellin. Teologia della liberazione di cui rimane una delle voci più autorevoli insieme a Leonardo Boff. E come il vecchio francescano estromesso dalla Chiesa cattolica, costretto a lasciare la toga da un silenzio imposto più di vent’anni fa dall’allora capo della dottrina vaticana Ratzinger, ha continuato ad analizzare paradigmi sociali e culturali integrandoli in una visione laica della teologia. Una visione che li ha resi, entrambi, eretici per scelta e distanti galassie perfino dalle visioni più progressiste che sopravvivono all’interno della Chiesa oggi. Per lui i venti anni di dittatura militare non sono stati ancora assorbiti e metabolizzati dalla società brasiliana.
Quel periodo, secondo Betto non potrà essere mai superato, se non verranno resi pubblici «i file delle tre forze armate, portando il torturati e torturatori in tribunale, e scoprendo la sorte delle persone scomparse e recuperando i corpi di coloro che sono stati uccisi illegalmente». Betto ritiene che questo non sia avvenuto per «mancanza di volontà politica». Secondo l’intellettuale brasiliano, una delle conseguenze più visibili delle eredità della dittatura è il grandissimo livello di esclusione sociale che ancora isola milioni di brasiliani da un processo, evidente, di crescita economica del Paese. Un ragionamento, quello della mancanza di coraggio, che Betto oggi trasferisce su tutta l’azione sociale del secondo mandato del presidente Lula. «Un governo progressista, come quello di Lula, tende a neutralizzare i movimenti popolari. Le politiche sociali che ha portato avanti, che sono importanti ma non sufficienti, rendono la popolazione passiva, lasciata ad attendere la manna dal cielo. Un governo paternalistico». Da qui una sorta di smobilitazione da parte dei movimenti sociali
«Il processo di smobilitazione - spiega Betto - è iniziato con la morte del programma originario Fame Zero e lo smantellamento dei Comitati di gestione, avvenuto in quasi 3 mila città, dando vita alla Compagnia famiglia, gestito esclusivamente da parte dei governi municipali e non dai movimenti sociali ». Di fatto si sarebbe passati da un programma di inclusione sociale a un limitato programma assistenzialista snaturando la natura di un progetto che la stessa Organizzazione mondiale della Sanità aveva segnalato come modello da adottare globalmente per la lotta alla denutrizione cronica. È spietato Betto con il suo amico Lula, con cui ha diviso anche periodi di clandestinità, quando quest’ultimo era ai vertici del sindacato dei metalmeccanici a Sao Paulo. «Mi spiace che in sette anni - spiega Betto -, il governo Lula non abbia messo in atto alcuna riforma strutturale del Paese: non la riforma agraria, non un’equa politica fiscale o l’istruzione. Vi è stato un progresso significativo, certo. Ma abbiamo bisogno di politiche di governo, non della politica del governo. Penso che sarebbe sufficiente per fare un vero salto di qualità mettere in atto le misure adottate da parte dell’Assemblea costituente del 1988». Come dire: caro Lula, ricominciamo da zero.

Antonio Di Nozzo

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