mercoledì 16 maggio 2012

IMPARARE DAGLI INDIGENI

Il mio primo incontro con il movimento indigeno risale al dicembre 2007, quando mi recai in Colombia sulle montagne del Cauca e prima ancora partecipai, con gli amici di A Sud, al congresso dell’Organizzazione indigena di Colombia (Onic), che si tenne ad Ibagué, capitale del Tolima.

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L’organizzazione indigena del Cauca, il Cric  (Consejo regional indígena del Cauca), costituisce la più antica organizzazione indigena dell’America Latina e probabilmente del mondo. Il Cric organizza in modo capillare decine di migliaia di indigeni che vivono in una zona montagnosa, alle prese con le multinazionali, l’esercito, la polizia, i paramilitari, i narcotrafficanti e in alcuni casi anche la guerriglia delle Farc. L’autodifesa è garantita dalla guardia indigena che raccoglie tutti gli appartenenti alla comunità e si basa non sugli armamenti ma sull’autorevolezza sociale simboleggiata dai bastoni del comando. Gli indigeni sono organizzati su base territoriale con i cabildos, strutture di autogoverno che elaborano i piani di vita e amministrano la giustizia.

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Feliciano Valencia, líder del Consejo Regional Indígena del Cauca (Cric)

Dal mio incontro con gli indigeni colombiani è scaturito un lavoro scientifico, I diritti dei popoli indigeni, pubblicato nel 2009 e  poi anche in spagnolo in Colombia. Abbiamo celebrato a Roma, un anno fa, il quarantesimo anniversario del Cric, con la partecipazione della Regione Lazio grazie all’interessamento del consigliere della Federazione della sinistra Fabio Nobile, e contiamo di portare avanti la cooperazione con questa ed altre organizzazioni indigene e in particolare con l’Università indigena autonoma e interculturale.
Vari sono gli insegnamenti che si possono trarre dall’esperienza millenaria dei popoli indigeni. Insegnamenti che riguardano anche e soprattutto noi uomini e donne più o meno “civili”. Innanzitutto, la capacità di portare avanti una resistenza che dura ormai da vari secoli. Poi ilprofondo rispetto nei confronti della natura (Pachamama). Quindi il senso della collettività. Basti ricordare che nella lingua degli indigeni Nasa, la più grande etnia del Cauca, non esiste alcuna parola per indicare “io”. O la medicina indigena, basata su di una considerazione olistica dell’essere vivente. O infine la giustizia, che vede come principale sanzione la disapprovazione da parte della comunità, anche attraverso sistemi per noi discutibili, come la gogna o le nerbate in pubblico, che tuttavia potrebbero essere utilmente applicate a politici e amministratori corrotti.

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La Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni, approvata nel settembre 2007 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con il voto contrario solo di Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda, rappresenta un netto avanzamento nella tutela dei diritti degli indigeni ma viene disapplicata sistematicamente da parte di molti Stati.
Portati in molti casi sull’orlo dell’estinzione da parte di politiche statuali di vero e proprio genocidio, gli indigeni continuano la loro lotta per la sopravvivenza e a offrirci un contributo, in termini di diversità culturale, che andrebbe attentamente meditato ed elaborato.
L’importanza di tale contributo viene giustamente sottolineata da un significativo articolo di Carlo Petrini, presidente di Slow Food, pubblicato oggi su “La repubblica”.
I principi fondamentali del Cric sono unità, terra, cultura e autonomia, e non c’è chi non veda che si tratti di principi pregnanti anche per una società fortemente diversa come la nostra, in preda a una grave crisi, dalla quale si può uscire sulla base di nuove idee regolatrici come il buen vivir indigeno, oggetto fra l’altro di un interessante libro di Giuseppe De Marzo, e dell’affermazione della sovranità ambientale, energetica e finanziaria dei territori, come propone Guido Viale.
Fonte

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