lunedì 31 gennaio 2011

QUESTA VOLTA NON C’È UN’ARCA DI NOÈ, CI SALVIAMO O MORIAMO TUTTI

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ipsonoticias.net

“Il mercato non può risolvere la crisi ambientale”, dice il teologo ed ecologista Leonardo Boff, professore dell’Università brasiliana dello Stato di Rio de Janeiro. La soluzione, insiste, è nell’etica e nella battaglia delle popolazioni autoctone per cambiare la relazione con la natura.”

 Boff, che insegna Etica, Filosofia della Religione ed ecologia, è uno dei principali rappresentanti della Teologia della Liberazione, corrente progressista della Chiesa Cattolica nell’America Latina, e ha scritto più di 60 libri e dedicato gli ultimi 20 anni a promuovere il movimento verde.



E’ stato uno dei 23 promulgatori della Carta della Terra nel 2000, e un anno dopo, ha ricevuto il Right Livelihood Award, conosciuto come il Premio Nobel Alternativo, che viene concesso a personalità illustri nella ricerca di soluzioni ai problemi globali più urgenti.


“Se non cambiamo, andremo incontro al peggio…O ci salviamo o moriamo tutti”, ha detto Boff in un’intervista concessa a Tierramerica nella capitale messicana, dopo aver assistito come osservatore alla Conferenza sulla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 16), avvenuta questo mese a Cancun.

TIERRAMERICA: Come valuta la COP 16?
LEONARDO BOFF: Quello che ha predominato, tranne negli ultimi due giorni, è stata un’atmosfera di delusione, di fallimento. Ma sorprendentemente ci sono state tre ipotesi il compromesso per una lotta che limiti l’aumento della temperatura mondiale di due gradi ; la creazione del Fondo (Climatico Verde) di 30.000 di dollari (per il 2012) al fine di aiutare i paesi più vulnerabili, un interessante segnale di solidarietà; e la creazione di un gran fondo per la riduzione della deforestazione e la degradazione dei boschi, in quanto proprio la deforestazione é la causa principale del riscaldamento globale.

Cosa significa crescere? Sfruttare la natura?

Esattamente questo tipo di crescita e sviluppo può portarci ad un abisso, perché noi esseri umani stiamo consumando 30 per cento più di quello che la Terra è in grado di offrire.
Qui sta il circolo vizioso. La Cina non può contaminare il 30 per cento, come sta facendo, perché la contaminazione non rimane in Cina, entra nel sistema globale.
Il problema è la relazione dell’essere umano con la Terra, perché è violenta, a tutta forza….fintanto che non cambiamo questo, andremo incontro al peggio. E questa volta non ci sarà un’Arca di Noè. O ci salviamo o moriamo tutti.


Qual è il ruolo dell’America Latina?

E’ il continente che ha più possibilità di dare un contributo positivo alla crisi ecologica: possiede i più grandi boschi umidi e con riserve d’acqua, la più grande biodiversità e forse anche le distese/superfici più grandi per i raccolti.
Ma ancora c’è un’insufficiente coscienza ecologica in gran parte della popolazione. E, d’altra parte c’è una rischiosa invasione di grandi imprese che si stanno appropriando di vaste regioni. E’ un’appropriazione di beni comuni in funzione di benefici particolari.
In Argentina, Brasile, Cina, Venezuela da poco si stanno rendendo conto del nuovo gioco del capitale: una grande concentrazione di mezzi di vita per garantire il futuro del sistema.


E’ possibile? Cosa bisogna fare?
Ci sono movimenti, specialmente in gruppi che vedono le proprie terre divise, come La Via Campesina e los Sin Tierra de Brasil (Senza Terra Brasile).
E gli indigeni che non vedono la Terra solamente come strumento di produzione, ma come un’estensione del proprio corpo e ne hanno bisogno per garantire la propria identità. Stiamo cercando un equilibrio e questo è il compito collettivo dell’umanità che il mercato e l’economia non possono risolvere. Ognuno deve fare la propria parte, ed avere il senso della giusta misura. Il problema non è il denaro.


Che opzioni ci sono?
Abbiamo fondi e tecnologia, ma ci manca la volontà politica e la sensibilità con la natura e l’umanità sofferente. Questo è ciò che bisogna riscattare. Ed insieme con l’etica dell’attenzione va messa in campo l’etica della cooperazione. Ora si impone la cooperazione di tutti con tutti.


E’ tanto grave?
Ci sono regioni nel mondo che hanno cambiato tanto da diventare inabitabili. Per questo motivo ci sono 60 milioni di sfollati in Africa e nel sud est dell’Asia, che sono i più colpiti e quelli che meno contaminano. Se non ci fermiamo, nei prossimi cinque o sette anni i rifugiati climatici saranno più di 100 milioni, e questo andrà a creare anche un problema politico.


Perché dovrebbero essere trattati?
Perché il sistema che ha creato il problema non lo va a risolvere. Se ogni paese deve crescere un poco all’anno e nel farlo distrugge la natura e fa aumentare il riscaldamento globale, allora, questo sistema è ostile alla vita. L’argomento è che è necessario per lo sviluppo…..


Come comprendere la posizione della Bolivia, l’unico paese che non ha accettato questi compromessi?
La Bolivia parte dalla convinzione che la Terra è Pachamama, un organismo vivente che bisogna rispettare, di cui bisogna prendersi cura e non solamente sfruttare. E’ una visione contraria a quella predominante, che è governata dall’economia: vendere bonus di carbonio, per esempio, il che significa avere diritto a contaminare.
Le società dominanti vedono la Terra come un baule di risorse che si possono estrarre all’infinito, anche se ora bisogna estrarle in modo sostenibile, perché sono scarse. Non riconoscono dignità e diritti agli esseri della natura, li vedono come mezzi di produzione e la loro relazione è di utilità. Questi sono temi che non sono stati trattati a Cancun e neppure in tutte le COP. 


Titolo originale: ""Esta vez no hay un Arca de Noé, nos salvamos o perecemos todos""

Fonte: Fonte: http://www.ipsonoticias.net
Scelto e tradotto per Come Don Chisciotte da ADRIANA DE CARO

giovedì 27 gennaio 2011

MA RICORDARE NON BASTA

per ricordare

Per non dimenticare

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.

Primo Levi

HAITI, RITORNO ALL'APOCALISSE

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Lei è ancora lì. Ai piedi della stessa tenda piantata sullo stesso fazzoletto di terra dove l’avevo incontrata e fotografata, la prima volta, all’indomani dell’apocalisse di un anno fa. Con quei suoi occhi enormi e severi piovuti dal paradiso direttamente nell’inferno haitiano, l’ho riconosciuta subito. L’avevo chiamata «Oggi», come la protagonista di una poesia della grande scrittrice cilena Gabriela Mistral intitolata, appunto, «Il suo nome è Oggi». Quei versi - «Il peggiore dei nostri crimini è abbandonare i bambini, disprezzando così la sorgente della vita» - racchiudono la sentenza più tragicamente inapplicata della storia. E la piccolina che ora mi fissa silenziosa e imbronciata come se il tempo non fosse mai trascorso, sembra essere rimasta lì apposta per ricordarmelo. Minuscola particella di dolore abbandonata come un rifiuto qualsiasi nella mostruosa discarica a cielo aperto di esseri umani che era e, dopo un intero anno, resta «Haiti Chérie». Non che mi aspettassi granché di meglio nel tornare dove - alle 16.53 del 12 gennaio 2010 - il mondo era finito. Disintegrato da una scossa di magnitudo 7.0 gradi della scala Richter durata appena 35 secondi e capace di causare 250.000 morti, almeno 700.000 fra feriti e invalidi e una marea incalcolabile di senza tetto. Ma se allora ero ripartito nauseato dalla vergognosa assenza di una macchina dei soccorsi minimamente adeguata alla portata immane della catastrofe, stavolta il disgusto e lo scandalo sono addirittura maggiori. Perché non è vero affatto che il mondo si sia scordato di Haiti. Lo capisci dalle migliaia di luccicanti fuoristrada che ingrossano il traffico già follemente caotico della capitale, Port-au-Prince. Sono i mezzi del cosmopolita «esercito della salvezza» che ha trasformato questo lembo di Caraibi in una specie di «Repubblica delle Ong». Secondo dati non ufficiali, ne sono sbarcate nel Paese circa 12.000 (avete letto bene: dodicimila!). A questa falange di «professionisti» del bene, occorre poi aggiungere i 9.000 Caschi blu della missione Minustah dell’Onu. Costo mensile della missione: 600 milioni di dollari l’anno. Noccioline, se paragonati ai complessivi 11 miliardi e mezzo di dollari stanziati per la ricostruzione dalla comunità internazionale. 
Insomma, e senza contare la periodica processione delle star di Hollywood e di qualche incanutito ex-inquilino della Casa Bianca, altro che «dramma dimenticato»! Peccato solo che, di cotanto nobile e grandioso slancio umanitario, i superstiti del terremoto non se ne siano praticamente accorti. Inchiodati - un milione? un milione mezzo? nessuno sa dirlo con esattezza - nelle stesse tendopoli assediate da montagne pazzesche di rifiuti da cui non se ne sono mai andati. Per non parlare di quell’altro esercito di dannati acquartierati fra le lamiere allucinanti di «Cité Soleil», lo slum più grande e pericoloso del Paese. Riassumendo, Cassandra ha avuto ragione un’altra volta. E il fiasco della tanto strombazzata, e iperfinanziata, «operazione Haiti» è totale. Senza appello.
Forse la più famosa delle tendopoli di cui sopra, l’hanno tirata su a Champ de Mars. Giusto a due passi dal Palais national, la Casa Bianca di Port-au-Prince tuttora tristemente reclinata fra le sue stesse pietre diroccate. Nel dedalo puzzolente che ospita migliaia di disgraziati ammassati uno sull’altro in condizioni igieniche terrificanti, mi imbatto in Louise. Non saprei darle un’età. Indossa un grembiule blu e un cappellino da due soldi portato di sghimbescio. Come è capitato a buona parte del suo popolo, nel «tremblement de terre» del 12 gennaio Louise ha perso la casa e dei parenti. Nella fattispecie, il padre e due cugine. Ed ora può solo cercare di sopravvivere e di aiutare a sopravvivere i figli e i nipoti che condividono con lei un miserabile rifugio di stracci infestato dagli insetti e dai topi e privo perfino di una stuoia su cui dormire la notte. L’ultima nata in famiglia avrà, al massimo, tre mesi. La matriarca se la fa passare dalla figlia più giovane, Louisine, e se la stringe forte al petto. Da queste parti, i bambini spariscono facilmente. E, ancor più facilmente, le ragazzine come Louisine finiscono vittime dei rapimenti e degli stupri in costante aumento. A pochi metri da noi, due donne seminude si insaponano e si lavano approfittando di uno dei rari momenti in cui l’unica fontana della piazza lascia filtrare un rivolo d’acqua scura e bavosa. Inutile dire che la vasca della fontana fa da lavabo e da bidet (e non solo quello) per tutto il campo. Ma va già bene così, dal momento che altrove – in pratica dappertutto – la gente si arrangia con i canali di scolo delle fognature che, solo a guardarli, ti rivoltano lo stomaco.
Saluto Louise e la sua zattera di disperati alla deriva in quell’oceano di degrado e di abbandono e mi inoltro per la Grande Rue di Port-au-Prince, la principale arteria della capitale. Almeno qui, buona parte delle macerie sono state rimosse. E molti edifici collassati sono stati definitivamente abbattuti. Ma non appena giro l’angolo, il panorama torna ad essere quello da «the day after» atomico di un anno prima. Un uomo senza una gamba si aggira fra le bancarelle sventrate del mercato saltellando penosamente sulla sua protesi di plastica. Un altro si dedica diligentemente alle proprie abluzioni immerso fino al ginocchio in una enorme pozzanghera. Un ragazzino sbuca d’improvviso dalla sua tana scavata sotto un cumulo di coriandoli di pietra, per svanirvi di nuovo dentro come un ratto impaurito. La sola cosa rimasta in piedi è una statua raffigurante la «regina degli schiavi» che regge dei ceppi spezzati: il simbolo della liberazione di questo popolo, diretto discendente dei «gens de couleur» africani deportati sulle navi negriere, oggi di nuovo schiavo di tutto. Pure del colera, incredibilmente «importato» – come ribadito dall’epidemiologo francese Renaud Piarroux – da un contingente di ignari «peace-keepers» nepalesi. Per fortuna, grazie al lavoro questa volta encomiabile svolto in particolare da «Médecins sans Frontières», l’epidemia che in poche settimane ha fatto 3.700 morti e 170.000 contagiati pare essersi stabilizzata. Nel campo di «MsF» che vengo autorizzato a visitare, i ricoveri stanno lentamente diminuendo. Anche se i corpi squassati dalla diarrea e le facce contorte di quei poveri malati sembrano sussurrare: «Perché? Perché anche questo?».
Eppure, nonostante le sue mille piaghe, Haiti continua a credere nella resurrezione. La mattina del primo anniversario del terremoto, una grande folla si raduna dinanzi allo scheletro sventrato della cattedrale di Port-au-Prince per assistere alla solenne commemorazione delle vittime celebrata dall’inviato del Papa: il cardinale originario della Guinea, Robert Sarah. Il cardinale nero fatica a farsi largo fra la gente in attesa sotto un sole abbacinante che inonda di luce la grande croce bianca rimasta miracolosamente intatta fra le rovine della cattedrale. «Dovete unirvi. Dovete dimenticare i giochi della politica e del potere. Dovete pensare ai giovani. Solo così Haiti risorgerà», scandisce nell’omelia l’inviato di Benedetto XVI. Ad ascoltare quella invocazione, non c’è il presidente uscente René Préval. Non potendo più ricandidarsi alle elezioni svoltesi lo scorso novembre, costui ha puntato tutto sul genero dato alla vigilia per sicuro vincitore. Previsione rivelatasi del tutto errata. Giacché, alla faccia di una campagna milionaria e dei brogli a ripetizione gestiti rimpinzando le liste elettorali di nominativi di gente perita nel terremoto (tant’è che un sacco di cittadini presentatisi regolarmente ai seggi si sono poi sentiti dire esterrefatti «Spiacente, ma tu hai già votato»), il genero-controfigura non si è neppure classificato per il ballottaggio al secondo turno. Invece di riconoscere la clamorosa sconfitta, Préval si è rifiutato di comunicare ufficialmente i risultati inimicandosi definitivamente il popolo. E pure gli americani e i francesi, i quali però non sono ancora riusciti a imporgli di togliersi di torno. Da qui, il caos politico più totale di cui pure alcuni ex-dittatori deposti, da «Baby Doc» ad Aristide, stanno cercando di approfittare.
Ma, allora, dov’è la luce di «Haiti Chérie»? Prima di ripartire per l’Italia, vado a cercarla nel Nord del Paese. In quella Cap-Haïtien (l’ex Cap-Français) dove un monumento celebra ancora la vittoria dell’armata di schiavi che, nel 1803, riuscì a buttare a mare l’esercito coloniale di Napoleone Bonaparte. Ed eccola, finalmente, la luce che cercavo. Tenuta accesa da un santo missionario salesiano, originario di Cherasco in provincia di Cuneo, che di nome fa Attilio Strà. Dopo trentacinque anni passati a servire gli ultimi in questa terra terremotata già da prima del terremoto, e nonostante quest’ultimo gli abbia leso gravemente la colonna vertebrale aggravando così le sue già precarie condizioni di salute, Attilio non ha mai smesso di lottare insieme agli altri Salesiani presenti nel Paese per l’ideale di Don Bosco: salvare i giovani. Lui e i suoi «ragazzi di strada» stipati in un buio sgabuzzino dove piove dal soffitto e bisogna fare a turno per mangiare (quando ce n’è), dormire e studiare, mi accolgono cantando in coro «Bienvenue!». Fuori, Haiti è lo spietato regno dell’ingiustizia, della violenza e della rapacità umana di sempre. Ma lì dentro, nel fortino di Attilio, c’è ancora tanta voglia di camminare e di sperare insieme. I ragazzi continuano a battere le mani melodiando felici «Bienvenue!». Mi sembra già di conoscerli uno per uno. Il loro nome è «Oggi». E non domani.
Pino Agnetti

martedì 25 gennaio 2011

È MORTO MONSIGNOR “TATIC”

Era definito il vescovo “degli indios e dei poveri” del Chiapas

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È morto ieri mattina per complicazioni legate all’ipertensione e al diabete di cui soffriva e che il 12 Gennaio scorso avevano portato al suo ricovero in un ospedale di Città del Messico, monsignor Samuel Riuz Garcia,vescovo emerito di San Cristóbal de las Casas, in Chiapas. Premiato nel 2002 dalla giuria del Premio internazionale per i diritti umani, istituito nel 1978 dall'Unesco, e candidato nel 1994 al premio Nobel per la Pace per il ruolo di mediazione svolto tra il governo messicano e l’insurrezione zapatista dell’Ezln (Esercito zapatista di liberazione nazionale), monsignor Ruiz è stato più volte definito il vescovo “degli indios e dei poveri”...
Officiando la messa in omaggio di Samuel Ruiz organizzata nella cappella del Cuc, il vescovo di Saltillo, Raúl Vera, ha ricordato come “tatic (padre in lingua tzotzil, ndr) Samuel ha sempre avuto occhi per vedere l’immagine di Dio in ognuno dei suoi fratelli e sorelle”.
Leggi tutto: MORTO MONSIGNOR SAMUEL RUIZ, IL “VESCOVO DEI POVERI” DEL CHIAPAS
Ora che la sua Pasqua si è compiuta, ci sentiamo inevitabilmente un po’ orfani, ma anche terribilmente responsabilizzati, dall’aver incrociato sul nostro cammino un autentico profeta. Per questo, col groppo che serrava la gola di Eliseo, mentre vedeva rapire in cielo il suo maestro, anche noi vorremmo urlargli: «Tatic, lascia qui due terzi del tuo spirito!».
Leggi tutto: «El caminante» ha raggiunto la meta

Fonte

L’omaggio più gradito: gli indios pregano per Tatic

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Mientras depositaban veladoras y flores junto al féretro, los indígenas hablaban y rezaban con el Taticclip_image004Foto Víctor Camacho

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LA DIGNITÀ DI ESSERE L’ALTRA METÀ DEL CIELO

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Riusciremo a ridere, o quanto meno a sorridere, quando tutto questo sarà alle spalle? Cercando di dare un nome ai sentimenti che si provano davanti allo spettacolo che una intera classe politica sta dando di sé, e del paese, al mondo intero, credo che si possa anche parlare di lutto.
Un senso di lutto che sta tutto dentro ad un avverbio, più volte ricorso nelle risposte dei padri e dei fratelli delle presunte fidanzate del capo del governo che, raggiunti dai colleghi speranzosi di fare lo scoop, rispondevano così alla domanda se la loro congiunta fosse la favorita del sultano: “Magari”. La storia umana è piena di frasi semplicistiche ma efficaci, che si tramandano e si traducono in molte lingue per dire verità scomode e incancellabili, e una di queste è pecunia non olet. E infatti questi padri e fratelli hanno educato e promosso le loro figlie ad un principio e ad una pratica di vita che bene è stata confermata dalla ormai celebre Karima, che in un brano telefonico intercettato dice, riferendosi al premier: “ Finché ci sta lui io mangio, se lui se ne va che cazzo mangio più?”.
Cibo, sostentamento, casa, riparo, salute, lavoro, pace, bisogni primari come quello di potersi mantenere per vivere la propria vita. Ma è davvero ormai diventato normale fare qualunque cosa per soddisfare ogni bisogno? Di quali bisogni, di quali valori trasmessi come imprescindibili stiamo realmente parlando, di fronte ad adulti e maggiori (ricordate la famiglia di Noemi Letizia, che offriva la figlia con tranquilla serenità al premier e alla stampa?) che invitano le nuove generazioni a vendersi, perché è così che si fa, perché è così che tutte e tutti fanno?
Dai furbetti del quartierino, alle veline, alle velone, alle letterine, passando per le ragazze immagine, i tronisti, le escort, l’Italia in questi anni ha arricchito di nuove parole e nuove figure il vocabolario e l’immaginario della corruzione, del disimpegno, della banalità del male che lentamente ci ha fatto regredire a paese da studiare con attenzione, ma non certo dove vivere con agio.
Non molto tempo fa si diceva ‘dignitosa’, della vita, come auspicio per sé e per chi ci era vicino. Forse vale la pena di rammentare cosa si intenda per dignità. Vado in rete, su wikipedia, e leggo:
Con il termine dignità si usa riferirsi al sentimento che proviene dal considerare importante il proprio valore morale, la propria onorabilità e di ritenere importante tutelarne la salvaguardia e la conservazione. Per i modi della sua formazione e le sue caratteristiche intrinseche, questo sentimento si avvicina a quello di autostima, ovvero di considerazione di sé, delle proprie capacità e della propria identità. Pertanto il concetto di dignità dipende anche dal percorso che ciascuno sceglie di compiere, sviluppando il proprio ‘io’. Ugualmente si riconosce dignità alle alte cariche dello Stato, politiche od ecclesiastiche richiedendo che chi le ricopre ne conservi le alte caratteristiche.
Ed ecco un’altra parola, autostima, che rimbalza, e ferisce fortissima come una lama improvvisa negli occhi abituati al buio. Quale può essere l’autostima che provano per se stesse le migliaia di giovani donne che in questi anni sono state l’esercito di manovalanza per le cene, le trasferte vacanziere, gli intrattenimenti,(nel prima e nel dopo cena), per gli ospiti, anche di Stato, come Gheddafi e Putin?
Il Financial Time, che ieri titolava L’Italia merita di più , nel 2007 aveva aperto una finestra sullo squallore culturale in cui il nostro paese versava: l’articolo di Adrian Michaels era intitolato Naked ambition, (ambizione nuda) e anticipò le riflessioni offerte due anni dopo da Lorella Zanardo nel suo documentario Il corpo delle donne. Pensare che quell’articolo fu aspramente criticato dal governo, fino al punto di suggerire una possibile ingerenza negli affari italiani, oggi sembra quasi irreale. Veramente gli italiani, ed in particolare le donne italiane, ritengono accettabile che si vendano, sulla tv terrestre, quiz di prima serata cercando di provocare i genitali dei maschi e non i cervelli degli spettatori?- si chiedeva Michaels  nell’articolo. Veramente oggi in Italia ci sono così tante madri e padri che si augurano che le figlie e i figli riescano a sfondare nel mondo dello spettacolo, o in altri ambiti, non importa come? Veramente ha vinto nel cuore e nelle teste di molti adulti il modello che da venti anni a questa parte la mafiosa gestione nazionalpopolare dell’informazione e dell’intrattenimento ha inculcato dalle tv nelle nostre case?
Perché tutto non si risolva in una battuta, in qualche servizio tv (ieri erano ben tre solo su Rai tre, tutti alla ricerca della fidanzata, quando forse ci sarebbero notizie da dare e inchieste da fare) non basta chiedere che questa classe politica corrotta vada via, e che la magistratura operi con severità.
Serve un progetto culturale e politico che dia spazio, voce e opportunità alle tante, e ai tanti, giovani e non, invisibili fin qui perché quasi mai oggetto di ribalta mediatica, che hanno detto no. Non a tutti i costi: ci sono beni e valori indisponibili, non siamo in vendita, la dignità viene prima.
Monica Lanfranco

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Aforismi

· Il primo bene di un popolo è la sua dignità. (Cavour)
· [...] i grandi guadagni, si sa, rendono le donne accessibili, specialmente quella categoria di donne che cerca di vendere la propria bellezza al prezzo più alto possibile (una volta sola, ma in modo definitivo, facendo il colpo della vita) e va fiera, chissà per quale motivo, di aver evitato in tal modo la prostituzione nuda e cruda. (S. Samsonov, Un fuoriclasse vero)
· Certo che le donne sono sciocche: Dio onnipotente le ha create per essere uguali agli uomini. (G. Eliot)
· Le donne sono capaci di tutto, e gli uomini di tutto il resto. (H. de Regnier)
· Spesso la donna è cuoca in salotto, puttana in cucina e signora a letto.
(E. Flaiano)
· Lasciamo le belle donne agli uomini senza fantasia. (M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto)
· Le puttane sono sensibili quanto le altre e non parlano. (P. Drieu La Rochelle)
· Tutte le donne con cui ho avuto una relazione mi hanno insegnato qualcosa di me stesso. In questo senso mi hanno reso migliore. (J.M. Coetzee, Vergogna)

lunedì 24 gennaio 2011

COME PUÒ UNA DONNA AFFIDARE IL SUO VOTO A UNA CLASSE POLITICA DEL GENERE?

Partendo dalla lettera di un'"addetta ai lavori", secondo cui finché c'è "mercato" ci sarà offerta, alcune considerazioni sulla questione femminile in Italia. Ma soprattutto alcuni interrogativi intorno all'uso del corpo, trasformato in pezzi macellati e pronti per l'uso.

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Avevamo pensato di utilizzare questo messaggio arrivato in redazione nella sezione C’è posta per noi. C’era già il titolo, “Caro Domani, mi vendo perché mi pagano. Si chiama mercato, dove esistono domanda e offerta”, e avevamo mantenuto la richiesta della mittente di pubblicarne solo le iniziali per ovvie ragioni, “V. V., hostess, ragazza immagine, talvolta escort, Milano”. Ecco cosa ci scriveva:
“Ma di cosa vi scandalizzate tanto? Pensate davvero che noi, prostitute d’alto bordo, per usare un linguaggio un po’ desueto (sono stata a scuola anche io, addirittura ho preso una laurea umanistica), siamo solo delle bellocce parcheggiate nei bar tra Brera e via Monte Napoleone in attesa del cliente di turno? Ora vi racconto per sommi capi la mia storia. Faccio parte anche io delle bellocce. All’università facevo di giorno la hostess nelle fiere e la sera ballavo nelle discoteche. Non c’è voluto molto per fare il “salto di qualità“: aggiungere delle entrare extra a quelle che si possono inserire nella dichiarazione dei redditi. Vado a cena con un farmacista, a teatro con un avvocato, a fare shopping con uno sportivo. A letto con tutti. Loro mi pagano (e pagano le varie ed eventuali: ristorante, hotel, boutique) e io vendo quello che vogliono. Non ho uno “sfruttatore”, non metto annunci su Internet per adescare, mi limito a beneficiare di un passa parola benevolo nei miei confronti. Io sarei una di quelle che avrebbe preso il taxi per tornare a casa perché mi sono imposta delle regole (o, per meglio dire, delle garanzie di auto-tutela). Non voglio sfondare nel mondo dello spettacolo, preferisco che volto e dettagli fisici rimangano anonimi. Ma ne conosco tante di ragazze che quel “disposta a fare tutto” lo sono. È il mercato: a fronte di domanda costante, c’è offerta. E più in alto si vuole puntare, più si deve essere disponibili a cedere. Pensate davvero che questo fenomeno un giorno potrà essere stroncato?”
Poi, discutendone, ci abbiamo ripensato. L’estate scorsa l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha diffuso un’indagine in cui, in Italia, solo il 46,4 per cento delle donne in età lavorativa è occupata. L’Istat invece ci informa che 6 milioni sono quelle che, tra i 16 e i 70 anni, hanno subìto una qualche forma di violenza, la maggior parte nell’ambito domestico. Un recente libro di Loredana Lipperini (“Non è un paese per vecchie”, recensito su queste pagine) racconta invece che il tenore di vita delle anziane è inferiore a quello degli coetanei dell’altro sesso e che il carico dei problemi familiari grava quasi in toto sulle spalle donne mature (sopra i 50 anni).

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Il prodotto che scaturisce da questi fattori non è molto diverso dal frutto di analisi ben più articolate: la questione femminile, in questo Paese, è tutt’altro che risolta. Certo, non siamo ai livelli descritti dalle immagini del recentissimo bel film francofono Women are heroes, che affronta ben altri tipi di problemi vissuti dalle donne di Brasile, India, Kenia e Cambogia. Ma qualche interrogativo ci viene da aggiungerlo a quello posto dalla milanese V. V.
In merito alle donne al potere (almeno politico) in Italia, gli ammiccamenti alludono alle abilità più impudiche, non alle reali capacità professionali. Sul piccolo schermo bucano, più che le brave giornaliste o conduttrici, le scosciate, che diventano maîtresse à penser di salotti dai titoli orwelliani o talk show dalle emozioni facili e forti (si noti poi che in termine francese maîtresse si può tradurre anche con il corrispettivo “amante”). Nei commenti che si vorrebbe appartenessero a un para-sciovinismo d’altri tempi, quella femminile non è una presenza qualificata a cene o occasioni pubbliche. Al più è una presenza piacevole, che allieta, che fa complemento d’arredo al pari di un bel bouquet di fiori o di un quadro d’autore (difficilmente d’autrice). In quelli più boccacceschi di questi giorni, la donna sveste (verbo azzeccato, per quanto metaforico in questo contesto) i panni dell’essere umano e assume i connotati dei suoi attributi anatomici, come se si assistesse a uno snuff movie: pezzi di carne macellati e pronti da consumare.

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Mr Toledano: Breasts With Hair Small

Le cronache dei giornali e i documenti giudiziari che filtrano ci parlano di situazioni riconducibili a una specifica parte politica, per quanto qualche nome dell’opposta fazione lo si ritrovi negli incartamenti. Qui però non si vuole fare una questione di partigianeria, si vuole parlare di quei potenti in base all’accoppiata cromosomica XY, quella che caratterizza i mammiferi maschi. E si vuole interrogare le donne. In una trasversalità politica e anagrafica sorprendente, si è sentito spesso dire che il femminismo avrebbe, quanto va bene, stancato. Altrimenti avrebbe fallito. Per quanto personalmente si trovi fuori luogo un’affermazione del genere, non si vuole spingere nessuna a un ritorno alle istanze di tutela di genere portate avanti in passato. Si cerca solo qualche risposta.
Perché – secondo le cittadine italiane – si è arrivati in tempi di post-modernità a una concezione della donna come strumento di piacere, quando non di vero e proprio strumento di controllo (o manipolazione. Si veda un fresco articolo del New York Times)? Com’è possibile conferire la propria fiducia di elettrici a una classe politica che irride le quote rosa imposte per legge e informalmente le riserva a presunte concubine o sospette complici? È dunque il basso impero – o un revival di sconcio assolutismo pre-rivoluzionario – l’immagine pubblica dentro cui inchiodare alcune donne italiane mentre molte altre sono a casa a studiare, crescere figli, far quadrare i conti, talvolta prenderle dai compagni o, se occupate, far doppio lavoro – dentro e fuori le pareti domestiche – per mantenere lo status quo di una società maschilista che diventa matriarcale solo quando bisogna farsi carico di fatica e lacrime?
Antonella Beccaria

domenica 23 gennaio 2011

FOTOGRAFIA DI UN PAESE

In questi giorni abbiamo volutamente evitato di commentare l’ennesimo “sexygate” che ha coinvolto il presidente del consiglio.

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Confessiamo di trovare poco interessante tutta questa prouderie politica di chi sbircia dal buco della serratura altrui ed è quantomeno paradossale che dopo anni di devastazione sociale di Berlusconi e complici la cosiddetta opposizione riprenda parola solo quando si tratta di Noemi, di Papi o di bunga bunga. Se rompiamo questo silenzio è solo perchè siamo stati stimolati da un sondaggio IPSOS pubblicato alcuni giorni fa dal quotidiano Europa che, in sintonia con altre rilevazioni demoscopiche, fotografa un’Italia relativamente indifferente a questo polverone mediatico. Perchè la fiducia nel premier non cala? Perchè le intenzioni di voto non si modificano? Oggi diversi opinionisti si interrogano sorpresi sulle ragioni di questa mancata “indignazione morale” e in molti concordano nell’attribuirla al deficit di credibilità del centrosinitra. Nessuno però sembra voler fare i conti con le trasformazioni antropologiche che hanno squassato questo Paese nell’ultimo trentennio e di cui il berlusconismo è culturalmente al tempo stesso causa ed effetto. Per trasformare le cose bisogna prima avere chiaro come stanno, raccontarsele per come esse sono e non per come vorremmo che fossero. In questo Paese di “Italie” ne convivono almeno due, e quella dominante, quella che informa di sè il senso comune, quella che produce ideologia, è quella che meno ci piace e ci assomiglia. Potremmo spendere fiumi di parole per analizzarla, ma alla fine crediamo che bastino i commenti dei parenti più prossimi delle ragazze coinvolte, come il padre che spinge la figlia ad essere meno timida perchè altrimenti le passano tutte davanti, o il fratello che suggerisce di chiedere in cambio un posto di lavoro oppure quell’altro genitore che al cronista che gli chiede se è sua figlia ventiseienne la nuova compagna dell’ottuagenario Berlusconi risponde: magari. Una società mucillaginosa (come la descrisse De Rita qualche anno fa), un crossover di format e generi diversi, un po’ “Uomini e donne”, un po’ “Grande fratello”, un po’ “L’isola dei famosi”… dove la distinzione non è più tra chi lavora e chi sfrutta, tra chi ha e chi non ha, tra chi sta sopra e chi sotto.
Per questa Italia la faglia incolmabile adesso passa tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi è visibile e chi resta invisibile, tra perdenti e vincenti e come in un ring ottagonale pur di passare da un campo all’altro vale tudo. C’è poi l’altra Italia, quella che magari lavora otto ore al giorno alla catena di montaggio per un salario che equivale a quattro pompini di Emilio Fede, o quella precaria che esce ed entra dal mercato del lavoro sempre più povera di diritti. L’Italia che vota no a Pomigliano e Mirafiori, quella che scende in piazza il 16 ottobre e quella che si scontra per ore con la polizia il 14 dicembre. Un paese che però ha sempre meno consapevolezza di sè, che fatica a riconoscersi in funzione del suo essere sociale e a cui manca una rappresentanza, ma a cui soprattutto manca un grande narrazione in grado di prospettare un’idea di società altra, alternativa alla merda in cui ci hanno condannati. E fino a quando questo sarà, questo paese pur se maggioritario nei numeri non potrà che ritrovarsi minoranza culturale e politica. Noi crediamo che sia questo il punto da cui ripartire.
Militant

SOLO 3 CENT DI ARANCE IN UN LITRO ARANCIATA

(AGI)  - In un litro di aranciata, venduto mediamente a 1,30 euro, "ci sono solo 3 centesimi di arance che peraltro spesso vengono 'spacciate' come made in Italy anche se provengono dal Brasile o dalla Florida".



E' quanto denuncia la Coldiretti nel raccogliere "le giuste sollecitazioni di Adiconsum e Legaconsumatori che dalla Calabria, per 'non lasciare sola Rosarno', hanno promosso per il weekend 'lo sciopero dell'aranciata' per spezzare la catena dello sfruttamento che partendo dagli scaffali inganna i cittadini e colpisce imprese agricole e lavoratori". Sulla base di una legge nazionale ormai datata (la numero 286 del 1961) - spiega la Coldiretti - le bevande al gusto di agrumi possono essere colorate a condizione che contengano appena il 12% di succo di agrumi: "un inganno per i consumatori che mette di fatto anche un cappio al collo all'intera filiera agrumicola con lo sfruttamento dei lavoratori e dei produttori agricoli ai quali per le arance vengono riconosciuti molto meno di 10 centesimi al litro". "Basterebbe - continua la Coldiretti - pagare le arance ai produttori qualche centesimo di piu' ed aumentare di alcuni punti percentuali oltre il 12% il succo di agrumi nelle bibite per spezzare, con trasparenza e legalita', la catena di sfruttamento che sottopaga il lavoro ed il suo prodotto". La richiesta della Coldiretti e delle associazioni dei consumatori e' quella di aumentare il contenuto minimo di succo di agrumi nelle bevande e di rendere trasparente in etichetta la provenienza del succo utilizzato, sulla base della legge sull'etichettatura approvata recentemente dal Parlamento.
Con 18 chili di arance si ottiene un chilo di succo concentrato dal quale si ottengono 6 litri di succo naturale che consentono di produrre circa 50 litri di bibita contenente il 12 per cento di succo di arancia: "tenuto conto di queste percentuali e considerato che e' pari a 8 centesimi al chilo il prezzo proposto agli agricoltori per le arance mentre in media le aranciate vengono vendute a 1,3 euro al chilo, si verifica un aumento dei pezzi dal campo alla tavola addirittura del 4233%".   (AGI) Com/Bas Com/Bas

mercoledì 19 gennaio 2011

HAITI È DOPATA DAGLI AIUTI E L'ASTINENZA FARÀ MALE

Gli haitiani devono prendere in mano la loro vita e ricostruirsi un futuro, senza aspettare in continuazione gli aiuti esterni. È l'auspicio di Frantz Duval, redattore capo di Le Nouvelliste, il quotidiano di riferimento sull'isola.
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    Haitians in Cité Soleil Queue for Food

     
    Intervista
    «Celebrare la vita». Come tutti gli haitiani, Frantz Duval avrebbe voluto assistere alla commemorazione del 12 gennaio – primo anniversario del terremoto che ha fatto circa 300'000 morti ad Haiti – dimenticando tutti i problemi che toccano il suo paese. «Siamo tutti dei sopravvissuti», ricorda umilmente il giornalista.
    Eppure una volta terminate le celebrazioni, la popolazione è tornata a rimboccarsi le maniche per ricostruire un paese che sopravvive grazie agli aiuti della comunità internazionale. Il redattore capo del quodiano Le Nouvelliste auspica una reazione a livello nazionale, senza la quale le disillusioni potrebbero essere ancora più terribili delle catastrofi che hanno colpito l'isola lo scorso anno.
     
    swissinfo.ch: Frantz Duval, il 2010 è stato l'anno peggiore per Haiti?
    Frantz Duval: Sì, è stato un anno molto difficile. C'è stato il terremoto, il passaggio dell'uragano Tomas, il colera e la crisi politica. Ma a parte questo, abbiamo dovuto fare i conti soprattutto con una carenza di leadership. Nessuno era pronto a cogliere la sfida che ci si è presentata davanti. Non soltanto il mondo politico, ma anche gli altri settori della società. E lo dico in tutta umiltà perché questo concerne anche la stampa.
     
    swissinfo.ch: Lei è un osservatore privilegiato della vita quotidiana ad Haiti. Come giudica lo stato psicologico della popolazione?
    F. D.: Ad Haiti, l'aspetto psicologico non si può misurare in modo scientifico. Solitamente il dolore è qualcosa di personale, lo si scaccia piangendo, urlando, oppure parlandone ed è ciò che la gente ha fatto dopo il sisma. Questa volta però la catastrofe è talmente grande che non sono sicuro che tutto ciò basterà. Quella del terremoto è stata un'esperienza difficile e unica per noi tutti. 

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    Children Scavenge for Valuables in Garbage Dump in Haiti

    swissinfo.ch: Un anno più tardi, la ricostruzione del paese è a un punto morto. Perché?
    F. D.: Ciò che deploro, è che durante la fase di ricostruzione non ci sia stato nessuno a dirci: «prendete in mano la vostra vita, rialzatevi, cercate di ricostruire le vostre case». È come se il paese stia aspettando che un aereo sbarchi un mattino e ricostruisca tutto. Gli haitiani pensavano (e lo pensano tuttora) che verrà data loro una casa, dell'acqua, del cibo. Ripongono tutte le loro speranze in Dio o nelle organizzazioni internazionali. È per questo che oggi c'è tanta disillusione e che il processo contro le organizzazioni internazionali e i paesi amici è così importante.

    swissinfo.ch: La comunità internazionale non ha forse la sua parte di responsabilità?
    F. D.: Un anno dopo il sisma, avrei voluto anch'io che le ONG facessero il loro mea culpa. Non bisogna continuare ad aiutare Haiti, ma bisogna guardare il cammino percorso e cambiare ciò che non ha funzionato. Non è troppo tardi, in molti campi siamo ancora in uno stato d'urgenza.
    L'aiuto e la solidarietà sono inevitabili. Ma è come andare in bicicletta, ci vogliono due piedi per poter pedalare. Un esempio sorprendente: dal giorno del terremoto ci hanno portato aerei strapieni di acqua. Ma in realtà, di acqua ce n'è sempre stata ad Haiti. Ciò che ci manca, sono delle reti di adduzione per trattare l'acqua e farla arrivare nelle case della gente. Quando smetteranno di darci l'acqua gratuitamente, ci ritroveremo nello stesso imbarazzo di prima. Quando si accetta un aiuto senza però dire all'altro che è possibile far meglio, si passa sopra all'obiettivo che si vuol raggiungere.
    Il giorno in cui non avremo più queste stampelle, questa tutela senza nome, cadremo ancora più in basso. Siamo un paese ormai dopato dagli aiuti e l'astinenza farà male.

    swissinfo.ch: Lei ha parlato di tutela, mentre altri parlano di un'ingerenza straniera che dura ormai da decenni. È questa una delle ragioni del malessere di Haiti?
    F. D.: Non voglio colpevolizzare la comunità internazionale. In qualche modo siamo tutti complici, o perfino colpevoli, di questa tutela. Se questa strategia non funziona, è anche perché non le si dà un nome. Ci si ritrova in mezzo a coloro che vogliono una tutela completa e coloro che non ne vogliono affatto. E anche questo crea un problema di leadership.

    swissinfo.ch: Attualmente 10'000 soldati della MINUSTAH – forza di stabilizzazione dell'ONU – sono di stanza ad Haiti. Questa presenza è giustificata?
    F. D.: Non è giustificata, perché ad Haiti non ci sono mai stati scontri armati tra due fazioni precise. Ci sono sempre stati disordini, ma siamo seri, ci sono altre regioni al mondo dove la violenza è ben peggiore. Le forze della MINUSTAH non hanno mai sparato contro nessuno. La pace avrebbe potuto essere imposta in un altro modo. Come sottolineato dal presidente Préval, ci vorrebbero dei caschi rossi, degli specialisti delle Nazioni Uniti per lo sviluppo. È questo il vero problema ad Haiti: i mezzi inesistenti. Il budget della MINUSTAH è più importante di quello dello Stato haitiano.

    swissinfo.ch: Il processo elettorale continua a paralizzare il paese. Secondo lei è stato un errore voler organizzare le elezioni ad ogni costo?
    F. D.: Queste elezioni erano iscritte nell'agenda politica ed era dunque normale organizzarle. Il problema è che la comunità internazionale si è ostinata a far credere che tutto andasse bene. Dal mese di giugno, sapevamo che c'erano dei problemi con la distribuzione delle carte di identificazione. Ancora oggi, le stanno ancora ripartendo…
    Ma al di là delle frodi e del voto, il problema di Haiti è che nessuno vuole uscire durante le elezioni. Partendo da questo presupposto, non può esserci democrazia perché il principio di base dell'elezione postula che ci siano dei perdenti.

    swissinfo.ch: Nel 2011 la situazione ad Haiti si sbloccherà e il paese potrà finalmente iniziare la sua ricostruzione?
    F. D.: Sono obbligato a rispondere con un augurio. Spero davvero che ci sia uno slancio nazionale in tutti i settori, non solamente in quello politico, che non è che la punta dell'iceberg. Ad Haiti, infatti, adoriamo i mostri immensi. Il presidente e i parlamentari sono definiti delle specie di Leviatano (Terribile creatura biblica, ndr.), responsabili di tutto. In realtà ognuno deve lavorare al suo livello per inventare questo sogno haitiano, affinché il desiderio di vivere sia un sogno condiviso. Oggi tutti vogliono andarsene e accusano il paese di non offrire loro la speranza di una vita migliore. Siamo quasi tutti di transito qui. Un paese non può svilupparsi quando il desiderio più grande della sua gente è di andarsene ad ogni costo.
    Samuel Jaberg, swissinfo.ch
    Petit-Goâve, Haiti


    Articolo correlato: Haiti, la repubblica delle ONG

    domenica 16 gennaio 2011

    BRASILE:UN DISASTRO ANNUNCIATO

    AGI) Brasilia - Mentre il bilancio provvisorio delle vittime delle devastanti piogge in Brasile ha raggiunto quota 601, torna alla luce un rapporto sul rischio di devastanti smottamenti stilato dai geologi nel 2008. Nel documento i tecnici avvertivano che se non si fosse intervenuto preventivamente le tre citta' oggi piu' colpite, Teresopolis, Petropolis e Nova Friburgo, sarebbero state spazzate via dall'acqua.


    Il salvataggio di un uomo (14/01/2001)

    venerdì 14 gennaio 2011

    HAITI:DARE UN SENSO AL DOLORE

    Sono oltre un milione le persone, di cui la metà bambini, che continuano a vivere nelle tende, mentre un'epidemia di colera ha provocato quasi 3.800 morti da ottobre.

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    Crocifissi spesso senza nome nel cimitero di Titiyan alla periferia di Port-au-Prince - January 11, 2011.
    Credit: REUTERS/Jorge Silva

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    Migliaia di vittime del terremoto di Haiti del 12 gennaio 2010 sono ancora sotto le macerie.

    Il colera è l’emergenza nell’emergenza

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    Epidemic: A Haitian girl receives an intravenous drip at a cholera treatment centre run by Medecins Sans Frontieres

    Grande è la rabbia nella gente che grida ad una voce: “Noi siamo stanchi!”

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    Ground zero: One year after a massive earthquake destroyed Haiti more than a million people are still living in tent camps such as this one

    Ma nonostante terremoti, uragani, deforestazione, miseria, stupri, corruzione, rapimenti, povertà, rifiuti, violenza, bande criminali, aiuti sprecati o svaniti, colera, frodi elettorali, acqua sporca, orfani e amputazioni, la volonta di ridare dignità alla loro vita e a quella della loro terra spinge gli haitiani a voler voltare pagina per ricominciare.

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    Earthquake survivor Darlene Etienne (down) poses with a photo of her rescue shot
    image © The Associated Press
    A close up shows how the 17-year-old was pulled from the wreckage (up)

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    A man carries a coffin through the street in Port-au-Prince, Haiti Photograph: Ramon Espinosa/AP

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    Credit: REUTERS/Jorge Silva

    Mons. Louis Kébreau, arcivescovo di Cap-Haïtien e presidente della Conferenza Episcopale di Haiti in una intervista ha dichiarato: Ci sono un numero infinito di Ong nel Paese, sono più di 10 mila! Cosa stanno facendo? Ci chiediamo se non ne approfittino e alla fine questo denaro vada a rimpinguare i loro conti. Intanto però, l'unica vera grande vittima è il popolo haitiano, che geme nella sofferenza, nella miseria e che ancora non vede prospettive per l'avvenire.”

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    A QUANDO LA RICOSTRUZIONE?

    Il segno della speranza

    È stato riaperto le Marché de Fer ( il mercato di ferro) di Port-au-Prince

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    Ultimi ritocchi per il mercato di ferro di Port-au-Prince, ricostruito dopo il terremoto dell’anno scorso. (Allison Shelley, Reuters/Contrasto)

    Eccolo com’era in un’immagine di Jordi Cohen

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    @jordicohen

    P.S.
    Non ho scusanti per il ritardo di questo post. Doveva uscire il 12, ma ho sbagliato a scrivere la data.

    mercoledì 12 gennaio 2011

    LA CRISI NELL'AFRICA DEL NORD

    Rivolta della fame contro i regimi corrotti del Nord Africa

    Secondo Marc Innaro, inviato Rai in Tunisia, domina la corruzione, mentre in Algeria c'è una rivolta della fame
    di Valentina Venturi
    Resta alta la tensione in Algeria, anche se oggi in quasi tutto il paese è tornata la calma dopo le violente proteste dei giorni scorsi che hanno fatto 5 morti e oltre 800 feriti. Ad Algeri e nel resto del paese la situazione è sotto controllo, anche se si rincorrono voci su una possibile ripresa delle proteste. In Tunisia ci sono stati scontri nelle strade, che tra sabato e domenica hanno causato 14 morti secondo fonti governative, 28 secondo altre testimonianze, fino a 50 stando al sito online della radio tunisina Kalima. Per Marc Innaro (audio), corrispondente Rai per l'Egitto e il Nord Africa, «stanno venendo a galla le enormi disparità sociali».


    Cosa sta accadendo nell'Africa del Nord?
    «Stanno venendo al pettine una serie di contraddizioni che da Paese a Paese per una coincidenza che può essere considerata anche una regia, stanno esplodendo in maniera contemporanea. Dal Marocco all'Algeria, all'Egitto e alla Tunisia un insieme di enormi disparità sociali nate durante il liberalismo, stanno in qualche modo esplodendo. Per esempio la Tunisia, a differenza di altri regimi, per anni ha puntato sull'educazione dei giovani, sull'istruzione diffusa. Ora si ritrova un'intera generazione di diplomati e laureati che manifesta anche in maniera violenta, per la mancanza di sbocchi professionali. L'unica possibilità è di lavorare in società di outsurcinge o nei call center, italiani e francesi, dove vengono sfruttati in maniera coloniale dai nostri imprenditori europei».

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    Ciò cui stiamo assistendo in questi giorni in Algeria e in Tunisia è l’esito di una combinazione di regimi politici per nulla inclusivi, crisi occupazionale e giovanile? «Assolutamente. A cui si aggiunge la totale impunità dei regimi di cui anno goduto in questi anni appoggiandosi alla visione che loro agli occhi dell'Occidente fungono da diga contro l'islamismo islamico. L'Algeria ha dei numeri superiori rispetto alla Tunisia, qui c'è davvero la rivolta della disperazione, del pane, del cous cous, della fame. Anche dei giovani, ma spesso senza istruzione superiore. In qualche modo sono tutte e due frutto di regimi chiusi e bloccati. In Tunisia c'è poi l'aggravante di una situazione che vede la moglie del presidente Ben Ali avere le mani in pasta in tutti gli affari che superano l'importo di 100 mila euro. Qui la disoccupazione intellettuale in Tunisia tocca il 45% dei diplomati e laureati. Numeri terrificanti di un paese che poi sulla carta ha tassi di sviluppo simili a quelli cinesi o indiani. Lo sbocco violento a cui ben Ali non trova altra soluzione che inviare i militari: una prova di debolezza, non di forza».

    Esiste il timore che il più grande dei Paesi del Maghreb possa nuovamente imboccare la via della violenza settaria come nella guerra degli Anni 90? «È un rischio ridotto rispetto, a quella degli anni Ottanta. La guerra civile in Algeria ha di fatto decapitato il consenso sociale con la repressione. Ora bisogna capire se c'è già, dietro la rivolta del pane, un embrione degli eredi del fronte islamico della salvezza, dei Salafiti. Le misure prese dal Governo algerino sembrano voler tamponare le falle».

    (valentina venturi)

    Articoli Collegati
    · Fame e disoccupazione incendiano il vicino Nord Africa. Scontri e vittime in Tunisia e in Algeria

    MORIRE DI FREDDO APPENA NATO

    “La Befana a Bologna non si perde neanche un bambino” cantava Lucio Dalla, ma era una Bologna di qualche anno fa.
    La Befana 2011 è arrivata tardi e ne ha perso uno: David Berghi, nato alla vigilia di Natale. Dormiva nel gelo dei portici di Piazza Grande assieme al gemello e alla sorella che non arriva a due anni. Padre e madre parlano toscano: avevano casa, non i soldi per l’affitto e si arrangiano tra la stazione e la Sala Borsa dove il benessere ogni giorno controlla i conti. Andavano a scaldarsi alla Caritas fra brodi che fumano, ma con la paura dello sguardo di chi cerca i vagabondi ai quali portare via bambini costretti a una vita così. Due già finiti in una casa protetta, questi li volevano per loro, amore incosciente dalle tasche vuote: fra le luci dello shopping David è volato via.
    Lo sconforto di Paolo Mengoli, direttore della Caritas, rimpiange la città alla quale “manca un padre di famiglia” con l’autorità di superare le burocrazie che “rimandano alle calende greche la soluzione dei disagi”. Insomma, qualcuno che risvegli coscienze ormai distratte; non vedono gli stracci che incontrano per strada.

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    Com’è lontano “Quel pezzo dell’Emilia” di Edmondo Berselli, terra di comunisti, motori, cucina grassa e italiani di classe, alchimia capace di coniugare la vita dolce con equità e servizi sociali: nessun barbone doveva restare solo. Invece erano cinque, due appena nati.
    La gente li scavalcava come nel documentario che nel ‘56 vinse il Festival di Venezia: Sulla Bowery, strada in fondo a Manhattan. Racconta l’orrore di un’America allora sconosciuta: agonia dei mendicanti stesi fra le immondizie, gente che passa senza un’occhiata. Quell’America è sbarcata a Bologna o non succederà mai più ?
    (Maurizio Chierici, Il Fatto, 11-01-2011)
    © Il Fatto Quotidiano

    martedì 11 gennaio 2011

    QUESTO E' PARLARE CHIARO

    “La Chiesa ha abbandonato le classi popolari”, dice José Comblin.

    José Comblin , uno dei creatori della Teologia della Liberazione, ha affermato che l'elezione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI è stata manipolata dall’Opus Dei, attraverso ricatti e spaventando i cardinali”, e che in America Latina il Papa è "più divino di Dio".
    Comblin , belga che vive in Brasile, di ritorno da una visita in Cile, paese che in cui rimase esiliato nel 1972, durante il governo di Unità Popolare, ha spiegato inoltre che i teologi della liberazione hanno oggi più di 80 anni e non è apparsa una nuova generazione in grado di dare continuità a questo pensiero.. Il servizio è del sito “Religione Digitale”, del 5 gennaio 2011.
    La repressione è stata molto forte, terribile, e la dittatura del Papa qui in America Latina è totale e globale. Qui si può criticare Dio ma non il Papa. Il Papa è più divino che Dio stesso”, ha affermato il teologo.

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    Secondo José Comblin, la Chiesa cattolica “abbandonato le classi popolari, salvo i vecchi e alcune reliquie del passato”. "Oggi, l'Università e i Collegi cattolici sono per la borghesia. Il futuro dell'America latina è essere un continente evangelico protestante, eccetto la classe alta.  Così l'Opus Dei e i Legionari di Cristo e tutte queste associazioni che esistono di ultradestra stanno crescendo in questo settore". Questa la sua opinione dichiarata in Cile alla rivista El Periodista…
    "Quando tra i vescovi di un paese ce n’è uno o due dell'Opus Dei, questi spaventano tutti gli altri. Gli altri restano zitti e uno solo parla. Questo è  problema di psicologia tipico delle dittature", ha sostenuto.
    Secondo José Comblin , "è stata l’Opus Dei a eleggere Giovanni Paolo II e l'attuale, praticando ricatti, intimidendo i cardinali. Il prossimo Papa sarà uguale perché l’Opus detiene un  potere molto forte”.

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    Il teologo, 87 anni, sostiene che Dio sta a "La victoria e a La Legua (due rioni popolari di Santiago) e nelle prigioni, ma da Roma è sparito da molto tempo".
    "Adesso diventa sempre più chiaro che il problema è il Papa, ossia, la funzione del Papa, una dittatura implacabile con molte forme di dolcezze, amabilità, ma implacabile", ha sostenuto ancora.
    José Comblin  ha sostenuto che "il futuro del cristianesimo sta in Cina, Corea, Filippine, Indonesia. I cristiani in Cina, secondo le stime, sono 130 milioni, cristiani martirizzati, perché sono praticamente perseguitati".
    II teologo ha criticato l'eventuale canonizzazione di Giovanni Paolo II, perché il suo papato è "stato catastrofico".
    Tutti quelli che hanno fatto la loro carriera con lui, sono potuti diventare cardinali, nonostante la loro mediocrità personale. Non meritavano niente, ma lui li ha promossi. Chiaro che adesso vogliono canonizzarlo! Una volta che è stato  canonizzato Escrivà, tutti sanno che si può essere santi senza nessuna virtù ha sottolineato.

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    Sull' Opus Dei e sui Legionari di Cristo, José Comblin ha affermato che "hanno la fiducia della Curia Romana e inoltre rappresentano la piena libertà data a personalità che sono come dei grandi Rockfeller, i conquistatori". "Come Escrivà de Balaguer, che era un capitalista, l'uomo destinato al trionfo, che  sfrutterà il mondo che guadagnerà sarà ricco, potente e che è capace di creare persone totalmente ubbidienti, soldati con mentalità di soldato, questi sono tutti uomini deformati psicologicamente, come lo sono i futuri dittatori", ha spiegato.
    Dopo aver ricordato che del messicano Marcial Maciel Degollado, fondatore dei legionari di Cristo, è stata scoperta una vita parallela e una fortuna di 50 milioni di dollari, ha affermato che il suo ricatto, la sua parola la sua esigenza sono arrivate ai milionari”.
    "Oggi quelli che hanno lavorato con lui, suoi collaboratori, tutti dicono e dichiarano che non sapevano niente della vita parallela (di Maciel). Come? Hanno lavorato quarant'anni con lui e non sanno niente di niente, che lui ha una famiglia, tre figli, che ha praticato la pedofilia con i bambini iscritti nei suoi collegi per la formazione, che aveva un mondo di amanti. Non sapevano tutte queste cose? Si suppone pertanto che essi sono complici ed hanno anche loro hanno una vita parallela ha concluso.
    Fonte

    lunedì 10 gennaio 2011

    LA FAME FA STRAGE DI BAMBINI IN GUATEMALA

    GUATEMALA - Più delle guerre e delle epidemia può la fame: nel Guatemala, tra gennaio e ottobre 2010, sono morti di fame oltre 2.000 bambini sotto i cinque anni. Lo rivela un rapporto preliminare del Procuratore speciale per i diritti umani, Sergio Morales.
    «La fame provoca il doppio dei decessi della violenza. Una cifra terrificante e deplorevole; si calcola che altre migliaia di bambini siano in pericolo e gli sforzi per salvare le loro vite sono insufficienti», denuncia il procuratore.

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    MALNUTRIZIONE CRONICA - La grande maggioranza dei 2.006 decessi recensiti è avvenuta nella zona semidesertica dell'est del Guatemala, che copre 8 dei 22 dipartimenti del paese centroamericano. Inoltre, circa la metà dei bambini sotto 5 anni soffre di malnutrizione cronica, secondo i dati delle Nazioni unite, che corrisponde al più alto tasso di tutta l'America latina e uno dei pi elevati al mondo. Circa la metà dei 13 milioni di abitanti del Paese vive sotto la soglia di povertà.
    TM News

    sabato 8 gennaio 2011

    NOI & LORO...INDIGNARSI COME COMANDAMENTO...

    Arriva da Parigi, lo stiamo leggendo in tanti, piccolissimo libro: “Indignatevi”. L’autore si chiama Stefan Hessel, sta per compiere 94 anni. Ha accompagnato la storia della Francia con l’anticonformismo di un grande borghese, ebreo nato a Berlino e diventato parigino appena spunta Hitler. 530 mila copie vendute in poche settimane. Sta per uscire in spagnolo ed inglese, chissà se lo tradurranno. Hessel ha attraversato la lunga vita senza smettere di indignarsi.

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    Contro il nazismo, contro il colonialismo crudele dei francesi in Algeria, contro gli affari dei politici, contro Israele che brucia Gaza. È uscito vivo da Buchenwald ed è scappato dal treno che lo accompagnava in un altro campo della morte. Nel 1946 diventa il primo segretario delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani e 60 anni dopo va a difendere i sans papier che occupano le chiese per protestare contro la disumanità della destra di Chirac e Sarkozy, allora ministro degli interni dalla mano dura con stranieri senza casa e al lavoro nero. Mendes France e Mitterand l’hanno voluto per consigliere. Allievo “spirituale” di Walter Benjamin e compagno di caffè di Sartre, insomma, leggenda che comincia in una famiglia di banchieri: “Jules e Jim” di Truffaut si ispira all’autobiografia del padre di Hessel. Racconta del triangolo che unisce due amici nell’adorazione della stessa ragazza diventata madre del sociologo quando Jim si arrende e Jules (Franz Essel, appunto ) può sposare Elena “più bella di Jeanne Moreau” che le dà vita sullo schermo. Hessel invita i francesi ad indignarsi contro razzismo, corruzione, furti di stato, intrighi delle polizie segrete, spese militari che rubano la vita alle persone senza nome e minacciano, soprattutto, il futuro dei ragazzi.
    Messaggio che si allarga all’Europa avvolta nella rete dei desideri inutili: pianificano un’obbedienza plastificata per le nuove generazioni, da considerare “clienti” non persone. Nel lettore italiano l’amarezza diventa disperazione. Perché Hessel fa riferimento ad architetture sociali alle quali i francesi possono aggrappare le speranze; strutture consolidate dalla tradizione di una borghesia non profumi e balocchi e con certezze culturali e burocratiche che aiutano la resistenza al ridicolo, al grottesco, al malcostume, al servilismo, alle ingiustizie e ad una corruzione sia pure lontana dal modello Italia dove fanno scalpore i ragazzi in marcia nelle piazze contro la malafede dei baroni che spargono incenso sulla riforma universitaria con la furbizia di far fuori le baronie concorrenti. “Mai arrendersi”, consiglia Hessel. Discuterne in casa coi figli, sui treni pendolari, nei posti di lavoro e di studio. Mai accettare le banalità di populismo e retorica. Mai prendere sul serio le tv e i giornali che gonfiano gli scandali per nascondere le truffe dei padroni. Mai fidarsi dei comunicatori maggiordomi. Rovesciate pacificamente le solidarietà più o meno segrete, insiste, per dare continuità alle critiche che il voto raccoglie nell’indignazione. Belle parole di un secolo fa ma utopia per l’Italia delle mafie e della P2, dei Verdini, dei Bertolaso e delle figuranti alla Santanché. Se dopo Sarkozy la Francia può affidarsi ad una cultura civile non disgregata dai potentissimi pupi Nord-Sud, mafie e maffiette, gli italiani dei grandi fratelli quali speranze hanno...? Il berlusconismo degli amici non è che l’evoluzione mercantile dell’andreottismo e quando Napolitano lascia, magari al Quirinale va Gianni Letta, Gentiluomo di Sua Santità...
    mchierici2@libero.it
    (Il Fatto Quotidiano di Martedi 4 Gennaio 2011)

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    Hessel un rivoluzionario? Non proprio. E non lo è mai stato. Oggi vicino a Martine Aubry, segretario generale del Partito socialista, Hessel, un anziano monsieur pacato e sorridente, è sempre stato un intellettuale dall’animo libero, di sinistra certo, ma senza “eccessi “. Comunque allergico nei confronti di una certa “gauche caviar” parigina, come vengono chiamati taluni (insopportabili) circoli della “sinistra altolocata” della città.
    Una vita, comunque, sempre austera, lontana da qualsiasi esibizionismo. Per questo oggi è credibile nel dire quello che dice.
    Ha provocato il risveglio di un popolo, finora molto passivo”, ha sottolineato il filosofo Edgar Morin, suo amico. “Ha ricordato alla sinistra che deve essere ribelle, umana e ottimista”, ha sottolineato Harlem Désir, numero due del Partito socialista.

    lunedì 3 gennaio 2011

    RISPETTARE L'ART. 41 DELLA COSTITUZIONE

    CONTRO I RICATTI DI MARCHIONNE,
     APPLICARE L'ART. 41 DELLA COSTITUZIONE

    Di fronte al contratto capestro che i lavoratori della Fiat saranno costretti a sottoscrivere, pena la perdita del posto di lavoro, la domanda sorge spontanea: "Ma il ruolo della politica, qual è?"
    Certamente, in un'economia globalizzata dove il mondo continua a girare secondo la regola che se mangiano i lavoratori tedeschi o quelli polacchi o cinesi non mangiamo noi e viceversa, parlare di tutela dei diritti può sembrare soltanto un inutile lusso.

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    Un concetto che il Ministro Tremonti riuscì a sintetizzare in modo efficace riferendosi alle norme europee riguardanti la sicurezza sul lavoro: "robe come la 626 sono un lusso che non possiamo permetterci. Sono l'Unione europea e l'Italia che si devono adeguare al mondo" (25 agosto 2010 - Berghem fest).
    E la parola "lusso" sta riecheggiando anche in questi giorni proprio in occasione degli accordi proposti dalla Fiat. L'invito che infatti giunge anche dalla maggiore forza politica di opposizione è quello di accettare le nuove regole, in quanto, oggi, la prima esigenza da soddisfare è che l'investimento non vada altrove.
    Per dirla nuovamente con Tremonti, quindi , "oggi sono i numeri che fanno la politica e la politica è l'arte di adeguarsi ai numeri".
    Vista la sostanziale convergenza, possiamo ben parlare di un pensiero unico che di fronte alle sfide imposte dalla globalizzazione non sa rispondere in altro modo che riducendo i diritti. Un'ideologia che non ammette modelli alternativi di convivenza e che sta facendo del "realismo ragionieristico" il proprio agire quotidiano.
    In tal senso, risultano di più facile comprensione i continui attacchi del Governo Berlusconi al contenuto dell'art. 41 della Costituzione. Un articolo dove "si parla molto di lavoro e quasi mai di impresa" e dove "non è mai citata la parola mercato", questo il giudizio severo di Berlusconi.
    Ma cosa dice di così tanto sconvolgente l'art. 41, al punto di essere divenuto una sorta di cancro da rimuovere anche per il Presidente della Confindustria Marcegaglia?

    Art. 41. Cost. L'iniziativa economica privata è libera.
    Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
    La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.


    A ben vedere, l'art. 41 dice semplicemente  che nulla è vietato a patto che … a patto che vengano rispettate alcune condizioni.
    La domanda allora da porsi è se queste condizioni siano eccessivamente severe nei confronti della libera iniziativa economica e del libero mercato e se, quindi, debbano essere riviste.
    Anche a voler considerare l'utilità sociale un inutile orpello bolscevico del quale liberarsi, le altre tre condizioni, sicurezza, libertà e dignità umana, appaiono difficilmente contestabili.
    Ma un accordo come quello di Pomigliano è proprio su queste tre condizioni che va ad incidere, laddove peggiora le condizioni di lavoro e riduce fortemente la qualità della vita, le tutele sindacali e il diritto di sciopero.
    Ma per il realismo da globalizzazione, come sopra ricordato, "a che serve garantire diritti che non potrebbero in ogni caso essere goduti nel caso la Fiat decidesse di non investire più in Italia?"
    Ciò che però non si comprende in questo ragionamento, è la diversità di atteggiamento nei confronti della Fiat e non solo.
    Se è infatti vero che nessuno potrebbe costringere un operatore privato ad investire alle condizioni imposte dalla nostra Costituzione, non si capisce bene come e perché allo stesso operatore potrebbe però essere consentito fare affari in Italia vendendo prodotti realizzati altrove proprio per sfuggire alle restrizioni della legislazione italiana.
    Non si tratterebbe, anche in questo caso, di un'iniziatica economica svolta a danno degli interessi sanciti in Costituzione a tutela dei cittadini italiani?
    Non si investe in Italia perché in altri Paesi non ci sono diritti dei lavoratori da dover rispettare; però poi si pretende di poter godere del massimo della libertà quando si tratta di fare profitti con le merci prodotte altrove a costi minori.
    Ora, proprio perché la FIAT vende in Italia il 30% circa delle auto che produce, per "la politica" sarebbe stato quanto mai opportuno cogliere l'occasione per chiedere l'applicazione dell'art. 41 e non, piuttosto, la sua riduzione in nome delle superiori esigenze imposte dalla globalizzazione.
    Ad un'impresa che costringe ad una competitività basata sulla riduzione dei diritti sanciti in Costituzione, proprio per quanto puntualizzato all'art. 41, non potrebbe e non dovrebbe essere consentito importare e commercializzare merci prodotte in regimi legislativi e/o contrattuali tali da comportare una forma di concorrenza sleale nei confronti dei lavoratori e del sistema Italia nel suo complesso.
    Poche e semplici righe di legge per ribadire, non solo alla Fiat, ovviamente, che la libera circolazione delle merci non può divenire il cavallo di troia per costringere intere nazioni a violare i diritti costituzionalmente riconosciuti e a ridurre la qualità della vita dei propri cittadini per permettere ad un'impresa di fare profitti in nome di una competitività senza regole.
    Franco Ragusa

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