mercoledì 3 febbraio 2010

OUT OF ZIMBABWE

"Central Methodist Church, Jo'burg, scalone centrale, secondo piano, quinto gradino dall'alto. Questo è il mio indirizzo da più di un anno ormai". Scherza Watson, una delle quattromila persone provenienti dallo Zimbabwe, che ogni sera trovano rifugio dentro la chiesa metodista centrale di Johannesburg, un edificio squadrato di cinque piani, soffocato fra i grattacieli di downtown, il Carlton Hotel e la High Court. All'interno l'odore è insopportabile, un misto di sudore, urina, spezie e legna bruciata. L'ufficio del vescovo, Paul Verryn, è al terzo piano, ma salire le scale non è facile, occupate come sono dalle persone che si apprestano a passare la notte. Per parlare con lui bisogna rispettare la fila di quanti, durante la giornata, non sono riusciti a trovare un lavoro e devono chiedere dieci rand (un euro) per la cena. Fuori, fra Pritchard e Smal street, fiorisce un mercato improvvisato: pesci arrosto, polli, uova, caramelle, arance, patatine soffiate. Alcuni cercano di guadagnarsi così qualche soldo. Chi non trova posto dentro, dorme per terra, nelle vie intorno, anche d'inverno, fra l'indifferenza generale della città, quando non l'aperta ostilità. Ufficialmente, dall'aprile scorso, da quando Pretoria ha concesso un permesso di lavoro di sei mesi, gli immigrati non possono più essere deportati e rimpatriati, ma i commercianti del centro, che continuano a lamentarsi per il degrado, hanno imposto la costruzione di una cancellata per contenere questa marea umana. Chi resta fuori la notte resta esposto alle violenze xenofobe e alle retate della polizia. L'ultima il 3 luglio scorso, quando gli agenti, armati di pistole taser e spray urticanti, hanno portato via nel sonno più di trecento cinquanta persone per vagabondaggio. Il vescovo stesso è stato minacciato di morte più volte, "ma una settimana, è il tempo giusto per preoccuparsi - racconta scherzando, senza per questo voler fare l'eroe.

Children line up for a meal at a CARE supplementary feeding program in Masvingo province, Zimbabwe.

Watson è fortunato perché è uno degli uomini scelti per mantenere un minimo di sicurezza la notte all'interno della chiesa. Con i trecento rand che riceve per questo lavoro, riesce a mantenersi e a mandare a casa gli altri soldi che guadagna di giorno come muratore. Ad Harare si occupava di informatica, fino a quando un gruppo di attivisti dello Zanu-pf, il partito del presidente Robert Mugabe, non è andato a casa sua a cercarlo. Era il periodo delle violenze politiche dopo le contestate elezioni del 29 marzo 2008, e Watson era un attivista del Movement for Democratic Change, il partito sfidante di Morgan Tsvangirai. La sua famiglia è rimasta nello Zimbabwe, ma ha dovuto lasciare la capitale perché il quartiere dove vivevano è stato demolito come forma di ritorsione per aver votato in massa in favore del cambiamento.
Nonostante la vita che conduce, per il momento non ha alcuna intenzione di tornare a casa. Nessuno qui crede alla telenovela dell'accordo di spartizione del potere, siglato a febbraio fra Mugabe e Tsvangirai, e continuamente rimesso in discussione.

Domenica sera, la messa diventa un'occasione per celebrare questa comunità. La chiesa è un'aula pentagonale all'interno dell'edificio, moderna, spoglia, dislocata su due piani. Se non fosse per alcune vetrate con soggetti religiosi, la si scambierebbe per la sala teatrale di un oratorio di periferia. Sull'altare un gruppo di ragazzi incomincia ad intonare una serie di canti africani. Fra gli spalti, tutti cantano, ballano, battono il ritmo, vengono, vanno. A terra i bambini gattonano e sbavano sulla moquettes lurida, mentre in controluce si vedono alcuni topolini girare tranquillamente per la sala nonostante la confusione. Nei rari momenti di silenzio l'aula rimbomba di colpi di tosse peggio che ad un concerto di musica classica. Del resto qui la Tbc è una delle malattie più diffuse insieme all'aids. Poi, come un maestro paziente che scandisce bene le sue sillabe, il vescovo inizia il suo discorso: "Voi avete gli stessi diritti di tutti gli altri. Avete capito bene cosa vi ho detto? - controlla sempre premuroso - Voi avete gli stessi diritti di tutti gli altri perché essere poveri non è un reato". La comunità, che subisce l'odio e la violenza degli abitanti di Johannesburg, inveisce, applaude, fischia, esulta, batte i piedi.

La funzione è qualcosa di imprevedibile per chi è abituato alla passività della liturgia cattolica. Un gruppo di attori improvvisati, alcuni travestiti da donna, sale sull'altare e inizia a recitare una scenetta: è la storia di una ragazza che, rimasta incinta, decide di vendere il proprio bambino, dopo aver cinicamente scherzato sulle condizioni di vita a cui sarà costretto. Ben al di là dall'offendersi, il pubblico ride smaccatamente, urla, partecipa e parteggia. Al coro il compito di tracciare la morale della storia, come nella più classica delle tragedie. Gli argomenti vengono scelti durante le riunioni con i rifugiati e liberamente rielaborati dalla compagnia teatrale della chiesa. La settimana precedente lo spettacolo era stato sulla tubercolosi ed era finito in un delirio di colpi di tosse e risa.
Qui non c'è posto per la dottrina. I pericoli che queste persone devono affrontare ogni giorno sono tali che la predica diventa una lezione ai bambini contro il pericolo degli abusi e dello sfruttamento sessuale. "Se qualcuno cerca di toccarvi dove non volete, avete il tutto il diritto di dire di no e di denunciare, perché il vostro corpo è sacro" - sentenzia forte e chiaro il vescovo.
Conclude la funzione la consegna degli attestati ai ragazzi che hanno frequentato il corso di informatica, un corso poveramente organizzato, come molti altri all'interno della chiesa, su computer antidiluviani. Chiamati uno ad uno, i ragazzi sfilano spintonandosi scherzosamente per celare l'emozione e l'orgoglio.

clip_image002

Al termine della messa, ciascuno prende il suo posto per la notte, sulle panche, per terra, nei corridoi, sulle scale. Ogni centimetro quadrato dell'edificio viene occupato. Nelle cantine, buie e senza finestre, alcune donne preparano la cena su fornelli improvvisati, mentre i bambini giocano in mezzo a migliaia di vestiti smessi e abbandonati da quanti sono passati di qui e se ne sono andati.
La sensazione che ne scaturisce è quella di aver partecipato al rito di una comunità unita e piena di dignità ma è il vescovo stesso a mettere in guardia: "Non credere che questo sia un luogo armonico, dove regna la pace. Qui c'è anche sopraffazione, violenza, armi e alcol".
Evans ha passato qui i suoi primi quattro mesi quando è giunto in Sudafrica, poi i suoi studi in teologia e psicologia gli hanno fruttato un posto di lavoro come terapeuta fra i suoi stessi compagni. Strana carriera la sua, iniziata con la vocazione al sacerdozio, proseguita nell'esercito per mantenere la madre e le sorelle, interrotta quando due suoi commilitoni, attivisti del Mdc, sono stati fatti sparire, e infine approdata a Johannesburg a raccogliere confessioni e pene dei suoi connazionali come un pastore laico. "La gente che arriva qui ha subito ogni genere di abuso, fisico e verbale - racconta - Il nostro compito è quello di restituirgli la fiducia in se stessi, la dignità che gli è stata negata. Ci sono bambini che sono giunti qui soli, per lavorare, ai quali dobbiamo ricordare che sono ancora dei ragazzi, che hanno il diritto di prendersi il proprio tempo e di giocare. La frontiera oramai si è sbriciolata, ma non è questo il modo in cui avrebbe dovuto crollare se vogliamo dirci africani".
A Beit Bridge punto d'ingresso in Sudafrica per chi arriva dallo Zimbabwe, la frontiera si è veramente sbriciolata. Il reticolato che divide i due stati è tutto un buco. Ogni giorno l'esercito tenta di rattopparlo ma ogni giorno i migranti ne aprono di nuovi. L'elettricità che corre lungo tutta la rete di separazione non è più stata riattivata, da quando sono morte alcune persone. Ma superare il confine resta un'impresa ancora molto pericolosa se non si possiede un passaporto, che in Zimbabwe costa l'astronomica cifra di ottocento dollari. Uomini, donne e bambini, spesso non accompagnati, continuano a passare il confine a tutte le ore del giorno e della notte, attraversando la savana e il fiume Limpopo, che nella stagione delle piogge è infestato dai coccodrilli.
Un cartello a difesa di una fattoria, ammonisce i passanti: "Non tagliare la recinzione. Proprietà privata". Posto di fronte al confine che negli ultimi anni ha lasciato passare quasi di tre milioni di persone, suona vano e beffardo. L'anno scorso, quando nello Zimbabwe era diventato quasi impossibile procurarsi del cibo a causa dell'inflazione galoppante e durante l'epidemia di colera, approdavano qui a migliaia. Poi, la decisione di abbandonare la valuta nazionale in favore del dollaro e del rand ha, almeno superficialmente, migliorato la situazione. Ma nello Zimbabwe i disoccupati continuano ad essere il novantaquattro percento ed il sistema scolastico e quello sanitario sono al tracollo. Così la gente continua a scappare.
Quasi al calar del tramonto, mentre percorriamo la strada che corre parallela al confine, intravvediamo quelli che sembrano essere un uomo e una donna, una felpa rossa e un maglione blu. Si stavano preparando per attraversare l'ultimo impedimento che li divideva dal Sudafrica, quando il rumore del nostro arrivo li ha ricacciati nella terra di nessuno che divide i due Stati. Sabelo Sibanda, avvocato di Lawyers for Human Rights, cerca di richiamarli indietro, si presenta, offre loro il suo aiuto. Il pericolo è che una volta attraversata la frontiera vengano intercettati dai ‘guma -gumas, bande di criminali che aspettano i migranti ai varchi per derubarli di ogni loro avere. Alla clinica per le violenze sessuali e le violenze di genere che è stata aperta in aprile a Musina, i racconti di quanti sono sopravvisuti agli attacchi dei ‘guma-gumas sono atroci. Donne tenute prigioniere per giorni e stuprate in gruppo; bambini strappati dalle braccia delle madri e affogati nelle acque del Limpopo; uomini costretti ad avere rapporti sessuali con animali o ad assistere allo stupro delle loro donne: tutto pur di annientare la propria vittima, privarla di ogni bene e schiantare qualsiasi capacità di reazione.

Le denunce arrivate in clinica da aprile sono una settantina, ma sono solo la punta dell'iceberg. Moltissime donne non parlano per vergogna o per paura di venire ripudiate dal marito; molte perché a Musina, prima città dopo il confine, sono solo di passaggio, il tempo necessario per ottenere i documenti e via; altre semplicemente perché la loro situazione è così drammatica che la vita impone loro di rimuovere e andare avanti. In fondo, chi sfugge agli attacchi dei ‘guma-gumas può già dirsi fortunato, in molti non hanno fatto ritorno. "Condanne non ce ne sono mai state - racconta Mazanhi Tonderayi, responsabile della clinica, perché, a fronte dei pochissimi arresti, nessuna ha mai potuto recarsi in tribunale a testimoniare durante il processo e la polizia, in un paese già di per sé dilaniato dal crimine, non si da molto da fare per reprimere un fenomeno che riguarda prevalentemente i migranti. Per la stessa ragione, le autorità sanitarie locali cercano di scoraggiare in tutti i modi l'accesso in ospedale alle vittime, ma trovare cure immediate è vitale per prevenire la trasmissione dell'Hiv e per la contraccezione d'emergenza".

clip_image004

Il Freedom Park Shelter è uno dei rifugi maschili per la notte. A discapito del nome beneaugurante, Freedom Park è uno degli slums di Musina e la carcassa di una macchina insabbiata a metà sembra essere lì a ricordarlo. Intorno sono disposte tre tende che questa notte accolgono circa cento cinquanta uomini. Strutture fisse non ce ne sono e non possono essere costruite perché le autorità non concedono il permesso. Farlo significherebbe riconoscere il fatto che in Zimbabwe esiste un problema, cosa che Pretoria ha sempre cercato di negare per i buoni rapporti che legano l'Anc, il partito di governo sudafricano, allo Zanu di Mugabe. Paul e Dudziro sono ancora dei ragazzi, ma dopo aver attraversato a nuoto il Limpopo, per sopravvivere hanno scelto di fermarsi qui e di lavorare gratuitamente al campo, in cambio solo di vitto e alloggio. Soldi per mandare avanti il rifugio e pagare i dipendenti non ce ne sono più. Nel momento dell'emergenza umanitaria, quando dallo Zimbabwe arrivavano in migliaia ogni giorno, le numerose chiese pentecostali, che si trovano in Sudafrica, si sono date da fare per gestire la situazione, ma ora che gli immigrati non fanno più notizia, i fondi sono stati dirottati altrove. Al Concern Zimbabwe Campbell' Shelter un ragazzo ha una brutta ferita al piede e non riesce a camminare, ma il pastore Kwangwari non ha i soldi per portarlo in ospedale. Qui sono rinchiusi cinquantaquattro ragazzi minorenni che sono stati trovati viaggiare da soli. "Rinchiusi" è il termine esatto dal momento che vivono tutti in'unica stanza, con un piccolo cortile. Nonostante la bella giornata, moltissimi sono dentro, ipnotizzati davanti al televisore; fuori un paio di ragazzi giocano su una dama improvvisata con dei tappi di bottiglia, mentre un terzo cerca di riparare una vecchia radiolina. I ragazzi sono annoiati e si vede. Non possono andare a scuola perché le autorità locali prendono qualsiasi scusa per negare loro il permesso e l'esistenza ridotta a quei pochi metri quadrati può diventare un incubo peggiore di quelli che ci si è lasciati alle spalle.

Musina, o Messina, come si sta tornando a chiamarla con il vecchio nome precoloniale, è una città che sta crescendo velocemente fra modernità e tradizione : un nuovo centro commerciale, nuove strade, marciapiedi asfaltati e nuove abitazioni. Un centro caotico, trafficato e rumoroso, che si sviluppa per la maggior parte lungo la N1, la strada nazionale che da Johannesburg porta al confine e poi su, fino ad Harare. Bancarelle improvvisate ingombrano le strade, insieme ai passanti che, pieni di borse, si siedono per cercare un po' di frescura ovunque ci sia un po' d'ombra. Un gruppo di commesse, con la cuffietta igienica in testa per trattenere i capelli, prende la pausa fumandosi una sigaretta di fronte ad un supermercato. Poco più in là, alla fermata dei taxi per Beit Bridge, dentro baracche di latta improvvisate, un gruppo di rivenditori cucina e vende sadza, una polenta bianca di mais, per coloro che aspettano di ritornare nello Zimbabwe. Una città che sta crescendo anche grazie agli immigrati. Alcuni si sono fermati qui, hanno intrapreso attività, aperto negozi; altri, in possesso di un passaporto, alimentano il commercio frontaliero, dal momento che qui i prodotti costano molto meno. Anche per questo la xenofobia che l'anno scorso ha colpito numerose città sudafricane, a Musina la si vede solo nei manifesti di condanna appesi per le strade dal ministero dell'Interno. La maggior parte, però, si ferma in città solo due o tre giorni, il tempo necessario per ottenere i documenti e proseguire il viaggio.
Il Freedom Park Shelter è uno dei rifugi maschili per la notte. A discapito del nome beneaugurante, Freedom Park è uno degli slums di Musina e la carcassa di una macchina insabbiata a metà sembra lì a ricordarlo. Intorno sono disposte tre tende che questa notte accolgono circa cento cinquanta uomini. Strutture fisse non ce ne sono e non possono essere costruite perché le autorità non concedono il permesso. Farlo significherebbe riconoscere il fatto che in Zimbabwe esiste un problema, cosa che Pretoria ha sempre cercato di negare per i buoni rapporti che legano l'Anc, il partito di governo sudafricano, allo Zanu di Mugabe.
Paul e Dudziro sono ancora dei ragazzi, ma dopo aver attraversato a nuoto il Limpopo, per sopravvivere hanno scelto di fermarsi qui e di lavorare gratuitamente al campo, in cambio solo di vitto e alloggio. Soldi per mandare avanti il rifugio e pagare i dipendenti non ce ne sono più. Nel momento dell'emergenza umanitaria, quando dallo Zimbabwe arrivavano in migliaia ogni giorno, le numerose chiese pentecostali, che si trovano in Sudafrica, si sono date da fare per gestire la situazione, ma ora che gli immigrati non fanno più notizia, i fondi sono stati dirottati altrove. Alle undici della sera, mentre gli ultimi bisbigli vanno spegnendosi sopra Freedom Park Paul e Dudziro aspettano solo che ce ne andiamo per andarsene a dormire nelle tende con tutti gli altri.

Chiara Pracchi

Nessun commento:

LinkWithin

Blog Widget by LinkWithin