venerdì 2 gennaio 2009

L’EREDITÀ DI CHICO

Con un poco di ritardo (la ricorrenza era il 22 dicembre scorso) e mi scuso, pubblico questo post. Vent’anni fa venne ucciso il sindacalista Chico Mendes.


"Siamo andati a casa sua, a Xapuri, per scoprire cosa sopravvive del difensore dei siringueiros e della foresta.



Xapuri, Brasile
Era una sera come tante, il Natale era imminente e nelle case di Xapuri, una cittadina nel Sud dell’Amazzonia brasiliana, ci si preparava alla festa. Lui, Chico, stava giocando a domino sulla vecchia tavola della cucina. Giocava con le due guardie del corpo. Sapeva che erano giorni pericolosi. L’aveva detto ai collaboratori più stretti, l’aveva ripetuto il giorno del suo compleanno, il 15 dicembre, alla moglie Ilzamar e ai suoi due figli, Elenira di 4 anni e Sandino di 2, di certo troppo piccoli per comprendere la gravità di quelle parole. «Temo che sia l’ultimo compleanno che festeggio insieme con voi». Era l’imbrunire del 22 dicembre 1988. Le due guardie del corpo, fra una partita e l’altra, erano appena uscite a fare un giro di controllo. In quelle settimane erano giunte a Chico diverse minacce.

Aveva scritto ripetutamente che la sua vita era in pericolo. Il 28 ottobre ’88 si era rivolto al giudice di Xapuri, scrivendo: «Io e i miei compagni possiamo essere assassinati da un momento all’altro. I piani sono già pronti. Solo un dettaglio: lei, signore, sarà considerato responsabile e nel momento in cui ciò accadrà molta gente ne verrà informata». Non è andata così. A quel giudice non è stata attribuita alcuna responsabilità e gli assassini, mandante ed esecutore, hanno fatto in tutto 13 anni di carcere per quell’omicidio premeditato. Oggi sono di nuovo liberi. E s’incrociano per strada con la figlia di Chico, Elenira, oggi ventiquattrenne. Entrambi, lei e il killer del padre, vivono ancora a Xapuri.







Il testamento, suo ultimo scritto




Le guardie rientrano. Riprendono a giocare a domino. «A un certo punto, erano le 18.30, papà si alzò, andò alla porta che dalla cucina dava sul retro. L’aprì, ma non fece nemmeno in tempo a scendere i tre gradini. Partì un colpo, uno solo», racconta Elenira Mendes.
Francisco Alves Mendes Filho, detto Chico Mendes, riesce a rientrare in casa e a trascinarsi per pochi passi: «Si accasciò fra le braccia di mia madre. Avevo seguito la mamma che gli era corsa incontro. Ricordo in modo vivo la sua faccia, gli occhi sbarrati, il sangue. Ricordo la sua ultima frase, rimasta a metà: "Mi hanno sparato, Ilzamar...". L’hanno disteso sul letto. Si è spento poco dopo».
Sono passati 20 anni dall’omicidio di Chico Mendes, che all’epoca di anni ne aveva 44, il siringueiro (così sono chiamati i raccoglitori di caucciù), il difensore dei lavoratori schiavizzati della foresta, ma difensore anche dell’Amazzonia, un vero leader che aveva creato, in quella remota e povera parte del Brasile, il sindacato e il Partito dei lavoratori. Un uomo che aveva precorso con 20 anni di anticipo l’ambientalismo più moderno, quello portato avanti oggi, ad esempio, dall’ex ministro dell’Ambiente Marina Silva: «La vera sfida è preservare sviluppando e sviluppare preservando. Lo diceva già Chico Mendes». Appunto.
Nell’occasione dell’anniversario, insieme a delegazioni del Wwf brasiliano e del Wwf italiano, siamo andati in quella stradina di Xapuri, dove su un lato c’è la piccola casa di legno dei Mendes, dipinta ancora di rosa e azzurro, come allora. Dall’altro lato della strada è nato un piccolo museo, dove sono raccolti tanti oggetti del sindacalista, alcune sue lettere, i riconoscimenti che aveva ricevuto. Tra questi, alcuni giunti dal nostro Paese: una medaglia del Parlamento, conferitagli nel 1985; un’altra della Regione Emilia-Romagna; una terza, postuma, del 1989, donata dal "Centro studi Chico Mendes" di Modena.


La modesta casa è rimasta intatta. Sulla porta del retro si scorgono ancora alcune tracce di sangue e i segni del proiettile. Ci guida Elenira, da tempo impegnata a mantenere viva la memoria e il messaggio del padre, specie attraverso la "Fondazione Chico Mendes" cui si deve anche la realizzazione del museo. Elenira è laureata in Scienze dell’amministrazione e ha conseguito il master in materie ambientali. La madre, oggi, vive nel capoluogo di Acre, Rio Branco, dove lavora anche Sandino, al Ministero per lo sviluppo agricolo.
Sulla piccola tavola rossa ci sono ancora le tessere del domino, e, accanto il vecchio fornello da cucina, le pentole d’alluminio, qualche mensola. Elenira indica il punto dov’è crollato il padre, il letto dove ha passato gli ultimi minuti di vita. Accanto c’è la cameretta dei bambini e infine uno studiolo, un tavolino, due sedie, qualche decina di libri.


Un omicidio annunciato

«I sicari lo aspettavano. Erano da ore nel cortile. L’ha accertato la polizia. Come vedete, la casa aveva il bagno esterno. Sapevano che prima o poi sarebbe passato di là», spiega la figlia.
«Era tutto organizzato, forse anche le guardie del corpo erano d’accordo. Tant’è che, appena è stato colpito, sono corse verso l’ingresso principale, anziché inseguire gli assassini dal retro. Così hanno dato loro il tempo di raggiungere il fiume, che scorre un centinaio di metri dietro la casa. Da là erano venuti, e dalla stessa parte sono scappati».
Abbiamo sempre parlato al plurale di sicari, anche se l’incriminazione e la condanna ha colpito solo un mandante e un esecutore: rispettivamente padre e figlio, proprietari di una grossa fazenda, Darcy Alves e Darcy Alves Junior. Ma si è sempre sospettato che sia i mandanti sia i killer fossero di più. «Mio padre negli ultimi tempi aveva toccato interessi di persone potenti», spiega Elenira. «Ad esempio il progetto di una strada che doveva attraversare un pezzo di foresta. Diverse istituzioni internazionali erano pronte a finanziarlo. Papà intervenne a New York contro la sua realizzazione e la Banca di sviluppo sudamericana sospese i fondi. Era appena accaduto. È stato quello l’episodio che ha portato al suo omicidio?». «Mio padre cominciò difendendo quelli come lui, i siringueiros, e tutti i lavoratori della foresta sfruttati in maniera disumana. Ma presto maturò anche un’altra consapevolezza: che lo sviluppo del Brasile doveva accompagnarsi alla tutela della foresta amazzonica. Oggi, papà non sarebbe soddisfatto di come è preservata la foresta, nonostante i passi avanti che si sono fatti».
È così. I passi avanti sono stati tanti. «Oggi, 23 milioni di ettari di foresta sono stati dichiarati "aree protette". Entro un paio d’anni, sommando le zone salvaguardate dal Governo alle aree indigene (che non possono perciò essere disboscate), si arriverà al 37 per cento dell’intera Amazzonia», come spiega Claudio Maretti, del Wwf Brasil. Un buon risultato, ma ancora lontano dai sogni di Chico Mendes: nonostante tutto, la deforestazione ne fa scomparire ogni anno tra 17 e 27 mila chilometri quadrati, un’area più grande della Sicilia.

Braccio di ferro sull’Amazzonia

Il testimone di Chico Mendes è stato idealmente raccolto da Marina Silva, anche lei figlia di siringueiros. Con il sindacalista, Marina Silva ha frequentato, giovanissima, i corsi di alfabetizzazione e le comunità ecclesiali di base della diocesi di Rio Branco. Silva, molti anni dopo, è diventata ministro dell’Ambiente, rimanendo in carica per quattro anni: «In quel periodo», dice, «la deforestazione s’è ridotta del 59 per cento». Poi, però, nel giugno scorso, si è dovuta dimettere, per le pressioni crescenti sul Governo Lula. Il braccio di ferro che si gioca sull’Amazzonia è ancora in corso. L’esito è quanto mai incerto.
Luciano Scalettari



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