giovedì 3 marzo 2011

IL SUD AMERICA NELLA GEOPOLITICA ENERGETICA MONDIALE (II PARTE)

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Il modello della civiltà in cui viviamo (capitalismo), con le sue intrinseche caratteristiche di sviluppismo, consumismo e spreco, imposto a quasi tutta l’umanità negli ultimi 150 anni, è dipeso per la sua esistenza dalla disponibilità di fonti di energia che sono state, allo stesso tempo, abbondanti ed economiche.

Le quattro principali fonti di energia per questo XXI secolo appena iniziato sono:
A- Combustibili fossili
B- Biocombustibili
C- Energia nucleare
D- Minerali strategici con grande capacità di immagazzinamento e conduzione di energia (litio, coltan)



Il formidabile sviluppo delle forze di produzione durante il XX secolo era legato alla costante disponibilità da parte dei centri del capitalismo mondiale dell’energia derivata dal petrolio, ottenuto la maggior parte delle volte in seguito a saccheggi puri e semplici o a prezzi ridicolmente bassi, quasi simbolici.
La logica e le leggi del capitalismo non sono cambiate da allora. Le nuove fonti energetiche saranno oggetto di tentativi di appropriazione per mezzo di aggressioni (come nel caso dell’Iraq) o di transizioni ingiuste e usurarie con governi mercenari e corrotti (come quelli presenti in Venezuela prima di Chávez).
Il capitalismo è indissolubilmente legato all’imperialismo. Oggi, uno non può sopravvivere senza l’altro. Per un sistema di struttura e concezione neoimperialista non è sufficiente aver già garantito il rifornimento di determinati articoli e beni; ciò che determina il modello e le caratteristiche delle relazioni imperialiste di dominio è il possesso della facoltà di ottenere queste risorse in forma illimitata e con costi di poco superiori alle spese di investimento realizzate. Per esistere, la divisione internazionale del lavoro secondo il sistema capitalista mondiale ha bisogno di elevate percentuali di plusvalore, percentuali che possono essere ottenute solo attraverso il saccheggio sistematico delle risorse e del lavoro delle società periferiche e dipendenti.
I primi anni del XXI secolo si imbattono in un sistema capitalista attraversato da una delle sue crisi cicliche generata dalle intrinseche contraddizioni che lo caratterizzano. Da un lato vive una fase di apogeo ed espansione mondiale denominata dai suoi panegiristi “globalizzazione”, ma dall’altro presenta i sintomi inequivocabili dell’essere immerso in una rottura strutturale che, per molti suoi aspetti, sembra irreversibile e terminale.
Il capitalismo è, per sua natura, un sistema profondamente irrazionale. Non ho alcun dubbio che la sua fine sia prossima (deve essere così, l’ecosistema terrestre non sopporterà ancora per molto tempo le sue dinamiche depredatorie e distruttive), però sono anche convinto che morirà uccidendo e cercherà di rimuovere tutto ciò che si interporrà sul suo cammino suicida per ottenere le risorse energetiche indispensabili per il mantenimento del suo ritmo incessante di crescita ed espansione. E questo non perché sia stato deciso da alcune élite malvagie e prive di coscienza (se così fosse basterebbe solo sperare che nei centri imperialisti del capitalismo mondiale il potere venga assunto da gente “buona” o, per lo meno, sensata, con tutto l’assurdo e il fantasioso che ciò presupporrebbe), ma perché questa è la sua natura e così vogliono le leggi che regolano la sua esistenza, come ha ben spiegato Marx nella sua opera maestra Il Capitale.
Nello scenario sopra descritto il Sud America sta per svolgere un ruolo chiave e protagonista. Vediamo perché.

Minerali strategici per l’immagazzinamento di energia. Litio e coltan:
Il litio è un minerale estremamente leggero, che ha come caratteristica principale il vantaggio di una enorme capacità di immagazzinamento di energia elettrica. Ciò fa sì che le automobili che si muovono grazie a questo tipo di energia e che funzionano con accumulatori (batterie) fabbricati con tale materiale rappresentino la grande alternativa ecologica e sostenibile rispetto a quelle che funzionano ancora con combustibili fossili.
Il ruolo assegnato al litio è quello di sostituire il petrolio come fornitore di energia per muovere il mondo a partire dal terzo e dal quarto decennio di questo secolo.
Nel triangolo formato dai deserti di sale di Uyuni in Bolivia, Atacama in Cile e Hombre Muerto in Argentina si concentra più dell’80% delle riserve di litio che, finora, sono state confermate e certificate nel mondo. Nel Salar de Uyuni, nel sudovest boliviano, si trova più del 50% del litio conosciuto e certificato fino ad oggi sulla terra. Due anni fa Jerome Clayton Glenn, direttore del Progetto Millennio delle Nazioni Unite, ha dichiarato che “in un futuro prossimo la Bolivia potrebbe convertirsi nel fornitore di combustibile del pianeta”, cosa che non fa altro che confermare le enormi possibilità energetiche che il paese altipianico possiede per il futuro. Lo scorso gennaio la Direzione Nazionale delle Risorse Evaporitiche della Bolivia ha stimato che il totale delle riserve di litio ubicate nel Salar de Uyuni ammontano almeno a 18 milioni di tonnellate. Da Washington e da altri centri del potere e della propaganda mondiale, il Cile è stato promosso come il grande fornitore di litio per il mondo, mettendone in evidenza la legislazione mineraria neoliberale e il rigido allineamento dei successivi governi australi con gli interessi statunitensi nella regione. Gli elogi fatti al Cile sono una strategia per squalificare e colpire gli sforzi dello stato boliviano nell’intento di sfruttarne la ricchezza di litio processandolo nel suo territorio. Questi sarebbero anche gli scopi tattici che si cerca di raggiungere con l’annuncio della scoperta di giganteschi giacimenti di litio nel sud dell’Afghanistan. In altre parole, si vuole diminuire l’importanza dei giacimenti boliviani per indebolire così la capacità di negoziazione con le imprese e i paesi con i quali il governo di Evo Morales è in trattative per l’industrializzazione del litio nel suo paese.
Il coltan è invece una combinazione di columbite, tantalite e manganesio. Il tantalio (uno dei minerali che lo costituiscono) è un superconduttore che sopporta elevate temperature, resiste alla corrosione e possiede, come il litio, una sorprendente capacità di immagazzinamento di cariche elettriche. Il coltan è il materiale fondamentale per la fabbricazione di condensatori, microchip, microcircuiti per computer, cellulari, console per videogiochi, sistemi di posizionamento globale, satelliti, missili telediretti e altri apparati di microelettronica, senza parlare del suo attuale utilizzo negli immancabili impianti mammari.
Fino ad ora si pensava che i giacimenti di coltan si trovassero in consistenti quantità solo nei paesi dell’Africa centro-orientale, nella zona dei grandi laghi (Congo, Ruanda, Burundi). Tuttavia l’anno scorso il Venezuela ha annunciato la scoperta di coltan nello stato meridionale di Amazonas con riserve che, in un primo momento, sono state stimate superare i 100 mila milioni di dollari, cosa che va ad aumentare, nel caso in cui fosse possibile, l’importanza strategica del paese bolivariano nello scenario geopolitico dell’energia del mondo contemporaneo.

Variabili geopolitiche
I fatti segnalati in precedenza presentano profonde implicazioni geopolitiche. Date le dimensioni delle sue gigantesche riserve di idrocarburi (il Venezuela sarà l’ultimo paese sulla terra a raggiungere il picco di produzione, attorno all’anno 2067), la nazione bolivariana sembra avviarsi a svolgere un ruolo dominante nel mercato petrolifero mondiale per il secolo appena iniziato, ruolo che deterrà illegittimamente anche la Bolivia per quanto riguarda il cosiddetto combustibile del XXI secolo, ossia il litio.
A tal proposito bisogna ricordare che i governi di questi due paesi sono stretti alleati politici e ideologici e cofondatori dell’Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA) che, vista da quest’ottica, non assomiglia più tanto a un club di utopisti e sognatori, di propulsori di cambiamenti profondi e strutturali sottoforma di un’organizzazione sociale, politica ed economica delle loro società. Sia il Comandante Chávez sia il Presidente Evo Morales hanno annunciato l’intenzione di costruire modelli di convivenza umana e planetaria diversi dal capitalismo.
Il nostro attuale modello di civiltà si basa, è bene ricordarlo, sulla disponibilità e il consumo (spreco) di ingenti quantità di energia, e pertanto è legittimo affermare che chi controlla le fonti di energia avrà la possibilità di influire in modo significativo sui modelli e le forme di organizzazione sociale e di convivenza che l’umanità adotterà nei prossimi decenni. La Bolivia con il suo concetto di Sumak Kawsay, o tesi del Buen Vivir, proveniente dalle migliori tradizioni indigene dei popoli che costituiscono questo stato plurinazionale, e il Venezuela con la sua ricerca di un socialismo adatto ed evoluto per le realtà del secolo attuale, sono alcune delle poche alternative presenti nel mondo contemporaneo per sfidare, nella teoria e nella pratica, il capitalismo globalizzato.
A questo si deve aggiungere che in Brasile, primo produttore mondiale di biocombustibili, sebbene le sue élite e classi governanti non stiano sostenendo modelli alternativi o eterodossi di organizzazione sociale, stanno però cercando di modificare l’ordine unipolare che attualmente vige nel mondo. Pertanto, negli uffici di analisi geopolitica dei palazzi di Planalto e Itamaraty, si stanno di sicuro considerando in modo serio le possibilità che in questo senso verrebbero date al paese grazie a un’alleanza con il Venezuela petrolifero di Chávez o la Bolivia litifera di Evo.
Un’asse energetica Brasilia-Caracas-La Paz (Etanolo-Petrolio-Litio) ricoprirebbe una posizione dominante nel mercato dell’energia mondiale del XXI secolo, e sarebbe in grado di imporre condizioni e regole all’interno della multipolarità mondiale che creerebbe il suo consolidamento.
I geostrateghi cinesi e russi, sebbene lontani dalle concezioni marxiste o perfino progressiste delle relazioni internazionali dei loro rispettivi paesi, non possono aver smesso di avvertire le enormi implicazioni di potere offerte dagli scenari sopra descritti per la costruzione di un nuovo scenario mondiale. Pertanto, con il sostegno dei loro rispettivi governi, alcune imprese cinesi e russe si stanno già posizionando nella regione.
A loro volta gli analisti statunitensi hanno previsto questi scenari e ciò spiega il gigantesco e rinnovato spiegamento militare (le basi, la IV flotta, i neogolpe di stato) che hanno realizzato nella regione negli ultimi anni. Per gli interessi statunitensi controllare il Sud America, specialmente i suoi movimenti nazionalisti e anticapitalisti, non è solo una scommessa economica ed ideologica ma un imperativo di sopravvivenza imperialista. Il controllo delle riserve energetiche del Sud America, e in modo particolare di quelle petrolifere del Venezuela, rappresenta una condizione necessaria per garantire la sua retroguardia petrolifera ed avere le mani libere per cercare di controllare le aree petrolifere del Medio Oriente e del Mar Caspio e, nel caso in cui non le controllasse, per destabilizzarle al massimo e impedirne così il libero accesso da parte di asiatici ed europei.
L’insediamento di sette basi militari nel paese neogranadino ha portato l’internazionalista azteco Alfredo Jalife Rame a chiedersi sulla pagina web del quotidiano messicano La Jornada: “L’installazione delle basi militari statunitensi in Colombia, assieme ai tentativi di balcanizzazione dei paesi petroliferi della zona (Bolivia, Ecuador, Venezuela) non faranno parte del piano bellico di Washington per gli idrocarburi e i metalli strategici, come il litio, del Sud America?”
I think tank statunitensi ritengono che le sollevazioni, le rivolte e le agitazioni nel mondo arabo e musulmano contro l’ordine economico, sociale e politico imposto a queste società da regimi tirannici e antipopolari, la cui unica ragione di essere per decenni è stata quella di garantire il saccheggio delle ricchezze idrocarburifere di questi paesi da parte delle grandi corporazioni transnazionali, sono inevitabili, come si è potuto osservare nelle ultime settimane in Tunisia, Algeria, Egitto, Yemen e Giordania. Perciò, il controllo delle risorse energetiche di quello che per anni gli Stati Uniti hanno considerato come “il loro cortile posteriore”, il Sud America, gli si presenta come un imperativo assoluto.
Un Sud America unito e integrato è il peggior scenario che i circoli del potere imperialista possano arrivare a visualizzare per i loro interessi nella regione e, per questo motivo, mettendo in pratica il vecchio proverbio romano divide et impera, negli ultimi anni i governi degli Stati Uniti hanno ordito piani per impedire o sabotare qualsiasi forma di associazione o integrazione in America Latina e nei Caraibi. Pertanto, iniziative come l’ALBA, il Sucre, la Comunità Sudamericana delle Nazioni, Petrocaribe, Petroandina, Petroamérica, Unasur e Mercosur, che non solo implicano accordi in ambito economico ma che rappresentano i presupposti necessari per gettare le basi per una maggiore e più profonda integrazione politica, sono prese di mira e attaccate con forza da un potere imperialista che trova la sua principale forza nella divisione e nell’isolamento dal resto del mondo.
L’energia può essere lo strumento necessario per aggiustare questi processi di integrazione sudamericana e allo stesso tempo convertirsi nella sua lettera di presentazione per il mondo multipolare che si sta iniziando a formare in questo secolo appena iniziato.

Joel Sangronis Padrón è professore all’Università Nazionale Sperimentale Rafael Maria Baralt (UNERMB) in Venezuela.
Traduzione di Sara Rosset
Fonte

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