lunedì 6 luglio 2009

PRIMI MORTI IN HONDURAS

Si chiamava Isis Obed Murillo, aveva 19 anni e una faccia da bambino. Lo hanno ammazzato con un colpo alla nuca mentre si allontanava dalle recinzioni dell’aeroporto di Tegucigalpa presidiato da mezzo esercito honduregno armato fino ai denti.

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Lo ha ammazzato un soldato che, secondo innumerevoli testimonianze, si è inquadrato, ha mirato e ha puntato proprio alla nuca di Isis secondo uno schema che è di tutti i regimi repressivi: colpire per terrorizzare, “shock and awe”.

di Gennaro Carotenuto

Con Isis si conta almeno un altro morto, molti feriti con colpi di arma da fuoco, decine di persone picchiate selvaggiamente e un numero imprecisato di arresti che starebbero continuando in queste ore, piena notte in Centroamerica. Oggi però il “Fronte contro il colpo di Stato” è convocato ancora e “chissà – come ci ha detto nella notte P.T. nell’intervista pubblicata in esclusiva – se prevarrà l’indignazione o la paura”.


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La repressione di una folla pacifica che ha sfidato lo stato d’assedio e che qualcuno ha calcolato in mezzo milione di persone (più prudentemente centomila, 40.000 perfino per le autorità golpiste), non è il solo fatto politico sul fronte internazionale e sul fronte interno della crisi honduregna. Per tutto il giorno di domenica si sono succedute notizie la più importante delle quali è forse la dissociazione della polizia dalla repressione. Con un comunicato ufficiale la polizia honduregna ci tiene a far sapere che la responsabilità è tutta dell’esercito. Non si schiera contro il golpe ma si prepara per essere un’alternativa accettabile in caso di caduta del regime.

Quando mancava mezzora all'atterraggio dell'aereo su cui viaggiava il Presidente Zelaya, reparti militari e cecchini appostati all'interno dell'aeroporto, hanno aperto il fuoco ad alteza d'uomo contro i manifestanti.
Sono morte 2 persone, colpite direttamente alla testa con armi di alta precisione. I bossoli raccolti ed esibiti dai manifestanti testimoniano che si tratta di armi in possesso dell'esercito.
Il colonnello Mendoza, capo della polizia, un'ora prima dell'esecuzione a freddo contro civili disarmati, aveva annunciato publicamente che avrebbe ritirato i suoi uomini dalla zona aeroportuale. I veicoli della polizia hanno trasportato i numerosi feriti verso gli ospedali.
Questo indica che c'e' stato una frattura tra le fila golpiste, non altrettanto è avvenuto nei reparti militari. Costoro, per evitare la probabile e possibile invasione delle piste da parte della folla in attesa del Presidente Zelaya, hanno sparato contro gente indifesa.

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La folla festante aveva gia' aperto dei varchi nella rete di recinzione metallica dell'aeroporto, e se riusciva ad entrare all'interno, avrebbe rimosso i camion che erano stati predisposti lungo le piste per rendere . impossibile l'atterraggio dell'aereo presidenziale.
La responsabilità delle uccisioni appartiene ai reparti militari, a cecchini e soldati che non hanno combattuto contro altri soldati, ma contro dei civili inermi. Sono dei volgari killers"
.
Durante questi tragici eventi, le reti televisive rimaste operanti in Hondura, trasmettevano film e cartoni animati. Tutte le altre radio e Tv sono ancora chiuse, e si registrano vari gornalisti uccisi in agguati nel corso della notte del sabato.
Nel corso del pomeriggio, tra i pochi aerei cui e' stato permesso di decollare, c'era uno di Continental su cui ha viaggiato l'ex-presidente Ricardo Flores, designato come il cervello occulto di questo golpe, che è scappato a Miami.”


Se il Cardinal Maradiaga al contrario fa quadrato con i golpisti (per la tristezza di chi lo aveva considerato un papabile se non progressista almeno non allineato), altri spezzoni della classe dirigente honduregna vorrebbero trattare la resa ma non hanno ancora la forza per farlo. Qualcuno, tra questi l’ex presidente Carlos Flores, avrebbe preferito uscire dal paese per non essere travolto da eventi in evoluzione ora per ora. Quello che è certo è che il popolo honduregno, i movimenti sociali, indigeni, popolari e sindacali, stano offrendo una sensazionale dimostrazione di resistenza non violenta al colpo di stato anche quando questo si rivela brutale come nella tradizione centroamericana. Al di là delle divisioni interne che non sono ancora maturate in una fronda che rappresenti un indebolimento effettivo, la giunta golpista ha dato in queste ultime 24 ore prova di un ottuso arroccamento. L’isolamento internazionale è netto e non ci sono indizi che possa indebolirsi. Tuttavia il silenzio di Barack Obama, che secondo Hugo Chávez sarebbe prigioniero dell’impero, è un indizio di trama nera: vuole ma non può? Se così fosse, se davvero fossimo di fronte a servizi deviati statunitensi che non rispondono al presidente incoraggiando sottobanco i golpisti (molti commentatori lo pensano, chi scrive è scettico) allora il golpe honduregno sarebbe in realtà anche un golpe contro Obama che si è compromesso nei giorni scorsi di fronte all’opinione pubblica mondiale insieme al suo segretario di Stato Hillary Clinton: “Manuel Zelaya è l’unico presidente che riconosciamo”.

Chissà se contano davvero sulle tradizionali protezioni internazionali (le multinazionali, gli apparati del complesso militare-industriale statunitense, il sistema monopolista dell’informazione) i golpisti honduregni o se sono semplicemente accecati dall’odio verso le classi popolari con le quali un loro esponente come Mel Zelaya ha inopinatamente dialogato in questi anni. Di certo non hanno potuto contare sul fronte politico-diplomatico, l’ONU, l’OSA, la stessa UE.

Di fronte allo schieramento raramente così chiaro della comunità internazionale la risposta è stata una scandalosa minaccia da parte del ministro degli Esteri golpista Enrique Ortiz (che da vero gorilla in giornata ha definito Obama “il negretto”): “Non vorremmo che per il capriccio dell’OSA finisca per morire qualche presidente”. Bene hanno fatto i presidenti di Argentina, Ecuador e Paraguay a rinunciare ad accompagnare Zelaya a Tegucigalpa rischiando di cadere in un’imboscata. Bene ha fatto il presidente legittimo, accompagnato dal presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite Manuel D’Escoto ad andare comunque e rinunciare solo di fronte alla materiale occupazione di tutte le piste dell’aeroporto internazionale da parte dell’esercito. Il XXI secolo non può essere tempo per colpi di stato né per accettare il fatto compiuto.
Adesso Zelaya è in Salvador dove il concerto latinoamericano proverà a tessere la tela per trovare la strada per ritentare il rientro in patria: “Il governo di fatto ha dimostrato di rappresentare solo se stesso e in una settimana non è riuscito a piegare la resistenza al golpe arrivando a sparare sul popolo. Perché torni la calma l’unica maniera è restaurare il governo legittimo, poi si potrà dialogare in forma cristiana, democratica, umana”.


Sbaglia chi considera marginale la crisi honduregna. Secondo Cristina Fernández, presidente argentina, l’impegno diplomatico di questi giorni: “è la cartina tornasole della capacità di costruire un mondo multipolare e multilaterale con organismi che rappresentino tutti”. E’ puerile chi sotto sotto (e sono in tanti) fa il tifo per i golpisti per dare una lezione agli odiati governi integrazionisti e in particolare a Hugo Chávez. Forse hanno già deciso da che parte stare e non si pongono il problema se in America latina torna il tempo dei gorilla. Per loro la democrazia, il voto, la partecipazione popolare per non dire della giustizia sociale, sono beni sacrificabili.

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